di UGO ROSSI.

Il 12 luglio si è tenuta a Napoli la prima assemblea pubblica del nodo locale della rete SET (Sud Europa Turistificazione), un coordinamento di associazioni, collettivi e comitati di quartiere che raccoglie esperienze diffuse soprattutto in Spagna, con le prime adesioni anche in Italia (Venezia e per l’appunto Napoli) e in altri paesi sud-europei. Qui si può leggere il manifesto fondativo.

L’assemblea napoletana si è svolta all’aperto, nel cortile del complesso monastico di Santa Chiara, nel cuore del centro antico napoletano: l’area corrispondente all’antico tracciato greco-romano dove si manifesta con maggiore intensità il processo di turistificazione che investe il più ampio centro storico della città. La peculiarità del centro storico di Napoli, fino a oggi, è stata quella di conservare condizioni di mescolanza sociale per certi versi uniche nel continente europeo, con una significativa prevalenza di ceti a basso e medio reddito nonché elevati indici di densità abitativa.

Nei decenni scorsi, si sono susseguiti diversi tentativi di “pulizia sociale”, ossia di deportazione di consistenti porzioni di ceti popolari dal centro storico ai quartieri periferici, in particolare dopo il terremoto del 1980. Nella seconda metà degli anni Ottanta, una coalizione pubblico-privata promossa dalle associazioni degli industriali e dei costruttori e sostenuta attivamente dai principali partiti del tempo (a partire dalla componente “riformista” del PCI), nonché dai settori più influenti delle professioni e dell’accademia napoletana (soprattutto delle allora facoltà di architettura e ingegneria), avanzò un progetto di “rigenerazione urbana” denominato enfaticamente “Il Regno del Possibile” in cui si proponevano interventi drastici di sventramento e sostituzione immobiliare in aree del centro storico considerate (strumentalmente) di scarso valore architettonico, come i Quartieri Spagnoli. Nonostante l’entità degli interessi messi in campo, il progetto non si concretizzò, grazie alla mobilitazione di settori della società civile e dei movimenti sociali e ambientalisti. Oggi, quel che non è riuscito allora allo spregiudicato progetto di rigenerazione urbana di imprenditori e politici della Prima Repubblica, sta riuscendo alla mano invisibile del “capitalismo delle piattaforme” di cui Airbnb è uno dei protagonisti. Come hanno sottolineato i promotori dell’assemblea, Napoli è una delle città in Italia e in Europa che ha registrato il più rapido incremento di abitazioni offerte in affitto temporaneo. Come altrove, il problema nasce soprattutto con le locazioni brevi di interi appartamenti che hanno l’effetto di ridurre drasticamente, fino a prosciugare del tutto, la già esigua offerta di alloggi nel mercato regolare degli affitti, con inevitabili aumenti vertiginosi dei prezzi.

Il centro antico di Napoli, così come altre aree del centro storico della città (dai Quartieri Spagnoli a Montesanto e Materdei), negli ultimi anni non ha conosciuto soltanto una crescita repentina del turismo di massa e della desertificazione sociale che esso comporta, ma anche un aumento significativo di esperienze di “liberazione” e animazione dal basso di spazi in disuso, di proprietà pubblica o ecclesiale: l’ex Asilo Filangieri, lo Zero81, Santa Fede Liberata, lo Scugnizzo Liberato, l’ex Opg Occupato, sono le esperienze più note. Inoltre ha conosciuto una ripresa in forme nuove dei comitati di lotta per il diritto all’abitare, a partire dal movimento “Magnamm’c ’o pesone” (in napoletano pesòne vuole dire affitto) protagonista di esperienze di riappropriazione di edifici abbandonati a uso abitativo proprio nel centro antico della città.

La prima assemblea del nodo locale della rete SET è stata l’esito dell’iniziativa di attivisti e residenti che hanno avvertito l’esigenza di incontrarsi non solo per rivendicare la difesa dell’identità del centro storico rispetto agli effetti distruttivi del turismo di massa (il vero e proprio “urbicidio” che esso produce), ma soprattutto per mettere in campo azioni concrete a tutela dei residenti socialmente più deboli, in particolare affittuari di lungo corso che oggi ricevono avvisi di sfratto dai proprietari delle loro abitazioni, ansiosi di collocare gli appartamenti nel mercato degli affitti temporanei.

