di UGO ROSSI.

[riprendiamo, dal sito INFOaut, l’intervento di Ugo Rossi alla presentazione dell’ebook “Città, spazi abbandonati, autogestione”  tenutasi a Bologna il 15 febbraio scorso]

Sono molto contento di essere qui oggi: purtroppo non potei esserci al convegno di ottobre, anche se c’ero col pensiero, perché credo sia stato un momento importante per costruire un confronto sugli studi urbani critici in Italia, ancora assente nei circuiti istituzionali della ricerca. Dagli anni ‘80 in poi, infatti, l’università italiana ha eretto un vero e proprio muro nei confronti della teoria critica e di un approccio trasformativo alla ricerca sociale. Il convegno di ottobre è stato quindi un primo momento, che spero possa essere seguito da altri sempre più ampi, di riflessione e confronto tra chi fa ricerca dentro l’università o in maniera indipendente sulla metropoli, sulle città, sulle trasformazioni capitalistiche dei nostri ambienti di vita urbani.

Credo che l’abbandono urbano sia un tema di grande attualità, perché coglie un aspetto fondamentale delle società contemporanee di “tardo neoliberalismo”, se le vogliamo chiamare così (“tardo” in quanto post-crisi): da un lato, esprime una tendenza di lungo periodo, vale a dire lo sviluppo diseguale dell’economia, per cui gli squilibri strutturali esistenti oggi tra città e regioni riproducono la dinamica storica dello sviluppo territoriale in ambito capitalistico; al tempo stesso, vi è qualcosa di nuovo negli ultimi anni, non solo perché – dato affatto trascurabile – tali squilibri si sono approfonditi rispetto al passato, ma anche perché la questione delle diseguaglianze sociali e territoriali è tornata al centro del dibattito pubblico, dopo essere stata a lungo relegata ai margini durante i decenni di ascesa incontrastata del neoliberalismo (dagli anni Ottanta alla fine degli anni 2000).

Uno spartiacque fondamentale in tal senso è rappresentato dalla crisi economica degli anni scorsi. È una crisi che nel mondo anglosassone di solito si definisce crisi del 2008, alla quale si fa seguire la “grande recessione” del 2009. Dal 2010 o precisamente dalla fine del 2009, negli Stati Uniti l’economia lentamente incomincia a crescere, sebbene restino irrisolte le contraddizioni che avevano fatto scatenare la crisi, a partire dalla finanziarizzazione dell’economia. Nel Sud Europa, come ben sappiamo, la crisi si è protratta ben oltre. Il 2010 ed il 2011 sono stati gli anni più difficili per l’economia dei paesi sud europei, inclusa quella italiana, con l’esplosione della crisi denominata dei “debiti sovrani”, ma gli effetti duraturi di stagnazione economica sono ben visibili ancora oggi in questa parte del continente.

Le conseguenze della crisi del 2008-9

La crisi di fine anni Duemila si è generata a partire dalle dinamiche (e dalle disfunzioni di tali dinamiche) di valorizzazione capitalistica delle città e del loro mercato immobiliare in una fase segnata dalla finanziarizzazione dell’economia e della vita sociale. È nata, in particolare, dal collasso del settore dei mutui immobiliari, di quello specifico comparto che erano i mutui subprime rivolti a soggetti sociali deboli, invendibili sul mercato ordinario dei mutui. Per ampliare il mercato e trarre profitto dal vuoto lasciato dal drastico ridimensionamento della politica degli alloggi pubblici nella fase neoliberale, era stata dunque creata una speciale offerta di mutui destinati a soggetti potenzialmente insolventi. La crisi del 2008 è scaturita dal fallimento di quel tentativo di catturare i poveri e le loro “nude vite” nelle maglie del credito ipotecario. Un tentativo che – in assenza di alternative – è destinato solo a essere rinviato a nuovi schemi e strumenti di finanziarizzazione della vita sociale.

