di MARCO BASCETTA*. Che cosa sia la povertà sono da sempre solo i poveri a saperlo davvero. E invece è sempre stata una burocrazia (o una chiesa), sulla base di proiezioni ideologiche, delle gerarchie sociali vigenti e dei conseguenti parametri economici a stabilire i contorni di questa condizione e la terapia da applicare per ridurne i sintomi e le complicanze. Quel che è certo è che i poveri sono sempre stati infinitamente più numerosi di quanti venissero ufficialmente riconosciuti come tali. Oggi il tema della “lotta alla povertà” o contro l’esclusione sociale, come preferisce esprimersi una governance con infarinatura sociologica, è al centro della propaganda di diverse forze politiche. Cosicché l’assegno da 190 a 485 euro che dal gennaio di quest’anno dovrebbe essere erogato a circa 660mila famiglie italiane che tirano a campare con meno di 6000 euro annui (certificati Isee), prende il nome di “reddito di inclusione”. La confusione tra povertà ed esclusione è il primo equivoco da smantellare. Esiste infatti un crescente numero di poveri perfettamente integrati nei processi di produzione e di socializzazione riferiti all‘esteso bacino del lavoro intermittente, precario, semigratuito. Sarebbe dunque proprio la natura di questa inclusione fatta di redditi minimi, alti tassi di sfruttamento ed estrema ricattabilità a dover essere combattuta. Essa si configura infatti come una vera e propria macchina di produzione della povertà che quanti fanno mostra di voler contrastare la crescita del disagio sociale si guardano bene dal mettere in questione. Spesso è invece proprio questo tipo di inclusione ai più bassi livelli che co- loro che versano in condizioni di povertà estrema sono prima indotti, poi costretti, ad accettare. Il “reddito di inclusione” prevede infatti, in termini abbastanza vaghi da consentire futuri giri di vite e ricorso a strumenti vessatori, un processo “attivo” che conduca i soggetti assistiti al recupero dell’ “autonomia”. Il termine non designa però nessuna effettiva libertà di scelta, ma, beffardamente, solo il raggiungimento di condizioni tali da determinare la sospensione del sussidio.

Grande è la confusione tecnica e terminologica che regna in questa materia: social card, “reddito di inclusione”, reddito di esistenza o di “dignità”, tassonomia dei beneficiari, entità degli assegni, farraginose procedure di erogazione e controllo. In mezzo alla baraonda delle proposte politiche e delle propagande di partito, il vanto dei promotori del Rei è quello di aver varato per la prima volta, riunificando diversi ammortizzatori sociali, una misura di natura universalistica. Definizione che mal si attaglia alla ristretta platea dei beneficiari e alle numerose condizioni cui devono sottostare.

 Questo strumentario della “lotta alla povertà” si schiera esplicitamente in contrasto e in concorrenza con il reddito di cittadinanza che si propone invece, nelle versioni più coerenti con la sua base teorica e i suoi principi costitutivi, come sistema, questo si universalistico, di redistribuzione della ricchezza in un mondo caratterizzato dall’automazione, dalla rarefazione e dall’intermittenza del lavoro, dalla produttività di una cooperazione sociale non riconosciuta nella sua determinante potenza e sfruttata senza alcuna contropartita. Non è dunque all’indigenza degli “esclusi” che il reddito di cittadinanza si rivolge, ma alla povertà attiva strutturalmente inclusa nel modo di produzione contemporaneo. Il termine è stato tuttavia trafugato, per esempio dal Movimento 5 stelle, per designare un sussidio in tutto e per tutto simile a quelli previsti nella logica della “lotta alla povertà” che si propongono di piegare, in un modo o nell’altro, comunque eterodiretto, i percettori temporanei del reddito alla disciplina di un lavoro purchessia. Ma quale è l’idea di “povertà” cui si riferiscono queste concezioni? Sostanzialmente quella di una indigenza sprovveduta e attonita, uno stato di disgra- zia in cui gli incolpevoli sarebbero stati precipitati da qualcosa di equiparabile a un evento naturale, laddove un terremoto, la crisi economica globale o la perfidia di un banchiere finiscono con l’assumere la medesima valenza. O, peggio ancora, quella concezione secondo cui la povertà costituirebbe un vizio da curare o una colpa da cui redimersi. Paternalismo e costrizione, carità e disciplinamento sono dunque gli estremi tra i quali si dispiega la lotta alla povertà. L’oscillazione terminologica tradisce la contiguità o l’intreccio tra queste connotazioni, tutte accomunate dal ritenere la povertà una deriva patologica dal buon funzionamento del sistema.

