di ROBERTA POMPILI e GISO AMENDOLA. – presentiamo una parte dell’introduzione del volume collettaneo La linea del genere. Politiche dell’identità e produzione di soggettività, a cura di Roberta Pompili e Adalgiso Amendola, appena uscito per ombre corte. Il volume contiene saggi di: Cristina Papa, Valeria Ribeiro Corossacz, Rita Segato, Federico Zappino, Rosa Parisi, Maria Rosaria Marella, con traduzione a cura di Antonella Festa e Rossella Cetrangolo.

 

Costruire il reale o gerarchizzare i soggetti?

 

Le mobilitazioni antigender che diversi gruppi neofondamentalisti hanno condotto e continuano a condurre, prendendo di mira soprattutto il campo dell’educazione, hanno avuto il paradossale merito di risottolineare il potenziale sovversivo che la nozione di gender ha svolto, rompendo con le strategie che avevano, in modi molto diversi, in un certo senso normalizzato l’uso del concetto di gender. Concetto, in effetti, che ha esso stesso una storia molto complicata, e non univoca, ma che evidentemente ha dentro più che un elemento che ancora disturba e mette in moto posizionamenti critici. Così, con quel fiuto che i reazionari spesso hanno per quegli elementi “sovversivi” che il discorso progressista tende invece a nascondere o comunque ad edulcorare, gli antigender hanno fatto riemergere un portato corrosivo, non assimilabile, contenuto nello stesso concetto di gender.

Del resto, quasi tutte le genealogie del concetto hanno sottolineato che il primo emergere dell’attenzione per quella faglia, che distingue il corpo presunto biologico dalla sua costruzione sociale, e che il concetto di gender in modi diversi richiama, è stato intensamente politico e subito correlato alla discussione dei limiti costitutivi del concetto di cittadinanza giuridica e politica. La Déclaration des droit des femmes e des citoyennes di Olimpia de Gouges nel 1791 e la Vindication of Rights of Woman di Mary Wollstonecraft del 1792 fissano già la questione nei termini della critica ai confini di quella cittadinanza moderna, che nella versione istituzionalizzata dalla rivoluzione francese era appena nata. Ed era nata costruendo, insieme, un’idea di razionalità universale del soggetto moderno (“tutti i cittadini”) e l’esclusione delle donne da quell’universalismo: collegando quell’esclusione al riferimento alle supposte caratteristiche del sesso femminile, che lo rendevano marginale rispetto a quello spazio pubblico che si andava costruendo. A una cittadinanza moderna che si costruiva come artificio, e che però ricorreva al ricorso ad una supposta natura femminile per bloccare il processo egualitario che essa stessa aveva messo in moto, si contrapponeva, nelle dichiarazioni di Olimpia de Gouges e di Wollstonecraft, il disvelamento dell’ingiustizia di quei limiti, la presa di parola di un soggetto escluso proprio dalla pretesa neutralità del “nascente” soggetto universale. Allo stesso tempo, però, queste rivendicazioni, mentre denunciavano l’ineguaglianza nascosta nella pretesa eguaglianza della “nuova” cittadinanza, non mancavano di sottolineare, in ogni caso, le differenze del sesso, a cominciare dalla capacità di generare. In quello che Carol Pateman definì come Wollstonecraft dilemma, già si delineava una tensione specificamente politica messa in moto dal progetto moderno: da un lato, l’artificializzazione della cittadinanza giuridico-politica metteva in discussione la pretesa naturalità delle gerarchie tra i generi, dall’altro la stessa contestazione della parzialità di quella cittadinanza e del suo falso universalismo richiamava la pretesa naturalità di alcune differenze, e in primo luogo della maternità, nello stesso momento in cui cercava di forzare i confini della cittadinanza stessa[1].

