Di MARIA ROSARIA MARELLA.

  1. INTRODUZIONE: La famiglia fra conservazione e modernizzazione

Tre sono le matrici che si contendono il campo nel diritto di famiglia attuale: 1. La conservazione del modello tradizionale/comunitario, che vuole la famiglia oggetto di un diritto speciale, opposto al diritto del mercato, informato alla solidarietà fra membri di una comunità gerarchicamente ordinata; 2. la matrice che identifica la modernità della famiglia con la sua “privatizzazione”, cioè con l’apertura all’autonomia privata e alla contrattazione fra I coniugi, dunque all’individualismo e all’uguaglianza formale che governano il mercato; 3. la modernizzazione della famiglia declinata in termini di diritti umani e di riconoscimento delle identità, con la perdita di centralità dell’interesse della comunità familiare quale necessario tributo all’affermazione dei diritti fondamentali dei suoi singoli componenti. Queste matrici sono tutte tre in azione all’interno del diritto di famiglia vigente, che pertanto si presenta come un settore del sistema giuridico in costante tensione fra tendenze diverse, anche opposte fra loro.
Ora, come si colloca il DDL Pillon, recante Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità, in questo quadro composito? La storia del proponente, le sue esternazioni, il partito a cui appartiene, la Lega, farebbero pensare ad un progetto di rafforzamento/rilancio del modello tradizionale di famiglia coerente con la prima matrice all’opera nel sistema attuale del diritto di famiglia. Anche le reazioni di gran parte del movimento femminista italiano sembrerebbero privilegiare questa lettura. Ma un’analisi dell’articolato sembra condurre in una diversa direzione. Quel che emerge, come vedremo, è il disegno di una normativa ipertrofica e scarsamente coerente con le finalità declamate e con il quadro di principi cui vorrebbe dar voce.

