di GIROLAMO DE MICHELE.

Cinque anni dopo Con i piedi nel lago, Cecco Bellosi ritorna, con Sotto l’ombra di un bel fiore. Il sogno tradito della Resistenza (Milieu 2018)  a narrare i luoghi del lago di Como, questa volta fissando la sua raffinata e curatissima penna su quel pugno di giorni che segnarono la storia d’Italia, nella tarda primavera del ’45, con la cattura e fucilazione di Mussolini e dei gerarchi fascisti. Nella quale si intreccia la tragica morte di Luigi Canali e Giuseppina Tuissi, il capitano Neri e Gianna, partigiani comunisti torturati dai fascisti e uccisi dai loro compagni perché sospettati di tradimento. A loro Bellosi aveva dedicato uno dei racconti del libro precedente; ora, mescolando con perizia narrazione romanzesca e accurato vaglio degli eventi e delle testimonianze, restituisce loro quella giustizia che mancò nei giorni convulsi del ’45, dimostrando come si possa parlare degli eventi più scabrosi della Resistenza senza cadere nelle falsificazioni alla Pansa, o nelle opinioni in libertà spacciate per verità con le quali Pisanò ha costruito la contronarrazione fascista della Resistenza.

Neri, leggendario comandante partigiano, e Gianna, staffetta e sua compagna, furono catturati dai fascisti nell’inverno del ’45; Neri riuscì a evadere, Gianna fu seviziata e violentata con crudele sadismo, facendo dei nomi sotto tortura. Su di loro fu emessa una sentenza, la cui esecuzione rimase sospesa per il prestigio di cui godeva fra i partigiani Neri: non a caso uno dei partigiani che giustiziarono Mussolini.
La loro vicenda è ripercorsa lungo tre momenti: il 1948, quando il calore degli aventi appena trascorsi si scontra con l’effetto dell’amnistia di Togliatti, che riporta fuori dalle galere – e nei ranghi delle forze dell’ordine, delle prefetture, degli uffici dello Stato, sugli scranni del Parlamento – i fascisti: un provvedimento di grazia e non di giustizia che, trasformandosi in amnesia, «si è incagliata nella bonaccia crudele dell’oblio».
Segue il 1957, quando a Padova ebbe luogo il processo per il presunto furto dell’oro di Dongo, che rappresentò il tentativo di processare la Resistenza nel suo complesso; e che vide riuniti nella «difesa convinta di una dignità comune», accanto al comunista Longo, Raffaele Cadorna ed Enrico Mattei: «loro avevano compreso che separare i destini, gettando il fango sui comunisti, avrebbe sporcato una nobile storia. Tutta e non solo una parte».
Qui Bellosi ci dà una vera lezione di metodo storico, distinguendo la storia reale – «la cattura di Mussolini e dello stato maggiore del fascismo da parte di uno sparuto, smagrito e lacero gruppo di partigiani» – dalla chincaglieria costruita a partire da ciò che quel 25 aprile 1945 era secondario o irrilevante – la borsa del Duce, i documenti riservati, l’oro: «La gente e gli storici improvvisati sanno ricostruire la storia al contrario, invertendo l’ordine dei fattori. E il prodotto cambia». L’obiettivo diretto è la narrazione pseudo-storica di Pisanò; ma, restando sul piano del metodo, non diversa è l’operazione storiografica compiuta da Miguel Gotor nelle sue fluviali ricostruzioni e curatele degli scritti dalla prigionia di Aldo Moro: dove quello che è un effetto, peraltro non di primo piano, del sequestro – le lettere, e soprattutto il cosiddetto Memoriale – viene fatto retroagire sull’evento principale – l’avere un’organizzazione armata sequestrato un esponente politico il cui ruolo era considerato centrale in base alla fallace e stolida teoria politica dello Stato Imperialista delle Multinazionali – sino a divenire il punto prospettico a partire dal quale viene dedotta l’intera struttura (compresi ipotetici organigrammi) delle Brigate Rosse. Con lo stesso rigore col quale Pisanò ricostruiva l’arresto e l’esecuzione di Mussolini: come se l’intera vicenda che si dipana dalla strage di via Fani al cadavere di Moro nella Renault 4 avesse sin dal principio lo scopo di produrre quel Memoriale che finisce con l’abbagliare lo sguardo di Gotor tal quale il fantomatico oro mussoliniano abbaglia quello di Pisanò.

