di GIACOMO PISANI. Quando dici reddito, in Italia, ormai ti rispondono, senza troppi giri: Movimento 5 Stelle. Il dibattito successivo alle elezioni ha forse dato ancor più risalto a un dispositivo su cui i 5 Stelle stanno puntando da anni, e che è stato anche oggetto di una proposta di legge durante la scorsa legislatura.

Come ha scritto recentemente Roberto Ciccarelli, è evidente che la sinistra, in Italia, non ha capito nulla di quella proposta. Pur di correre ai ripari contro chi vuole sostituire il lavoro con il reddito, non si è accorta che il “reddito di cittadinanza” dei 5 Stelle, al di là del nome, non si oppone affatto alla centralità del lavoro, come fattore di realizzazione individuale e di coesione sociale. Piuttosto, esso rischia addirittura di tradursi in uno strumento di disciplinamento della forza lavoro, allineando le condotte dei beneficiari ai percorsi di inclusione e attivazione disposti dai centri per l’impiego.

Certo, rispetto al Reddito di Inclusione (ReI) del PD (nonché al Reddito di Dignità di Emiliano, in Puglia) il reddito di cittadinanza fa almeno due passi avanti. Innanzitutto si tratta di un dispositivo individuale, al contrario del ReI, che consiste in un sussidio per famiglie povere. Inoltre stabilisce la necessità che le proposte di lavoro, rifiutabili fino ad un numero massimo di tre, siano “congrue”, non solo dal punto di vista economico e rispetto alla distanza dalla propria abitazione, ma anche – nel primo anno – in relazione al profilo del beneficiario (competenze, attitudini etc.). Dopo il primo anno il profilo non conta più: ti tocca proprio sgobbare, qualunque sia il lavoro. Restano i parametri legati alla retribuzione e alla distanza.

Insomma, tutt’altro che superamento del lavoro, anti-lavorismo etc. Certo, la proposta non si discosta molto da quelle più avanzate, a sinistra. Tutte condividono l’idea che la realizzazione della persona passi attraverso il lavoro, e che il reddito debba essere associato ad altri strumenti in grado di includere le persone nel mondo del lavoro, favorendo la congruità fra le proposte di impego e il profilo del beneficiario. La proposta dei 5 Stelle, pur inserendosi in questo quadro, declina il dispositivo in senso autoritario, costringendo il beneficiario a dedicare ogni giorno parte del suo tempo alla ricerca di un impiego e, dopo un anno, ad accettare anche offerte non congrue con la sua formazione. Inoltre, il riferimento alla “cittadinanza”, vista l’ambiguità del Movimento sulla questione, rischia di tradurlo in un dispositivo escludente, teso a rinsaldare l’“identità” nazionale (su cui tanto sta facendo presa, a livello internazionale, la retorica revanscista degli ultimi tempi) entro i confini sanciti dal potere sovrano.

Ma è pur vero che le altre proposte di “reddito minimo garantito” avanzate in Italia (ad esempio il “reddito di dignità” della Rete dei Numeri Pari”) restano solo formulazioni di principio, che non sono state tradotte entro dispositivi strutturati. L’unico dispositivo di “reddito minimo garantito” articolato entro una proposta di legge strutturata, oltre al “reddito di cittadinanza” dei 5 Stelle, è quello presentato nel 2013 da SeL, che prevedeva la decadenza del beneficio già al primo rifiuto di una proposta di lavoro congrua.

Insomma, sembra proprio che il M5S abbia dovuto fare i conti con un cortocircuito. Far coincidere l’inclusione lavorativa con il solo lavoro “congruo”, come unica alternativa al reddito minimo, significa ignorare l’attuale insufficienza dello stato nella regolazione di un mercato che ha sempre più carattere trans-nazionale, entro il quale, tra l’altro, assumono valore anche funzioni non riconosciute in senso contrattuale e quindi non remunerate, che si aggiungono al lavoro gratuito svolto in forma di stage, tirocini etc., con la promessa di un riconoscimento successivo, rimandato a tempo indeterminato. Ma questo è un problema strutturale, che non investe soltanto la proposta dei 5 Stelle, ma qualsiasi idea di reddito finalizzato all’inclusione lavorativa. Tale prospettiva individua nella “congruità” il modo per trasformare il lavoro, come d’incanto, da strumento di costrizione a fattore di realizzazione, presupponendo che lo stato possa intervenire nella regolazione di un mercato che, al contrario, è sempre più sinonimo di alienazione, esclusione, ricatto. La realizzazione della persona sarebbe in ogni caso confinata entro le possibilità messe a disposizione dal mercato, la cui umanizzazione dovrebbe essere favorita dalla “pianificazione” di uno stato che non pianifica più nulla.

Curiosamente Grillo stesso, negli ultimi giorni, sembra essersi accorto del cortocircuito, superando, sul tema del reddito, il suo stesso movimento. In un recente intervento sulla “società senza lavoro” il “guru” dei 5 Stelle ha sostenuto la necessità di un “reddito per diritto di nascita”. Al di là del fatto che questo costringerebbe ad una discussione seria sulla cittadinanza, a proposito della quale, come ricordavamo, l’ambiguità del M5S rischia di declinare la proposta in senso nazionalista e xenofobo, Grillo sembra intendere, con questa espressione, un reddito di esistenza universale. Egli contesta il fatto che “siamo condizionati dall’idea che «tutti devono guadagnarsi da vivere», che “tutti devono essere impegnati in una sorta di fatica perché devono giustificare il loro diritto di esistere”. Un reddito di questo genere permetterebbe agli individui “di svilupparsi in modo libero, generando al tempo stesso il proprio sviluppo”. Come conclude nell’intervento, “soltanto così la società metterà al centro l’uomo e non il mercato”.

Ma la liberazione dalle maglie del mercato non è l’esito scontato e pacificato di una “società senza lavoro”. In una società che produce esclusione e sfruttamento, dentro e oltre i confini del lavoro salariato, il mercato, come la cittadinanza, è terreno di resistenza e conflitto. Il reddito di base incondizionato è, in questo senso, un dispositivo di liberazione delle differenze e delle potenzialità dei soggetti, oltre i limiti di ciò che è lecito e conveniente al mercato. Perché se persino la sopravvivenza è costretta all’interno del mercato, quest’ultimo, piuttosto che configurarsi nei termini di un campo di possibilità attraversabile e modificabile, diviene l’articolazione assoluta della realtà. Il reddito, in questa chiave, è la pre-condizione fondamentale per una riappropriazione politica, dal basso, della realtà, che rende possibile decidere e autodeterminarsi, rompendo i rapporti di dominazione. Insomma, tutt’altro che un dispositivo di stabilizzazione, come quello articolato dai 5 Stelle.

Non è un caso che, da anni, il reddito incondizionato sia una rivendicazione fondamentale dei movimenti sociali in tutto il mondo, e che oggi, sotto la denominazione di “reddito di autodeterminazione”, sia al centro del piano del movimento femminista globale “Non una di meno”, come arma contro il ricatto della violenza e della precarietà. Non è una bacchetta magica, né un artificio meramente teorico: è un’arma di conflitto, che dentro il mercato apre delle brecce. Perché solo i soggetti che resistono al potere e immaginano altri mondi possono rimettere in moto la storia.

 

 

 

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