  1. CORNICE IDEOLOGICA E OBIETTIVI PERSEGUITI: ALLA RICERCA DI UN DISEGNO COERENTE

Sullo sfondo del ddl Pillon c’è la soggettività bianca maschile che spazza via le identità diverse. È in particolare lo scontro col genere femminile – dei padri separati contro le madri ancora in prevalenza affidatarie o collocatarie dei figli minori – il suo terreno di riconoscimento e affermazione.
Ciò marca una forte contraddizione all’interno del capitalismo neoliberale fra l’economia delle identità (del diversity management, della diversificazione delle fasce di consumo secondo la linea del genere, dell’orientamento sessuale, della razza, ecc.) che domina la globalizzazione dei mercati, da una parte, e il suprematismo (del maschio) bianco dall’altra, che segna la svolta autoritaria e porta al corto circuito della identity politics. Non può dirsi esattamente un ritorno alla soggettività liberale che fonda il diritto moderno, quella che assevera l’unicità/universalità del soggetto di diritto astraendo dalle differenze delle condizioni di vita degli uomini e delle donne in carne e ossa, mentre occulta il suo calco: il maschio bianco, adulto, possidente, possibilmente coniugato. Non si tratta infatti di un nuovo universalismo. Piuttosto di una soggettività che predomina (prevarica) e marginalizza le altre. Siamo così al trionfo del maschio alfa, alla riaffermazione della centralità della soggettività del maschio bianco, apertamente rivendicata nella sua funzione escludente.
Se questo è il retroterra ideologico del ddl Pillon, in primo piano nell’articolato è il disciplinamento stretto dei ruoli genitoriali e di genere e delle vite, che spodesta della centralità rivestita nell’ultimo decennio all’interno del diritto di famiglia globale i dispositivi governamentali dell’inclusione nella famiglia come veicolo di inclusione nella cittadinanza. I ripetuti riferimenti al padre e alla madre contenuti nell’articolato segnano uno stop all’accesso delle soggettività LGBTI nella famiglia.
Questo approccio è del resto in linea con il clima politica corrente in cui non stenta a prendere corpo, fra gli altri segnali di oscurantismo, la crociata contro l’aborto, che insieme alla proposizione di misure in favore della maternità e dell’incremento della natalità, ecc., rivelano l’intento di ricacciare le donne dentro i ruoli tradizionali, con ciò gettando le premesse per la riaffermazione di un modello di famiglia che si pone in rotta di collisione col pluralismo sin qui dominante quasi ovunque in Occidente. Il modo in cui il matrimonio per tutti e il riconoscimento dell’omoparentalità hanno segnato il governo delle soggettività trasgressive, riportandole all’interno della famiglia legittima, sembra appartenere ad un’altra epoca rispetto al progetto di restaurazione che alcuni esponenti politici dell’attuale maggioranza, fra cui lo stesso Pillon, affermano di voler realizzare.
Non per questo nell’economia del ddl Pillon il modello comunitario di famiglia proprio della tradizione torna a farla da padrone. Al contrario, il revanchismo conflittuale dei ‘padri separati’ e la difesa del loro patrimonio e della proprietà della casa sembrano ben più centrali della difesa della famiglia nucleare eterosessuale come custode di un dato ordine sociale.
Siamo ad uno snodo decisivo nel sistema del diritto di famiglia italiano: il ddl sembra rompere con la corrispondenza fra le dicotomie individualismo/comunitarismo = modernità/tradizione che ha caratterizzato le dinamiche evolutive del family law sin qui, in quanto da una parte è piuttosto netta la scelta contro il paradigma tradizionale della solidarietà familiare, in favore dell’individualismo (si vedano la cancellazione dell’assegno di mantenimento del figlio al genitore affidatario e l’abolizione dell’istituto della casa familiare), ma dall’altra questa stessa opzione entra chiaramente in conflitto con la modernità rappresentata dalla costituzionalizzazione della parità di genere nel matrimonio e da quell’emancipazione femminile che si è realizzata anche attraverso l’uguaglianza sostanziale fra i coniugi quale motivo ispiratore del diritto di famiglia riformato. Il ddl rompe con la politica di redistribuzione della ricchezza familiare e con i dispositivi messi in atto a questo scopo dalla riforma del 1975 e dalla giurisprudenza, in favore del ri-emergere della soggettività maschile del breadwinner che in occasione della crisi della coppia recupera il controllo sul suo patrimonio. È dunque una forma inedita di rottura con la famiglia egalitaria perché non è finalizzata al recupero dell’istanza solidale/comunitaria propria della famiglia tradizionale, ma al contrario esaspera l’ideale dell’autonomia reciproca degli ex coniugi con ciò sacrificando lo stesso best interest of the child che formalmente vorrebbe promuovere. L’ulteriore paradosso sta in ciò, che la disuguaglianza fra i genitori dovuta alla eventuale diversità di condizioni economiche non solo non è perequata attraverso il diritto di famiglia, come sin qui garantito in virtù degli orientamenti dominanti in giurisprudenza e dottrina, né è il frutto dell’esercizio dell’autonomia privata dei coniugi, come già sottolineato nel dibattito di fine anni 90 in USA a proposito di private ordering e prenuptial agreements, ma è perseguita direttamente dal diritto cogente dello stato.

  1. FRA DEGIURISDIZIONALIZZAZIONE DELLA FAMIGLIA E BUROCRATIZZAZIONE. VERSO UNA BIGENITORIALITÀ COATTA E AZIENDALIZZATA

L’immagine della famiglia che il ddl Pillon riflette è claustrofobica, l’ambientazione ideale per un film horror i cui protagonisti, inconsapevoli individui mossi dalle passioni più oscure e incapaci di comportamenti razionali, sono manovrati da occhiute entità, pubbliche e private. Il susseguirsi martellante delle prescrizioni che condizionano l’esercizio della genitorialità in caso di separazione – il piano genitoriale, il coordinatore genitoriale, i poteri conferiti al mediatore, i paletti imposti alla discrezionalità del giudice, la disciplina minuziosa di ogni passaggio decisionale concernente i figli, sia minori che maggiori di età, tanto sul piano dei rapporti personali quanto di quelli patrimoniali – finisce col porsi in stridente contrasto con la previsione costituzionale dell’art. 29 cost. e con il rimando ai diritti della famiglia quale società naturale, formula con la quale deve intendersi la volontà dei costituenti di sottrarre la famiglia alle strumentalizzazioni di maggioranze politiche contingenti e in particolare ad una sua funzionalizzazione a obiettivi politici che tolgano spazio al libero (‘naturale’) svolgimento della vita familiare.
Un regime legale decisamente intrusivo della vita familiare, quale il ddl Pillon, deve considerarsi illegittimo sul piano costituzionale, tanto dal punto di vista del diritto interno quanto da quello del diritto sovranazionale, in cui il diritto al rispetto della vita familiare è tutelato dalle Carte europee ed è tappa fondamentale nell’evoluzione della famiglia in senso democratico. Su questo terreno, infatti, la funzione riconosciuta al diritto è eminentemente quella di garantire uguaglianza, diritti e libertà, non già quella di impadronirsi delle vite delle persone. Per dirla con Rodotà: “La legittimità della presenza del diritto discende così anche dalla sua capacità di negare se stesso”.
Va qui ancora sottolineata la burocratizzazione della genitorialità che l’articolato realizza. Il disegno Pillon pretende di regolare ogni singolo aspetto del rapporto genitori-figli e nel far ciò limita significativamente la discrezionalità del giudice nell’apprezzamento dell’interesse del minore in caso di conflittualità fra i genitori. Al giudice si sostituisce qui il legislatore che identifica l’interesse preminente del figlio minore in una rigida pianificazione dei suoi ritmi di vita, scanditi fra tempi paritetici di permanenza presso ciascun genitore e doppia residenza, mentre la fissità dei ruoli genitoriali è l’inevitabile conseguenza della definizione di un piano genitoriale in cui si contempla anche la ripartizione delle spese di mantenimento del figlio per capitoli, in modo da consentire il mantenimento diretto, senza corresponsione di un assegno a uno dei genitori e dunque senza che sia lasciato alcuno spazio all’imprevisto.