È cosa nota che in epoca moderna le politiche di “lotta alla povertà” hanno coinciso generalmente con quei dispositivi di controllo della popolazione, del tutto indifferenti al benessere e alla libertà dei singoli, ma esplicitamente rivolte alle necessità della macchina produttiva e al mantenimento dell’ordine pubblico. A questi due obiettivi si è poi aggiunto quello, ormai scolpito nelle Costituzioni, del contenimento della spesa pubblica. È oltreatlantico che i connotati disciplinari dell’assistenza sociale prendono il massimo slancio con la mostruosa “riforma”, progettata dagli ambienti più conservatori del Partito repubblicano, votata dal Congresso nell’agosto del 1996 e firmata dal presidente Clinton. Una legge che fece scrivere al New York Times: “Sembra che il Congresso si sia stancato della guerra contro la povertà e abbia deciso di indire, al suo posto, una guerra contro i poveri”. Questa guerra, ampiamente descritta dal sociologo francese Lois Wacquant in un volume del 2004 intitolato Punire i poveri (trad.it. Deriveapprodi ), fu condotta sotto la bandiera del “far passare la gente dall’assistenza all’occupa- zione”. Sebbene qui si tratti più del taglio dei sussidi che non della loro erogazione condizionata, una medesima logica dell’esclusione da includere, con le buone o con le cattive, accomuna la lotta alla povertà a quella contro i poveri. Già prima della riforma, infatti, i sussidi negli Usa non permettevano a nessuno di dipenderne integralmente. I poveri che ne beneficiavano erano comunque costretti a darsi da fare negli scantinati della gerarchia sociale. Questa finzione di una “dipendenza”, passiva quando non colpevole, dei poveri ha il preciso scopo di escludere dalle politiche che li riguardano qualunque ipotesi di responsabilità sociale per l’estensione crescente di questa condizione e, soprattutto, qualsiasi idea di una equa redistribuzione della ricchezza prodotta.

Nel Vecchio continente è il disciplinamento dei disoccupati, nella forma ipo- crita di una “responsabilizzazione”, a illuminare la via illusoria “dall’assistenza all’occupazione”. Recentemente i disoccupati britannici di lungo corso (200.000 persone, si stima) hanno sperimentato sulla propria pelle l’affermarsi di questa tendenza, già ampiamente sviluppata in Germania con il sistema Harz IV che vincola a un rigido sistema di obblighi i beneficiari di sussidi. Per continuare a percepire il misero assegno di circa 90 euro alla settimana che viene loro riconosciuto dovranno sottomettersi a una delle seguenti alternative: eseguire lavori socialmente utili, seguire un corso di formazione o recarsi quotidianamente al Centro per l’impiego come puro e semplice atto di devozione. Il progenitore di tutte queste pedagogie sociali fondate sull’obbligo del lavoro (deciso nelle forme e nei livelli di retribuzione da chi generosa- mente lo elargisce) è facilmente riconoscibile in quella famosa legge inglese sui poveri del 1834 che, proibendo ogni altra forma di assistenza, imponeva di rinchiuderli all’interno di opifici così strettamente disciplinati e austeri da rendere per nulla invidiabile il destino di chi vi fosse stato confinato. Lo scopo, oltre a quello del controllo sociale diretto sulle fasce più povere della popolazione, consisteva nello spingere gli operai ad accettare anche le più sfavorevoli condizioni di lavoro pur di non precipitare in una così spaventosa condizione. Lo stesso risultato che anche oggi, pur passando dalle costose fabbriche-carcere a più flessibili strumenti di vessazione, si vuole ottenere: rendere i disoccupati (e indirettamente anche gli occupati dall’incerto destino), sempre meno esigenti e liberi di scegliere.