È interessante paragonare la crisi del 2008 a un’altra crisi sistemica e strutturale della recente storia capitalistica, quella del 1973-75. Sono crisi molto diverse, ma entrambe hanno avuto una dimensione strutturale, organica. La crisi del ‘73-75 innescò, se si vede anche la letteratura che ne studiava gli effetti territoriali, una crisi urbana – la definizione più usata negli studi di fine anni ’70 fino alla metà degli anni ‘80. Perché appunto a quella crisi seguì una stagione di declino industriale (pensate alla crisi del triangolo industriale italiano, al superamento generale del fordismo ecc.) e di vera e propria crisi urbana. Oggi in una città come New York – in particolare a Manhattan e nelle aree “rigenerate” di Brooklyn – vi è una housing crisis causata dalla effervescenza del mercato immobiliare, nel senso che le case sono inaccessibili ai ceti medio-bassi a causa dei prezzi troppo elevati. La crisi abitativa prodotta dal surriscaldamento del mercato immobiliare (quello che Henri Lefebvre prima e David Harvey poi hanno chiamato il “circuito secondario” del capitale) è ulteriormente aggravata dal fenomeno globale della “turistificazione urbana” che ha un effetto di saturazione dell’offerta di alloggi. Solo gli spazi del commercio al dettaglio presentano vuoti significativi in queste aree centrali, perché molti negozi devono chiudere a causa del mix letale di prezzi elevati di locazione e boom del commercio on-line. A inizio anni ’90, invece, nella sola Manhattan c’era una percentuale di vacancy property rate, di immobili in disuso, sfitti, del 25%: quindi uno su quattro non era richiesto dal mercato.

La crisi finanziaria del 2008 ha dato vita a uno scenario completamente diverso. Per quanto fosse nata all’interno dell’economia urbana e delle sue disfunzioni, la crisi del 2008 ha innescato una domanda ancora più intensa per la città, per l’urbano. La ripresa dell’economia capitalistica si è fortemente incentrata sulla valorizzazione di ciò che offre la metropoli. Non è un caso che, dopo la comparsa delle tecnologie digitali interattive a partire dal 2007-8, quando ebbe origine il fenomeno dei social media, delle app ecc., la diffusione delle piattaforme digitali applicate a livello urbano (AirBnb e Uber, ad esempio, vengono fondate nel 2008-2009, ma anche altre come quelle per la consegna del cibo e Amazon, che ha attraversato una forte urbanizzazione in anni recenti) sia avvenuta a partire dal 2010, in coincidenza con la ripresa generale dell’economia statunitense. Non appena si è ripresa l’economia in generale, dapprima quella statunitense e a seguire quella internazionale, si è avuto lo slancio in avanti di queste nuove economie tecnologiche fortemente urbanizzate, della cosiddetta sharing economy, del capitalismo delle piattaforme, delle startup innovative.

L’età urbana: tra sussunzione e abbandono

L’età urbana di cui oggi si parla si caratterizza per la disseminazione e moltiplicazione degli insediamenti urbani. Ma, al di là di questa espressione materiale della età urbana (su cui si appunta di solito l’attenzione delle Nazioni Unite e di molti studiosi), ciò che si deve osservare è l’intensificazione della valorizzazione capitalistica dell’urbano, delle relazioni sociali, vale a dire del capitale cognitivo-affettivo contenuto negli ambienti di vita delle metropoli. Perché le economie delle piattaforme, della smart city, dei big data non fanno altro che sfruttare, sussumere un potenziale di interazione, di cooperazione sociale che risiede dentro la metropoli capitalistica. Dopo la crisi del 2008 vi è dunque l’avvento di una nuova età urbana, in cui la metropoli si afferma come sito privilegiato per un’economia capitalistica alle prese con gli effetti destabilizzanti della finanziarizzazione e della deregulation neoliberale.

In questo quadro, in particolare dopo l’“esplosione populista” del 2016 (Brexit e l’elezione di Trump), si è fatto largo un rinnovato interesse per il tema delle aree in declino, vale a dire degli spazi dell’abbandono urbano di cui parliamo oggi, anche da parte di esperti e organi di informazione moderati o conservatori solitamente poco sensibili al problema delle diseguaglianze sociali e territoriali. Il settimanale Economist, ad esempio, vi ha dedicato una copertina di recente. A tal proposito, è illuminante vedere che cosa dice quella che Jamie Peck – tra i più importanti geografi economici contemporanei – ha definito “l’urbanologia delle celebrità” (celebrity urbanology) di orientamento neoliberale. Dedico a questo tema il mio corso magistrale sulle “città creative” di quest’anno all’università di Torino; quindi ho elaborato alcune idee a riguardo che ora voglio sinteticamente esporre. Ci sono autori urbanologi che spiccano rispetto ad altri, in un panorama che si è fatto via via più affollato. Uno di questi è certamente Richard Florida, molto noto per la sua teoria della classe creativa; l’altro è Edward Glaeser, altrettanto noto ma forse un po’ meno al grande pubblico, che comunque è una academic star, professore ad Harvard e protagonista della rinascita della urban economics, un tempo campo marginale degli studi economici cosiddetti mainstream. Glaeser ha dato alle stampe nel 2011 un libro che è il manifesto della nuova urbanologia che si intitola Il trionfo della città. Nel corso che mi appresto a iniziare, mi propongo di confrontare queste due versioni della celebrity urbanology – convergenti in molti aspetti ma con differenze significative: una più liberal (Florida), l’altra più tipicamente neoliberale (Glaeser) – per offrirne una interpretazione critica. Nel suo libro, Glaeser decide di dismettere definitivamente i panni dell’economista conservatore-elitista (nei suoi lavori precedenti insisteva più sugli aspetti della sicurezza e della vivibilità degli spazi residenziali della classe media suburbana), affermando che la povertà tipica delle metropoli del Sud del mondo ha un grande potenziale di sviluppo, che la diversità etnica è una risorsa da valorizzare e che il disordine delle grandi città è indicatore di potenzialità ancora inespresse; inoltre, e lo dice con chiarezza, dando precise indicazioni ai governanti, bisogna evitare di investire negli spazi marginali periferici, nelle città in declino (riferendosi a Detroit ad esempio), allestendo dispendiosi programmi di rinnovamento urbano e incentivazione imprenditoriale: sono soldi gettati al vento, che finiscono con l’essere utilizzati in maniera improduttiva. Non bisogna investire nei luoghi che non hanno futuro, nelle città in difficoltà – ma anche nelle aree urbane in declino – perché sono energie e fondi pubblici sprecati.