È d’obbligo rilevare come la degiurisdizionalizzazione promessa non vada affatto nella direzione di una degiuridificazione delle relazioni familiari ma, al contrario, spalanchi le porte all’invadenza del diritto dello stato. Ora ciò non soltanto è all’origine di un contrasto coi principi costituzionali che si sono ricordati, non soltanto tradisce una cultura statalista e scarsamente democratica per il fatto di irreggimentare i rapporti interpersonali fra i più intimi – il “mondo degli affetti” in schemi prestabiliti dalla legge, ma rivela anche grande inconsapevolezza circa il funzionamento e i limiti del diritto. L’intervento del diritto non sempre è di per sé sufficiente o adeguato a produrre il cambiamento desiderato, non sempre può efficacemente plasmare i rapporti sociali, tanto meno quelli affettivi. Poiché “la vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme”, come non si stancava di ricordare Stefano Rodotà che ha indagato lungamente e da par suo i rapporti fra la vita e le regole, è punto di partenza ineludibile per il giurista, in generale, e per il legislatore, in particolare, riconoscere i limiti del diritto e saperne prevedere gli effetti – che nel caso di interventi poco lungimiranti possono rivelarsi nulli o all’opposto devastanti.

Anche le previsioni riguardanti i figli maggiori d’età (art. 15), grondanti biasimo nei confronti dei potenziali giovani fannulloni, vanno nella direzione opposta alla degiurisdizionalizzazione della famiglia, allorché il mantenimento del maggiorenne non autonomo economicamente deve essere domandato (giudizialmente) dal figlio stesso, salva redazione di un piano genitoriale apprestato da genitori e figlio e approvato dal giudice, e salvo il cessare in ogni caso dell’obbligo di mantenimento col compimento del venticinquesimo anno d’età o ancor prima, se il mancato collocamento nel mondo del lavoro o il prorogarsi del percorso di studi siano imputabili a colpa del figlio stesso, secondo una logica workfarista (e disciplinare) che fa il paio con la disciplina del c.d. reddito di cittadinanza promossa dal Movimento 5 Stelle.
E qui risulta stridente il contrasto coi dati di realtà. Lo strutturale ritardo dei millennials ad entrare nell’età adulta, e dunque ad essere economicamente indipendenti, è fenomeno ormai diffuso in occidente e certamente endemico in Italia. Fra le ragioni, la necessità di un percorso di formazione più lungo per entrare in un mercato del lavoro sempre più competitivo, l’estrema precarizzazione del lavoro stesso, l’allungamento dell’aspettativa di vita e la tendenza a formare una propria famiglia più in là negli anni, l’attitudine dei genitori ad essere estremamente protettivi anche nei confronti dei figli ‘grandi’.
Nel sistema Pillon, al di là delle declamazioni circa la primazia dell’interesse del minore, sembra dover prevalere comunque il diritto del genitore al figlio.
In realtà la bigenitorialità à la Pillon è assunta ad emblema di un conflitto perenne fra genitori separati. E le modalità di governo del conflitto sono tali da scavare un solco fra le parti. Non si tratta soltanto di un dispositivo adultocentrico, ma di un modello totalmente sganciato da un contesto informato alla solidarietà familiare e piuttosto improntato ad una sorta di tregua armata. Il suo obiettivo non è la realizzazione di una piena cogenitorialità, ma la spartizione del figlio concepito come una risorsa da dividere (più che condividere) in base ad una pianificazione minuziosa che ricorda più un piano aziendale che non la vita familiare.
Del resto, la burocratizzazione della funzione genitoriale è l’inevitabile conseguenza della scelta di sottrarre la discrezionalità al giudice per affidarla quasi interamente al legislatore. Il riconoscimento dell’autonomia privata dei genitori, che dovrebbe essere implicito nel ricorso (sia pur obbligato) alla mediazione familiare e nella redazione del piano genitoriale, è in sostanza neutralizzato dalla fissazione di direttive legislative inderogabili. In questo quadro i piani genitoriali e l’eventuale ricorso al coordinatore genitoriale sono pensati per chiudere ogni spazio all’improvvisazione e persino alla spontaneità che i possibili imprevisti del quotidiano pure richiederebbero.