Questo campo di tensione animerà in futuro il funzionamento del concetto di genere, quando quest’ultimo comincerà ad essere introdotto nelle scienze sociali. Da una parte, il concetto funziona da potente meccanismo antiessenzialista: destituisce qualsiasi pretesa di fondazione naturalistica delle gerarchie sociali ed evidenza come si sia davanti a dispositivi di costruzione sociale delle relazioni e delle gerarchie stesse. L’antiessenzialismo distrugge la pretesa di assegnare a una qualche “realtà” naturale non meglio individuata il ruolo di origine e di giustificazione dell’ordine sociale, e riapre lo spazio della critica, svelando appunto come costruito e, quindi, criticabile e modificabile ogni ordine che si pretende naturalmente fondato. Nel primo consapevole uso critico del concetto di gender, Gayle Rubin, mettendo in campo uno strumento complesso come il sex-gender system, farà funzionare l’antiessenzialismo che il concetto di gender comporta come strumento per spiegare la “traduzione” delle differenze di sesso all’interno dell’organizzazione dei meccanismi sociali di gerarchia e di distribuzione delle risorse[2]. L’antiessenzialismo fa saltare la pretesa naturalità delle differenze proprio per permettere lo studio dell’organizzazione sociale di quelle differenze: nessuna mitologia tutta moderna dell’artificio abita quest’uso del concetto di genere, non si vuole per nulla sostenere che il liberarsi delle letture naturalistiche sia di per sé liberatorio. Serve, però, a disincantare lo sguardo e a permettere l’analisi delle modalità di organizzazione sociale che mettono al lavoro quelle differenze. Del resto, anche chi utilizzerà il concetto di gender sottolineandone semplicemente il valore di strumento metodologico d’indagine, e senza attribuirgli in prima battuta nessun valore particolarmente critico o dirompente, non potrà evitare di sottolinearne comunque la portata corrosiva rispetto alle rappresentazioni essenzialistiche. Nell’uso “sociologico” che del concetto farà Erving Goffman nella sua ricerca sulla rappresentazione dei generi nelle immagini pubblicitarie, è evidente come l’effetto antiessenzialista nel concetto di genere si mostra già a un primo livello metodologico, aprendo però immediatamente a considerazioni sui rapporti gerarchici individuabili nelle posture e nella distribuzione dei corpi nello spazio delle immagini. Anche Goffman però avverte che la separazione sesso/genere, la distinzione tra supposta natura del sesso e costruzione sociale del genere, se apre metodologicamente alla considerazione delle relazioni reciproche e della costruzione di gerarchie sociali, di per sé interroga l’analisi sociologia a far giocare anche altri concetti: l’opposizione costruttivismo/essenzialismo è insomma solo la prima parola – di metodo – di un’analisi sulle effettive gerarchie tra i generi che richiede passi ulteriori e strumentari più ampi[3].

L’antiessenzialismo è evidentemente quel che fa paura a tutti coloro che, come i gruppi religiosi antifondamentalisti, pensano di poter far appello alla natura umana per erigere una barriera contro la capacità e la volontà di trasformazione, contro il valore dell’autonomia, già quell’autonomia che nasce dal sapere di essere definiti all’interno di precisi dispositivi storico-sociali, costruiti e quindi in quanto tali trasformabili. E in questo senso, le crociate antigender giocano lo stesso ruolo che, in questo momento politico-culturale molto esposto a progetti di “ricomposizione reazionaria” della stessa crisi di legittimità mostrata dall’ordine neoliberale, si assumono diversi discorsi caratterizzati dalla volontà di “tornare a casa”, contro la stessa mobilità che in qualche modo il neoliberalismo doveva pur assicurare. Si moltiplicano i discorsi che predicano un qualche ritorno ad una solida “realtà” lì fuori, ad un ancoraggio metafisico, organicistico, o, in ogni caso, sottratto alle insidie della mutevolezza. Il costruttivismo è evidentemente il nemico primo di tutti questi movimenti nostalgici della “realtà lì fuori”. Si pensi per esempio al ritorno ad argomentazioni di chiara eredità positivistica in criminologia, per quanto aggiornate e assemblate insieme all’adozione di modelli statistico-attuariali: l’accusa è mossa verso qualsiasi discorso di spiegazione/interpretazione in termini sociali del crimine, o, in forme ancora più dura, rispettto a qualsiasi eredità delle scuole criminologiche che insistevano sul crimine e sul criminale come “produzione” dell’ordine sociale stesso e frutto di un’attività sociale di etichettamento. Oppure, i ripetuti e chiassosi ritorni organicistici in psichiatria, che trovano spesso come principale obiettivo polemico appunto l’idea di malattia mentale come “costruzione sociale”, non riducibile all’interno dei soli schemi naturalistici. Tutto questo clima di “ritorno alla realtà”, a una realtà che si offrirebbe nuda e indipendente da qualsiasi dispositivo di sapere e di potere, è evidentemente quello in cui si trova a prendere forza la crociata antigender.