La repentina ascesa del mercato degli affitti temporanei deve essere compresa alla luce del progetto neoliberale di restaurazione del primato incondizionato della proprietà privata degli alloggi (le cui origini risalgono alla property-owning democracy della Thatcher negli anni Ottanta) e al contempo di sua espansione incessante per mezzo di una finanziarizzazione della società capace di estendersi all’intero pianeta nell’epoca della cosiddetta “età urbana”. Porzioni sempre più ampie del ceto medio, nelle aree più disparate del mondo, scelgono infatti di indebitarsi con banche e altri istituti di credito per investire negli alloggi da affittare a turisti e fruitori occasionali delle città, secondo un meccanismo che è stato definito di “keynesismo privatizzato”. Nella fase di egemonia neoliberale, oltre ai governi anche gli individui sono chiamati a contrarre debiti, per ampliare il proprio reddito, investendo nel mercato immobiliare e nei fondi pensione nel caso dei ceti medi e medio-bassi. Oggi il mercato degli alloggi temporanei è in forte crescita non solo negli spazi periferici dell’Europa continentale, come l’Europa del Sud e dell’Est, ma sempre più nel Sud del mondo, comprese l’Africa subsahariana e l’America latina. Il radicamento sociale e la diffusione geografica del “capitalismo delle piattaforme” testimoniano una sussunzione sempre più profonda e estesa del potenziale cooperativo delle società urbane (l’economia degli affitti brevi è ufficialmente presentata come “economia della condivisione”) nell’attuale fase “biopolitica” e “finanziarizzata” del capitalismo globale.

L’accesa competizione inter-urbana che caratterizza la globalizzazione e l’economia turistica in modo particolare, per sua natura un’economia espansiva alla ricerca incessante di nuove località da annettere nei propri circuiti, induce i comportamenti speculativi a diffondersi a macchia d’olio, in particolare nelle città economicamente in difficoltà del Nord e del Sud del mondo. Tranne poche eccezioni, in queste aree né la classe politica nazionale né gli amministratori locali sembrano essere interessati a imporre regolamentazioni al mercato, nel timore di risultare impopolari nel proprio elettorato, specie in una congiuntura come quella attuale segnata dal diffondersi del risentimento sociale all’interno del ceto medio impoverito. Piuttosto, guardano con benevolenza al diffondersi degli affitti brevi in quanto “settore-spugna” dell’economia locale, nell’illusione di offrire possibilità di integrazione del reddito, se non di arricchimento, a un ceto medio demoralizzato dalla crisi dei settori tradizionali dell’economia.

La globalizzazione dell’economia degli affitti brevi che scaturisce dalla situazione appena descritta ha il duplice effetto di determinare, da un lato, l’espulsione dei ceti più deboli (gli affittuari a basso reddito) dai propri quartieri di insediamento storico, come nel caso del centro di Napoli, e dall’altro di incentivare l’indebitamento illimitato della classe media. Come segnalano agenzie internazionali di consulenza immobiliare specializzate nel settore degli affitti brevi, la convenienza a investire nel mercato degli affitti temporanei è di gran lunga superiore nelle città del Sud Globale, nonché nelle aree periferiche del Nord Globale, rispetto alle località centrali del Nord Globale, dove i margini di guadagno sono sempre più risicati a causa della saturazione dei mercati immobiliari.

La diffusione dell’economia degli affitti brevi apre dunque la strada a un’espansione senza limiti dei processi di marginalizzazione e indebitamento sociale. L’età urbana di cui oggi parlano le organizzazioni internazionali e i ricercatori, per l’avanzata costante dei processi di inurbamento della popolazione e la conseguente trasformazione dell’umanità in una “specie urbana”, era già stata annunciata da Henri Lefebvre che nel suo ormai classico testo sulla Rivoluzione urbana aveva teorizzato il profilarsi di una “urbanizzazione totale” del mondo. Oggi l’età urbana prodotta dalla globalizzazione neoliberale assume sempre più le sembianze di un’epoca segnata da quella che, parafrasando Lefebvre, possiamo definire la “finanziariazzazione totale” del pianeta.

Come contrastare tali fenomeni? In che modo si può difendere la società? Al cospetto dell’arrendevolezza, o della vera e propria complicità con le grandi corporation tecnologiche, finora dimostrata dagli amministratori locali e dalla classe politica nazionale (compresa quella attualmente al governo), è vitale il contributo dei movimenti sociali e delle comunità di quartiere alla resistenza ai processi di turistificazione dei centri urbani. Tali processi hanno l’effetto di desertificare il tessuto sociale delle città e, così facendo, di annichilirne il potenziale politico di democrazia dal basso e contestazione delle politiche neoliberali di austerità e mercificazione integrale della vita sociale. La resistenza alla turistificazione e al mercato deregolamentato degli affitti brevi costituisce pertanto un terreno decisivo su cui cimentarsi per i movimenti sociali urbani: una sfida importante ma – è bene sottolinearlo – tutt’altro che agevole, a causa della seduttiva retorica della condivisione e del sostegno al ceto medio che fino a oggi ha accompagnato la diffusione di questo settore-chiave del capitalismo delle piattaforme.

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