  1. LA RIVALSA DEL BREADWINNER: COME UNA SOGGETTIVITÀ SUPREMATISTA ACQUISISCE TRATTI GIURIDICI

In effetti la chiave di volta della ristrutturazione pilloniana dei rapporti fra genitori all’indomani della separazione sta nel mantenimento diretto dei figli e nella soppressione della casa familiare come istituto giuridico, vero cuore pulsante del ddl Pillon. È qui che si celebra la riscossa del maschio alfa, finalmente reintegrato nelle prerogative dominicali e libero dal peso economico di un assegno di mantenimento che attualmente, sebbene destinato alla prole, consente alla ex compagna che sia economicamente vulnerabile, e molto più incisivamente che l’eventuale assegno a lei diretto, di conservare per sé e per il figlio un tenore di vita dignitoso.
Materialmente, la soppressione dell’assegno – accompagnata dall’abolizione della casa familiare – comporta un notevole mutamento di livello e stile di vita per tutte le parti coinvolte rispetto al regime vigente, soprattutto laddove – ed è la larga maggioranza dei casi – il livello reddituale dei due genitori sia molto diverso: il mantenimento diretto del figlio non deve obbedire al parametro del tenore di vita goduto quando i genitori convivevano (che nella riscrittura dell’art. 337-ter c.c. scompare); ai genitori sono assegnati specifici capitoli di spesa cui ciascuno fa fronte in relazione alle proprie capacità economiche (art. 11, commi 6 e 7). È in tal modo scongiurata ogni minima forma, anche surrettizia, di redistribuzione della ricchezza fra i due ex coniugi. Ma quel che più conta è che i figli, i cui interessi sono in teoria al centro del progetto, saranno soggetti ad un’altalena di opportunità, vantaggi, standard a seconda che l’attività sportiva, la cura dentistica, l’abbigliamento, il materiale di cancelleria sia pagato dal padre o dalla madre. La eventuale distanza fra livelli di benessere e condizioni di vita è poi amplificata dall’introduzione della doppia abitazione e il venir meno dell’assegnazione della casa familiare al genitore collocatario, questione cui sarà dedicata qualche ulteriore riflessione. In ultima analisi, la condizione di disparità economica fra i genitori è elevata al rango di elemento organizzativo del nuovo sistema, e così anche il maggior appeal del padre, normalmente detentore di una maggiore ricchezza.
Un elemento ulteriore e, in certo qual modo, autenticamente ‘originale’ della retorica Pillon è la narrazione proprietaria che accompagna la soppressione sostanziale dell’assegnazione della casa familiare: “Non può continuare a risiedere nella casa familiare il genitore che non ne sia proprietario o titolare di specifico diritto di usufrutto, uso, abitazione, comodato o locazione…” (art. 14, comma 2). I toni solenni spesi al riguardo dalla relazione illustrativa ricordano da vicino la triade rivoluzionaria come rivisitata dal Napoleone del 18 brumaio: liberté, egualité, propriété. Uno dei tratti più salienti della rivoluzione annunciata è infatti la celebrazione della proprietà liberale, di sapore si potrebbe dire pre-costituzionale. A prevalere sulla solidarietà familiare è il peso del valore patrimoniale del bene. Il nucleo duro della proprietà, il suo valore di rendita, riemerge qui come ‘doppio’ della nozione costituzionale di proprietà ed è recuperato nella sua forza adamantina di principio ‘ombra’ del sistema.
Qui l’identità maschile del padre breadwinner si salda col recupero del fondamento proprietario della cittadinanza liberale (la triade napoleonica!) nella costruzione di una soggettività ‘suprematista’ che perde la sua essenza eminentemente sociologica per acquisire tratti più propriamente giuridici.
Col ddl pillon la proprietà non è più solo la posta in gioco del conflitto fra classi sociali, fra haves and have nots poiché in esso quel conflitto acquista e ingloba un’ulteriore dimensione, quella del genere, si connota anzi specificamente nell’intersezione fra genere e classe. Disattendendo così una funzione propria della famiglia tradizionale che, nella sua complementarità al mercato, quel conflitto tendeva a dissolvere nella logica superiore della comunità e nei meccanismi redistributivi con essa coerenti. Proprio il godimento della casa familiare, che potremmo considerare l’ultimo baluardo di una visione comunitaria della famiglia, è invece ora svuotato di qualsiasi significato solidale e una volta individuato attraverso l’ottica esclusiva della proprietà diventa elemento strutturale e altresì simbolico di un nuovo ordine della famiglia. O piuttosto della fine della famiglia come istituzione.
Ecco dunque che il fine della bigenitorialità non sopravvive alla differenza di reddito fra i genitori, vera bussola nell’edificazione del rapporto genitori-figli all’indomani della crisi della coppia. Il genitore meno abbiente ‘paga’ per la separazione un prezzo salatissimo in termini materiali, affettivi e psicologici. Possiamo leggere questo esito – come è stato fatto – come una strategia (la strategia?) consapevolmente scelta dal ddl per disincentivare le donne dal ricorrere alla separazione. Spereremmo di non dover misurare in concreto la fondatezza di questa previsione. Certamente chi compie o subisce la scelta della separazione al tempo di Pillon vede la propria condizione di vulnerabilità economica notevolmente peggiorata rispetto a quanto attualmente determinato dal diritto vigente.