Al contrario, spiega Glaeser, bisogna investire nelle persone, nel capitale umano in modo che gli abitanti delle aree in declino siano formati per far emergere il proprio talento e siano dunque messi nella condizione di poter lasciare questi spazi il più presto possibile, trasferendosi in località attrattive, dove il loro capitale umano può essere valorizzato. E bisogna accettare che alcune località attraversino fasi di ridimensionamento demografico, di perdita drastica di popolazione. È questo il trait d’union degli “urbanologi di successo” – con accenti diversi, Richard Florida, Enrico Moretti, Edward Glaeser – accomunati dall’idea che ciò che sostiene l’economia capitalistica sia la mobilità delle persone in base alle loro competenze professionali, alla loro capacità di costruire relazioni sociali, vale a dire al loro capitale umano e creativo. Ciò che Florida ad esempio chiama il “potere dei luoghi” è la capacità da parte di alcune città e aree urbane di attrarre le migliori professionalità. Questa visione, oggi divenuta egemone tra politici ed esperti di orientamento neoliberale, giustifica e al tempo stesso alimenta una sempre più marcata gerarchizzazione dello spazio geografico: vi sono luoghi attraenti e altri (città o spazi delle città) che invece sono destinati a un declino o comunque a un ridimensionamento in qualche misura irreversibile. Questo è ciò che prescrive l’urbanologia neoliberale. Di qui l’idea secondo cui sono i lavoratori e le professionalità ad alto valore aggiunto che devono convergere verso i luoghi più attraenti e che è velleitario, se non dannoso, tentare di risollevare le sorti degli spazi in declino con politiche sistemiche di ridistribuzione della ricchezza a livello territoriale.

Negli anni ‘50 -’60, nei programmi riformistici del cosiddetto keynesismo territoriale si provava a intervenire nelle regioni svantaggiate economicamente, o nei quartieri che necessitavano di servizi pubblici per risalire la china. Tali interventi erano condotti secondo un’ottica di riequilibrio territoriale. Invece, la nuova ideologia capitalistica chiede di rassegnarsi a questi divari, perché questa è la tendenza ineluttabile. Agli spazi che rimangono esclusi dalla valorizzazione capitalistica non rimangono che soluzioni minimalistiche, di sopravvivenza, come il sostegno al turismo, laddove ve ne siano le condizioni, oppure la creazione di università tecniche nella speranza di incentivare la formazione di imprenditorialità tecnologica, come suggerisce l’Economist. Quindi, credo che il tema dell’abbandono, se letto alla luce di questa nuova ideologia capitalistica, sia un aspetto fondamentale sul quale ragionare. Intorno alla centralità urbana dopo la crisi del 2008, alla concentrazione di risorse in località ritenute centrali e alla marginalizzazione, alla rinuncia a intervenire in modo integrato in località periferiche che non sono meritevoli secondo la logica neoliberale della competitività.