Come era perfettamente nella consapevolezza di Rubin, o dello stesso Goffman, o ancor più di chi come Scott calerà esplicitamente il concetto di gender all’interno di uno studio delle relazioni di potere, l’antiessenzialismo, di per sé, anche se corrode molte pretese metafisiche e spaventa molti reazionari, non è garanzia di un uso critico – e tantomeno sovversivo – del concetto di gender. La coppia oppositiva costruttivismo/essenzialismo non dice tutto degli usi del concetto di genere. In primo luogo, il costruttivismo stesso può essere utilizzato non come istanza critica, ma come strumento per giustificare interventi di normalizzazione sociale. E’ vero che questo è un argomento utilizzato spessissimo dai reazionari, i quali insistono sul fatto che, se “la realtà non esiste”, allora si apre lo spazio per la sua infinita manipolazione del potere. L’argomento, messo così, è piuttosto fragile, confondendo volutamente il costruttivismo sociale, cioè l’idea che la realtà sia intessuta di relazioni di potere, con una sorta di idea di completa disponibilità della realtà a qualsivoglia intervento o manipolazione. Ma, al di là dei suoi usi polemici piuttosto speciosi, di per sé i reazionari non hanno torto nel sottolineare che l’antiessenzialimo può anche servire a intervenire per rafforzare interventi di ingegneria sociale, anche a favore delle gerarchie esistenti o comunque nel senso di una “produzione di normalità”. Del resto l’esempio che spesso gli stessi antigender portano non è trascurabile: se il femminismo – dal sex-gender system di Rubin in poi – ha usato effettivamente il concetto di gender per contestare la naturalità delle gerarchie, non bisogna dimenticare che l’opposizione gender/sex, nell’uso che se ne fa negli studi psicologici e medici, può avere un ruolo di rinormalizzazione. Il riferimento a John Money e alla distinzione gender/sex come giustificazione di diagnosi di disforia di genere e di interventi di ricostruzione normalizzante del sesso e di riassegnazione del genere, dovrebbe evidentemente essere sufficiente a ricordare come l’opposizione costruzione sociale/natura di per sé non ha necessariamente esiti emancipatori[4]. Ma più in generale il problema che qui si pone riguarda proprio il rapporto tra costruttivismo e neoliberalismo: se i reazionari vorrebbero uscire dalla crisi di legittimità con evidenti interventi di nuovo “essenzialismo”, non bisogna dimenticare però che il neoliberalismo, di per sé, non è per niente essenzialista. Il costruttivismo sociale libera da organicismi e naturalismi, ma non assicura un punto di vista critico o di rottura all’interno della gestione neoliberale delle vite: il neoliberalismo, sul piano dei dispositivi non-essenzialistici, sa muoversi abbastanza bene, essendo nato per mettere al lavoro soggettività mobili e in continua trasformazione.

 

Il campo di lotta del genere

 

In questi ultimi anni, sintomaticamente, il concetto di genere non è stato sotto attacco soltanto di fondamentalisti religiosi in ansia per le sorti di una presunta natura umana. E’ anche uno degli obiettivi polemici di chi pensa che il femminismo si sia in qualche modo accomodato all’interno del discorso neoliberale, finendo per perdere la sua carica di lotta e di rottura e per essere integrato nei dispositivi di governo del capitalismo contemporaneo. Molto spesso, anche con qualche forzatura, sono citate a questo proposito le critiche di Nancy Fraser al femminismo liberal bianco occidentale, il quale, dimentico delle ragioni materiali che fondano le gerarchie tra i generi, sarebbe caduto in un’assolutizzazione delle lotte identitarie e di riconoscimento, dimenticando invece quelle sulla distribuzione delle risorse e sullo sfruttamento. In questo quadro, molti ritengono che l’uso del concetto di genere sia stato uno dei passaggi fondamentali in questo slittamento dalle lotte sullo sfruttamento alle lotte identitarie. Il genere ha spostato tutta l’attenzione sulla moltiplicazione delle differenze, sui problemi di riconoscimento dell’identità: ha costituito, insieme all’ordine del discorso del multiculturalismo, il veicolo principale dell’imporsi delle identity poltics. E le identity politics – pur presentandosi spesso come una sfida radicale all’uguaglianza “neutra” del discorso liberale, sono risultate in fondo completamente integrabili nel paradigma dei diritti, e riassorbite così dalla governamentalità neoliberale.

