di GISO AMENDOLA.

Il diritto moderno nasce in un rapporto molto stretto con l’idea di confine. Questo diritto si sviluppa entro precisi confini geografici, quelli che dividono gli stati nazionali; nello stesso tempo, un altro tipo di confine separa gli spazi del politico e del sociale, istituendo così la moderna «trascendenza» del diritto (e del comando) sulla società. Tutta questa geografia oggi non regge più, «stirata» sia verso l’alto, dalla costruzione di nuovi livelli trasnazionali di produzione di norme e di decisione politica, sia verso il basso, da una proliferazione sempre più frammentata e pluralistica di sistemi normativi.

Nella consapevolezza di questa determinazione storica del nesso tra spazi confinati, forma statuale e forma giuridica, Francesco Brancaccio e Chiara Giorgi, curatori di questo Ai confini del diritto. Poteri, istituzioni soggettività (DeriveApprodi, pp. 162, € 17, volume che nasce da seminari che hanno coinvolto diverse realtà romane nel 2015), prendono rigorosamente le distanze sia dai diffusi discorsi sulla crisi dello Stato, che si limitano a diagnosticare il suo più o meno lineare deperimento, sia dalla ancora peggiore retorica di chi ravvisa suoi implausibili «ritorni».

La sfida è invece quella di provare a comprendere le modificazioni radicali del ruolo dello stato, una volta che, fuoriuscito dai cardini ai quali lo assicurava la ben precisa prospettiva spaziale e l’altrettanto specifica temporalità del progetto moderno (Schiera), comincia a funzionare invece come nodo della stessa globalizzazione.

Gli interventi del libro mostrano, inoltre, una felice assunzione metodologica: nessuna diagnosi delle trasformazioni della forma giuridica è possibile senza calarsi nella materialità delle trasformazioni della produzione. Il costituzionalismo moderno non è una formula normativamente astratta, ma è la concretizzazione di equilibri storicamente dati: ingenua sarebbe ogni riproposizione della sfida costituzionalistica che non si confronti con la loro crisi (Azzariti).

In particolare, Negri definisce il rapporto tra costituzione e socializzazione della produzione: se il costituzionalismo prova a «costituzionalizzare il capitale», l’esito è stato però la trasformazione della costituzione stessa in un dispositivo funzionale alla socializzazione delle forze produttive. Nella finanziarizzazione, questa mediazione costituzionale si rompe definitivamente: da un lato, sempre più elementi di comando, a carattere emergenziale, anche se non assimilabili all’antica «eccezione sovrana»; dall’altro lato, una forza lavoro che opera cooperando attraverso la condivisione di linguaggi, affetti e capacità comunicative, e incamera così inedite potenzialità di autorganizzazione autonoma.

Proprio questo salto qualitativo della cooperazione sociale, fa sì che la rottura della mediazione moderna si configuri al tempo stesso come spazio per la possibile invenzione di nuove istituzioni. Non si tratta, però, di dare vita a un qualche «neoistituzionalismo»: anzi, l’alfabeto dell’istituzionalismo classico, quello dell’istituzione come «persona giuridica», deve essere abbandonato, poiché è sempre stato funzionale allo statualismo e ai suoi esiti più conservatori (Napoli).

Si tratta invece di sperimentare istituzioni (anche) giuridiche a partire dalle nuove forme della cooperazione sociale, e da una nuova produzione di soggettività che rompe i confini della cittadinanza classica, oramai incapace di mediare stabilmente tra universalismo dei diritti e particolarismo dell’appartenza (Costa), e soprattutto che appare ancora tutta modellata sul cittadino lavoratore maschio autoctono, ed è quindi battuta in breccia dalla nuova irruzione dei movimenti femministi (Bonacchi) e dalla forza trasformatrice dai movimenti migratori.

La potenza di questa nuova cooperazione sociale è emersa nei movimenti del 2011, dalle primavere arabe al 15M spagnolo (Sánchez Cedillo), e permette oggi di guardare a una democrazia poststatuale, nel segno di un inedito federalismo su più livelli, attraversato dalle esperienze neomunicipaliste (Illuminati). A differenza degli istituzionalismi storici, queste istituzioni però non costituiscono «mediazioni»: vanno intese piuttosto come contropoteri, che permettono un accumulo di forza, in un capitalismo globale in cui, non per «statofobia», ma per consapevolezza realistica sul ruolo che gli stati giocano nei meccanismi di estrazione del valore, nessuno può più illudersi che il potere da prendere sia ancora quello statale (Mezzadra-Neilson). La sfida cruciale, per evitare di ricadere in una semplice riarticolazione «istituzionalistica» del tradizionale diritto pubblico statuale, resta allora quella di riuscire a tenere sempre aperto questo rapporto tra costruzione di contropoteri e produzione del comune, tra invenzione istituzionale e lotte per distruggere tutti i dispositivi proprietari e identitari.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 27 febbraio 2018

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