Fatto sta che nel 1834 il Regno unito si trovava nel pieno di un poderoso processo di industrializzazione e già da più di un secolo si trattava di piegare una intera popolazione riottosa alla disciplina manifatturiera. L’ideologia aderiva bene o male alla materialità delle circostanze. Il workfare contemporaneo, al contrario, non corrisponde ad alcuna realtà concreta. Nel mondo dell’automazione e della digitalizzazione dispiegate nessuna ripresa produttiva potrà mai riassorbire le schiere sempre più folte degli inoccupati e solo una frazione trascurabile della povertà attuale può essere anche vagamente paragonata all’indigenza interamente improduttiva del passato. Gran parte dei disoccupati si dedicano, infatti, ad attività che, pur non riconosciute come lavoro, contribuiscono in misura per nulla trascurabile alla vita sociale e culturale. Queste attività hanno, tuttavia, un grave difetto agli occhi dei legislatori britannici: sono liberamente scelte e non onorano le leggi del mercato. Vanno dunque sostituite, nella migliore tradizione statualistico-autoritaria, con il lavoro coatto, del tutto indipendentemente dalla sua utilità reale: lavoro fittizio, o lavoro gratuito destinato a sfoltire o quantomeno a ricattare le schiere degli occupati. Altrettanto fittizi e orientati verso sbocchi immaginari sono il più delle volte i corsi di formazione progettati dalle burocrazie pubbliche. Quanto alla terza alternativa, è quella che più smaccatamente rivela i suoi caratteri squisitamente ideologici e disciplinari: si tratta di pura e semplice espiazione quotidiana al cospetto di un annoiato operatore assistenziale.

Il secondo obiettivo delle misure vessatorie contenute in questa normativa britannica (beffardamente denominata Help to work) è la riduzione della spesa sociale. Sottoponendo a condizioni umilianti l’accesso ai benefici as- sistenziali si suppone di riuscire a scoraggiare i più dal domandarli. Fatto sta che la finzione del lavoro, o quella della formazione, sono ben più onerose della concessione di un sussidio o di un reddito universale senza contropartite. Comportano consumi di materiali e di energia, nonché pletorici apparati di controllo. Ragion per cui diversi economisti si sono espressi contro questo programma che, oltre alle scarse possibilità di ricondurre un numero significativo di inoccupati nel mondo del lavoro, non comporterebbe neanche alcun risparmio. Ma il workfare non risponde ad alcuna razionalità economica, il suo significato, ideologico e politico, consiste esclusivamente nel ribadire la rigidità delle gerarchie sociali e l’accentramento in poche mani del potere di modulare a proprio piacimento i flussi della redistribuzione, per potersene servire a fini di ricatto.

La costrizione al lavoro e l’inclusione degli esclusi, nelle diverse forme della lotta alla povertà, presuppongono entrambi la manipolazione di soggettività sprovvedute e passive partorite dalla fantasia malata (e interessata) dei riformatori neoliberisti. Anche quando, nelle campagne elettorali, prevale la messa in scena della generosa elargizione.

*tratto da BIN-Italia, Quaderni per il Reddito N° 8, Febbraio 2018, Oltre il Reddito di Inclusione, un reddito garantito come diritto di base  (poi parzialmente ripubblicato in il manifesto, 9 marzo 2018); immagini tratte da I, Daniel Blake, di Ken Loach.

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