Il genere non è il diavolo che sovverte la natura, ma è solo apparentemente radicale: è invece molto utile agli stessi neoliberali per depotenziare le lotte e avviarle sul binario morto delle battaglie identitarie e dei “diritti umani”, non a caso così frequentate dai liberal. Questo tipo di discorsi coglie evidentemente un punto: il concetto di genere mette in moto un discorso sulle differenze che di per sé non è “nemico” del neoliberalismo. Anzi: la gestione delle differenze è il terreno sul quale il neoliberalismo gioca una parte decisiva della sua legittimazione come sistema di governo. Così come la capacità di trasformazione, di non chiudersi in una “essenza” predefinita, è individuata come la vita stessa della soggettività sia da chi legge il “divenire” come motore della costruzione del genere, sia dagli stessi neoliberali che insistono sulla performance e sull’automiglioramento come tratti dell’investimento del soggetto su se stesso. Il neoliberalismo risponde alla sfida del genere ponendosi su un piano altrettanto mobile e trasformativo. Del resto, i discorsi sul diversity management illustrano sicuramente questa certa scomoda “parentela” tra piano del genere e governamentalità neoliberale[5]. Ma il fatto che il neoliberalismo si muova su un terreno capace di rispondere, in parte, all’esplosione del soggetto classico e alla moltiplicazione delle differenze, che è lo stesso piano su cui si muovono i discorsi di genere, non significa però che sia lecito assimilare senza residuo genere e neoliberalismo. Il genere mostra la rottura delle identità classiche: e, certo, allo stesso tempo può anche essere il dispositivo, o uno dei dispositivi, intorno al quale si riconfigura la presa delle politiche neoliberali. E può benissimo darsi che le politiche dell’identità siano così riafferrate dentro un paradigma appunto “identitario”, all’interno del quale il neoliberalismo ha gioco facile ad assorbirle e governarle. Le identità possono essere facilmente tradotte nel dispositivo proprietario: identità e proprietà, insieme, ricombinano il movimento delle soggettività assicurandone la chiusura su se stesse. La proprietà garantisce, per dirla con il lessico di Deleuze e Guattari, la riterritorializzazione della trasformazione delle soggettività. Ma questo non consegna per niente il genere al neoliberalismo: semmai conferma che il genere diventa terreno imprescindibile di lotta nel momento in cui il centro della produzione si sposta dalla produzione di merci alla produzione di soggettività. Adottando questo sguardo, si può evitare di cadere nella trappola di opporre una qualche nostalgia di una “materiale” lotta di classe alle lotte di genere, identitarie, “postmateriali” e, quindi, facilmente catturabili dal neoliberalismo. Piuttosto, proporremo di leggere le politiche dell’identità come un passaggio che si radica esso stesso, molto materialisticamente, nelle trasformazioni della produzione, e nella messa al lavoro di tutta la soggettività, di tutto il suo tempo, di tutta la sua vita. Non si tratterà, quindi, di coltivare una nostalgia per la vera “classe”, o per la vera “questione sociale”, contro il genere: ma di affrontare il genere con uno sguardo materialista. Dove però qui sguardo materialista significa adeguato al modo di produzione contemporaneo, al divenire della produzione di soggettività. Il che significa, in ultima analisi, invece di pretendere di ricondurre il genere alla fantomatica priorità di un’altrettanto immaginaria classe, di leggere le lotte di genere (anche) come una potente e radicale ridefinizione di cosa è oggi un conflitto di “classe”[6]. Si tratta, quindi, di rileggere il campo di lotta di genere all’interno del passaggio alla produzione di soggettività, o, per usare più Marx che Foucault, si tratta di collocare il genere all’interno del passaggio dalla sussunzione formale al pieno dispiegamento della sussunzione reale, all’estrazione di valore dall’intero campo sociale. Del resto, uno dei testi chiave delle “lotte di genere” in Italia, gli Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli, cominciava sintomaticamente proprio da qui: siamo passati, marxianamente, dal dominio formale al dominio reale del capitale, ed è nel dominio reale che si sviluppano i movimenti gay[7]. Il campo di lotta del genere, quindi, lungi dall’essere il terreno del cedimento liberal al neoliberalismo, è proprio quello su cui si può finire direttamente e senza protezioni ai ferri corti con la ragione neoliberale: e la si può anche sfidare, a patto che si immerga il genere stesso nei laboratori della produzione contemporanea, della trasformazione radicale del lavoro e della produzione, a cominciare dalla riconfigurazione radicale dei rapporti tra produzione e riproduzione.

Nell’epoca industriale il “lavoro femminile” era considerato domestico, affettivo, immateriale, o meglio ancora riproduttivo, e che aveva a che fare con le funzioni di “cura” e di socializzazione. Definiti come “sfera separata” al di fuori della produzione, i compiti riproduttivi tradizionalmente erano, nel ventesimo secolo, rappresentati al di fuori della preoccupazione del pubblico, non organizzati dal salario, non protetti dai diritti e dal discorso della privacy dello Stato liberale (per esempio, lavoro, sicurezza, sicurezza, salute, ambiente, educativo, ecc.), formulati dunque come “autonomi” e non connessi a un pacchetto di protezione e benefici garantiti. Al tempo produttivo veniva accostato il “tempo libero”, per le quali attività riproduttive il capitale non aveva bisogno di fare uno scambio: tali attività erano puro eccesso o “eccedenza” che il capitale otteneva gratuitamente.

