Di BENEDETTO VECCHI.

Due anni fa una notizia che riguardava San Francisco aprì una «finestra» su una realtà poco nota al di là dei confini della California e fin troppo conosciuta, invece, dagli abitanti delle metropoli americana.
I costi per acquistare o affittare case, nel tempo, erano diventati proibitivi. L’aumento di prezzo stava determinando la cacciata di decine se non centinaia di migliaia di abitanti, sostituiti da professionals, operatori finanziari, creativi di vario genere e tipo. La notizia che riuscì a bucare il muro di gomma dello status quo era una di quelle che possono scatenare urla di gioia nei settori underground e militanti della network culture o, all’opposto, grida di allarme da parte di manager e opinion makers che invocano risposte repressive verso i riots contro la proprietà privata. Lo scandalo era rappresentato dal fatto che un pullman del servizio di navetta da San Francisco alla sede di Google nella Silicon Valley era stato preso a sassate dagli abitanti.

IL LANCIO DI PIETRE fu ripetuto per vari giorni. I quotidiani e le emittenti radio e tv cominciarono così a pubblicare articoli o a mandare in onda servizi sulla gentrification della città californiana. La miscela di capitale di ventura, retorica del decoro e dell’innovazione stava trasformando San Francisco nel sobborgo, la retrovia metropolitana della rigogliosa Silicon Valley. Gli stili di vita anticonformisti, il profumo underground della vita sociale costituivano il giusto habitat per i knowledge workers, che ogni giorno davano il meglio di loro stessi per le imprese del silicio. La città californiana era cioè diventata il bacino del lavoro vivo e dell’innovazione alla quale la Silicon Valley poteva attingere ogni volta che lo desiderasse, indifferente ai bisogni della popolazione «storica».
Per Douglas Rushkoff, firma storica della network culture americana, i sassi lanciati contro le navette di Google hanno rappresentato la fine della pace sociale tra popolazione e network economy, segnalando la crisi della vision della crescita economica e delle relazioni sociali egemoni nella Rete. Gratuità di alcuni servizi e software in cambio della rinuncia alla proprietà dei dati personali (Google e Facebook), lo smartphone dal design rigoroso e modernista per essere connessi alla Rete h.24 lavorando o consumando attraverso piattaforme digitali (da Uber a Airbnb a Amazon) che accumulano dati da elaborare e vendere ad altre imprese che, a loro volta, fanno affari con i Big Data.
Le pietre lanciate contro i bus di Google erano da interpretare come una rivolta contro questo modello economico. Si stava quindi «impallando» il «nuovo sistema operativo» dello sviluppo economico, fondato su una logica «estrattiva» di profitti dalle comunicazioni personali, dalle loro relazioni sociali perché le imprese ritengono «importante non solo quello che dici, ma anche quello che fai in rete».

INOLTRE, RUSHKOFF ha sempre puntato l’indice contro la retorica egualitaria e postcapitalista che accompagna l’economia della condivisione fondata su uno «stato di perpetua emergenza» e su una «legge di potenza» in base alla quale «chi vince prende tutto», favorendo così la formazione di un regime oligopolistico segnato da una disoccupazione di massa (l’automazione cancella posti di lavoro che non vengono compensati dalla crescita dell’occupazione in altri settori) con buona pace della propaganda di una sharing economy incardinata sulla proliferazione di piccole e innovative imprese.
Questo il panorama che emerge dal volume di Douglas Rushkoff Piovono pietre sui bus di Google (Stampa alternativa, pp. 325, euro 24), completato nel successivo Team Human (W W Norton & Co Inc) alla luce dell’erosione dell’egemonia culturale che il capitalismo estrattivo ha conosciuto dopo la crisi del 2008. L’autore non è tuttavia un anticapitalista. Auspica, infatti, un «capitalismo inclusivo» che dovrebbe armonizzare la proprietà privata con i bisogni del popolo, il libero mercato con i diritti dei lavoratori.

A DUE ANNI DI DISTANZA, la gentrification di San Francisco non si è però fermata, anche se Google ha dovuto finanziare alcuni progetti di riqualificazione della città californiana per riconquistare il consenso perduto. Neppure la politica predatoria dello spazio pubblico da parte delle imprese della Rete ha conosciuto soste, pur se l’opposizione dei movimenti sociali urbani si è manifestata senza remore anche al di fuori della California, riuscendo a strappare eclatanti risultati, come testimonia il conflitto tra popolazione e Amazon a New York, dove l’impresa di Jeff Bezos ha dovuto rinunciare al progetto di trasferire uno dei suoi quartieri generali in cambio di sgravi fiscali da parte del sindaco.