Infine, nel 1967, quando le uova dei serpenti stanno per schiudersi e Paolo, socialista libertario, amico fraterno di Ignazio Silone, ricostruisce la prima strage di Stato, quella della Fiera di Milano del 1928, legata a quella di piazza Fontana come il passato remoto è legato al futuro anteriore, dove «il futuro anteriore è il modello del passato remoto»: a conferma dell’allucinazione visionaria di Borges (e Benjamin): «sono i posteri a creare gli antenati». Accanto a Paolo, Pedro, proveniente dall’aristocrazia toscana; Tom, partigiano coraggioso «che aveva scolpito nelle mani e nel volto il ferro che lavorava con forza e fatica ogni giorno»; Pietro, «un hombre vertical, nelle difficili scelte della sua esistenza»; e Bill, «vent’anni e fegato da vendere»: le loro voci, come attorno al tavolo di un’osteria o in un casolare di montagna, guidano il lettore nel dipanarsi della tragedia di Neri e Gianna: ma anche, nel rivoltare il tappeto dell’immediato dopoguerra per scoprirne, nel risvolto, i primi nodi del fascismo che sarebbe ritornato (non a caso la ricostruzione del fascista Pisanò della Resistenza come movimento criminale fu presentata in sintesi a quel convegno dell’Istituto Pollio che, nel 1965, diede l’avvio alla strategia della tensione): perché quello dei voltagabbana (dei quali Mussolini è stato il principe) è «il logo più amato dagli italiani»; perché «il fascismo, in sonno ma mai estirpato, giace nel ventre molle della gente», in attesa dell’apprendista stregone di turno; e perché quello italiano è «un Paese senza dignità e senza memoria», incapace di rielaborare colpe ed errori.

E qui, sul tema delle colpe e delle amnesie di questo paese indegno, il recensore si prende la responsabilità di leggere, nella filigrana della trama di Bellosi, un’altra storia di torture ed efferatezze: quella dell’uso sistematico della tortura nelle carceri e nelle caserme, in modo sistematico e non episodico, negli anni ’70 e ’80, col consenso esplicito o tacito ieri, e con la sistematica negazione fino ad oggi, dei tanti difensori dello “Stato democratico”; e, con parallela ferocia, le mani sporche dei tribunali e dei boia delle carceri che, nel divenire-Caino di una parte – per fortuna minoritaria – dei detenuti politici, sostituivano la teoria con il laccetto al collo, confermando per altre vie l’appartenenza a quell’album di famiglia di cui aveva scritto Rossana Rossanda nel 1978.

Ma ciascuno ha il proprio album, e la propria famiglia. E dunque, attorno alle figure partigiane del lago di Como, il partigiano Bellosi individua dei tipi umani, degli stili di vita che richiamano alla memoria la rivolta di Camus e la guerra partigiana di Fenoglio:

Pedro e Bill non erano partigiani politici, ma esistenziali: passionali di temperamento e narcisi innocenti della breve stagione di maggio. I comunisti possedevano la saldezza dell’acciaio; loro invece vivevano la coriacea fragilità del cristallo. Difficile dire chi sia stato più grande. Anche perché gli uni e gli altri sono stati dimenticati da un Paese senza memoria. Trasformati in peccati smarriti in confessionale.

Per tutti loro, e per noi che non dimentichiamo, scrive Cecco.

questo articolo è stato pubblicato, in versione più breve, sul manifesto del 12 aprile 2018

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