Il dualismo/separazione tra la vita privata e la produzione pagata – dove la vita privata costituisce la riproduzione che prepara il lavoratore (maschio) per il giorno successivo del lavoro e socializza la prossima generazione di lavoratori ha informato altri tipi di separazione simbolici essenziali per le relazioni industriali del capitale, come la separazione tra lavoro mentale e il lavoro manuale, tra il valore d’uso e il valore di scambio, tra la regole istituzionali (leggi) e mercati liberi, tra il lavoro non pagato (o eccedente) e quello pagato (o necessario).

Il genere si costruisce all’interno di questa divisione dello spazio/tempo. Il lavoro gratuito specificatamente identificato come femminile rappresenta il paradigma del capitalismo contemporaneo: la riproduzione deflagra nel campo della produzione e il lavoro gratuito femminile diventa premessa di una nuova organizzazione del tempo libero sfruttabile, un processo denominato anche femminilizzazione del lavoro.

Il genere permane come principio e forma di organizzazione economica o culturale, né può essere relegato a un’esistenza puramente simbolica, ideale o ideologica, dal momento che i suoi corpi concreti sono necessari al capitale per produrre valore e comando sulle relazioni sociali, e poiché conferisce al corpo il sesso come valore da sfruttare. Se i dispositivi di genere si proiettano nella vita e nella produzione in forme inedite rispetto al passato, le forme del lavoro contemporaneo prevedono continui riassemblaggi di genere. Il genere è un set di dispositivi al quale la struttura della società attinge in continuazione per produrre subalternità, dominazione e sfruttamento.

Eppure la società neoliberale mentre si appropria del lavoro femminile e femminilizzato proietta il suo stesso limite sulla linea del genere: il genere, infatti, è la realizzazione stessa dell’ontologia della produzione contemporanea, la quale si nutre dell’autonomia dei soggetti, dell’affermazione e della creatività indipendente degli stessi.

In altri termini le donne in quanto soggetto autonomo della produzione contemporanea contribuiscono a produrre e creare le condizioni del proprio lavoro e contemporaneamente dettano il passo all’ingresso di straordinari cambiamenti sociali. Il genere è, dunque, anche invenzione e innovazione, il potere di costituirsi. Si sparigliano le carte, si producono nuovi assemblaggi e se la produzione- l’impresa invade l’intera vita sociale il divenire -donna della politica ri-interroga l’impresa sociale e l’intera società in termini di democrazia, di welfare, di giustizia economica e sociale[8].

[1] Cfr. C. Pateman, The Patriarchal Welfare State, in Id., The Disorder of Women. Democracy, Feminism, and Political Theory, Polity Press, 1989, in particolare pp. 196-197.

[2] Cfr. Gayle Rubin, The Traffic in Women: Notes on the “Political Economy” of Sex, in Rayna R. Reiter (ed.), Toward an Anthropology of Women, in “Monthly Review Press”, 1975,  pp. 157-210.

[3] Cfr E. Goffman, Rappresentazioni di genere, tr. it. a cura di A. Romeo e con postfazione di V. Codeluppi, Mimesis, Milano 2015 (ed. origin. 1979).

[4] Su queste ambiguità, cfr. Beatrice Busi, Fare e disfare il genere. Oltre il binarismo dei generi, in F. Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, Ombre Corte, Verona 2016.

[5] CFr. R. Busarello, Diversity management, pinkwashing aziendale e omo-neoliberismo. Prospettive critiche sul caso italiano, in F. Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, cit.

[6] Cfr. S. Mezzadra e M. Neumann, Al di là dell’opposizione tra interesse e identità. Per una politica di classe all’altezza dei tempi, tr. it. pubblicata dal sito del Collettivo Euronomade, www.euronomade.info/?p=9402.

[7] Cfr. M. Mieli, Elementi di critica omosessuale, a cura di G. Rossi Barilli e P. Mieli, Feltrinelli, Milano, 2017 (ed. orig. 1977).

[8] Cfr. Alisa Del Re, Alcuni appunti sulla riproduzione sociale, tr. it. pubblicata dal sito del Collettivo Euronomade, https://www.euronomade.info/?p=6574.

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