Il contesto italiano: il ciclo reazionario e la “resistenza come incontro”

Nel contesto italiano, la nuova “urbanologia” che ho appena sommariamente descritto ha effetti peculiari e potenzialmente esplosivi sul piano politico, perché l’Italia è caratterizzata da divari di reddito che sono fin dalla sua fondazione come stato unitario alla base della sua geografia economica, in particolare della divisione tra Mezzogiorno e centro-nord. Non è un caso che le regioni del centro-sud oggi siano diventate un bacino elettorale conteso da nuove e vecchie destre: dai Cinque Stelle e dalla nuova coalizione di centrodestra. Per questo motivo, la Lega di Salvini si è impegnata ad andare oltre il nord, perché nelle regioni centro-meridionali c’è un risentimento sociale, una rabbia, una disperazione che rappresenta il contraltare della politica neoliberale della centralità urbana. Secondo l’ideologia della centralità urbana, bene interpretata in Italia dal Partito Democratico, Milano è trendy e il resto del paese deve seguire senza troppe esitazioni il suo esempio di rinascimento urbano: “una città leader, da qui riparte l’Italia”, disse Matteo Renzi per celebrare il lancio del “Patto per Milano” nel settembre del 2016. Il nuovo dualismo centro-periferia è all’origine dei fenomeni di aperta xenofobia (Lega e destre nazionaliste) o di malcelata insofferenza verso i migranti e le organizzazioni umanitarie che li sostengono (i Cinque Stelle). Perché oggi assistiamo a tale esplosione di razzismo da parte degli italiani? La mia risposta è la seguente: perché il ceto medio, demoralizzato dalla perdita di valore dei propri beni immobiliari dopo la crisi del 2008 e di inizio anni ’10, una perdita che è stata particolarmente pesante nelle aree periferiche in declino economico, ha iniziato a prendersela con i migranti, quelli di colore e quelli di fede islamica soprattutto, percepiti come ulteriore minaccia al valore già traballante della propria proprietà privata. Questo punto emerge anche dall’analisi di Alberto De Nicola sul ciclo politico reazionario che oggi caratterizza l’Italia.

Ricapitolando: negli Stati Uniti dopo il 2016 con l’elezione di Trump (che, come un po’ tutti i commentatori concordano, ha dato espressione alla rabbia sociale dei luoghi dimenticati, delle periferie remote) si siano dispiegati gli effetti nefasti (il razzismo, l’islamofobia) e le conseguenze politiche (la nuova egemonia delle destre, nelle sue varie articolazioni) dell’urbanologia neoliberale. Le piccole e medie città degli stati più remoti sono divenuti il grande serbatoio elettorale di Trump, mentre i democratici hanno retto nelle città liberal della costa, nelle cosiddette great American cities, sostenuti dalle elites bianche “globaliste” e dalle minoranze afroamericane e ispaniche. In Italia, la geografia del risentimento sociale presenta una situazione in parte simile a quella degli Stati Uniti, sebbene forse più variegata. Perché non è soltanto nei luoghi più remoti, non è soltanto a Macerata che si alimenta la rabbia fascista (di Forza Nuova e Casa Pound, ma anche delle persone qualunque), non è soltanto nelle regioni periferiche, nei piccoli e medi centri, che si crea il terreno fertile per il ciclo politico reazionario: ma anche nelle periferie romane, in quelle di Torino, negli spazi abbandonati della metropoli capitalista.

La prospettiva politica che abbiamo davanti oggi non può che essere, a mio parere, quella della resistenza a tale ciclo reazionario. Da questo punto di vista avverto il quadro italiano molto vicino a quello degli Stati Uniti, dove “the resistance” è la sola scelta a disposizione di coloro che oggi si oppongono all’“era Trump”. Credo, tuttavia, che in questa particolare fase dobbiamo concepire la politica della resistenza non solo in opposizione al ciclo politico regressivo e reazionario che abbiamo dinanzi, ma anche come gesto affermativo, vale a dire come “politica dell’incontro”. L’idea della politica dell’incontro è qualcosa che abbiamo ricevuto dai movimenti del 2011: è la loro eredità (la legacy si direbbe in inglese) che vediamo rivivere nei movimenti sociali contemporanei. Dopo il 2011, le città sono divenute a livello planetario spazi dell’incontro per singolarità insorgenti: c’è l’orgoglio delle minoranze subalterne venuto alla luce con Black Lives Matter negli Stati Uniti e con il movimento in solidarietà dei rifugiati in Europa e c’è l’insorgere del movimento delle donne negli ultimi due anni. La resistenza di per sé è un atto che esprime la negazione di ciò che è contrario a un’idea di democrazia sostanziale (il razzismo, il sessismo, il fascismo): ora la sfida politica è nutrire di senso la resistenza con l’atto affermativo dell’incontro. Come rispondere a questo ciclo politico reazionario con una politica di resistenza che al tempo stesso è di incontro tra chi è diverso, tra le minoranze che sono escluse da questo processo di valorizzazione capitalistica e che si trovano a essere spinte verso gli spazi dell’abbandono? “La resistenza come incontro”, come conciliare la negazione con un’affermazione, è l’idea su cui vorrei ragionare insieme con voi come orizzonte politico dei movimenti contemporanei.

Download this article as an e-book

Print Friendly, PDF & Email