L’USO CAPITALISTICO del territorio è certamente una delle caratteristiche emerse del «capitalismo delle piattaforme», costituendo un fattore di discontinuità rispetto a quello industriale, dove tra città e produzione c’era un confine forse impalpabile, ma evidente nel governo dello spazio urbano. Elemento, invece, assente nel capitalismo contemporaneo dove la metropoli è non è più il luogo dell’abitare o della rappresentazione del potere, bensì uno spazio dove non c’è soluzione di continuità tra vita, lavoro e consumo.

CHI NON È SICURAMENTE interessato a intervenire su questi temi è il filosofo italiano Maurizio Ferraris, che propone una chiave di lettura aliena sia alla critica dell’economia politica di matrice marxiana che allo schema liberale dominante. Nel volume Scienza Nuova scritto con Germano Paini (Rosenberg&Sellier, pp. 239, euro 15), non ha dubbi. La Rete esemplifica quella caratteristica umana che è lo stilare documenti, archiviare gli accadimenti attraverso testi e testimonianze. Il regime che contraddistingue l’umano vivere è per questo definito documentale. La Rete non fa che rendere evidente la caratteristica umana di produrre società attraverso documenti, l’archiviazione e la documentazione delle relazioni intessute nella vita quotidiana. Internet, i social network sono così da considerare come un immenso ammasso non di merci, bensì di documenti.
Questo di Ferraris è un saggio di antropologia filosofica che nega la storicità dello sviluppo umano. Termini come Stato, democrazia, impresa, classi sociali sono tuttalpiù considerati lemmi di catalogazione in un archivio, o titoli di un manuale di biblioteconomia, indipendentemente dallo scimmiottamento del lessico marxiano presente nel saggio in questione.

IL LIMITE DEL LIBRO non sta però nell’infedeltà o nella distanza da questa o quella tradizione filosofica, bensì nel proporre una logica circolare dello sviluppo sociale, economico, politico. Semplificazione di questa riproduzione del perennemente eguale è quando Ferraris sostiene che il capitale è sempre esistito perché la vendita e l’acquisto di prodotti, così come i bilanci sono sempre stati documentati. L’autore è molto abile nel divagare attorno alla filosofia antica o al nuovo realismo, ai regimi della postverità istituiti attraverso l’uso massiccio dei media (tv, radio, giornali e, ovviamente, il web), ma quel che emerge è un ordine del discorso che afferma il già noto: gli umani sono dotati della facoltà di documentare le loro attività in quanto animali sociali.
La documentalità non è quindi che un termine esoterico usato per alludere a queste plurindagate caratteristiche della natura umana. Non è un caso che Ferraris si inoltri in omologie tra il lessico marxiano e la documentalità. Il capitale, in fondo, è come una grande lavagna. La documentalità attesta solo le forme che esso assume (industriale, monetario, finanziario) da quando gli umani hanno cominciato a attestare le attività quotidiane. Ci sono anche paralleli tra plusvalore e Big Data, che rimuovano però il fatto che il plusvalore marxiano aveva a che fare con la produzione della ricchezza, aspetto del tutto assente in questo libro se non nella seconda parte del volume scritta da Paini dedicata all’«industria 4.0».

EVOCATO IL TEMA della postverità, ma solo come esempio di una realtà che nell’archiviare il suo divenire delega a un secondo momento la ricerca della verità. Ferraris non può tuttavia rimuovere fino in fondo che anche nel regime documentale c’è povertà, disuguaglianze sociali nell’accesso ai documenti, prodotto principe delle relazioni sociali. Per fare fronte a questi temi propone una forma di reddito di cittadinanza ancora in fase di elaborazione, da parte sua.
Quel che è certo è che se il capitale diventa una lavagna universale siamo di fronte a quella naturalizzazione di un rapporto sociale così propagandata dai neoliberisti come modello di società che va al di là della Storia e, giustamente, osteggiata da chi invece ne intuiva la storicità e le possibilità di sovversione e superamento. Ma questa è tutta un’altra Storia, verso la quale Ferraris non mostra nessun interesse.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 26 marzo 2019.

 

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