  1. CONCLUSIONI: GLI AMBIVALENTI SVILUPPI NEOLIBERALI DEL DIRITTO DI FAMIGLIA

Su un piano generale di politica del diritto, le riflessioni condotte in questo testo confermano l’atteggiamento ambivalente nei confronti degli sviluppi neoliberali del diritto di famiglia. Da una parte la privatizzazione delle relazioni familiari non è solo ammessa, ma addirittura celebrata nell’enfasi posta sulla degiurisdizionalizzazione come prospettiva irrinunciabile del progetto di riforma del diritto di famiglia. E non c’è dubbio che l’adozione di tecniche di ADR (Alternative Dispute Resolution) nelle controversie familiari, come la mediazione e la coordinazione genitoriale, rappresenti – e sia universalmente assunta come – un momento topico nei processi neoliberali di ‘privatizzazione’ del diritto. Nel contempo, però, questa stessa linea di tendenza, nei termini in cui è fatta propria dal ddl Pillon, non collima con l’egalitarismo che le sarebbe connaturato e che inevitabilmente investe tutte le identità sessuate, sino a comportare l’estensione del matrimonio alle coppie same-sex. Nella misura in cui, infatti, si ammette la negoziabilità delle posizioni all’interno della famiglia al pari di quelle regolate dal diritto comune, ci si approssima alla razionalità del diritto patrimoniale privato con ciò accogliendosi anche il paradigma del soggetto di diritto neutro e universale proprio delle relazioni di mercato; per ciò stesso, però, la esclusività del binarismo sessuale nei rapporti giusfamiliari e del modello della (bi-)genitorialità ‘naturale’, necessariamente eterosessuale, vacillano. Ma qui, in contrasto con le sue stesse premesse, il ddl Pillon non mostra esitazioni nel liquidare ogni ipotesi di pluralismo familiare con un uso tranchant delle parole padre e madre al posto di genitori.
D’altra parte, il pluralismo delle forme che contrassegna il diritto di famiglia neoliberale si pone alla convergenza con un’altra linea di tendenza propria del diritto contemporaneo, quella ispirata al riconoscimento delle identità individuali e alla promozione dei diritti fondamentali di cui ciascuna di esse è portatrice.

 Nella fase corrente il soggetto di diritto sembra aver perduto quella vocazione universalistica, trasversale alle innumerevoli differenze che connotano le persone in carne e ossa, che ha contrassegnato la sua comparsa nel diritto moderno e la sua funzione di elemento ad un tempo unificante e semplificante della varietà delle relazioni giuridiche che attraversano il tessuto sociale. Quella nozione appare oggi come frammentata in molteplici identità che mappano le differenze in senso statico e dinamico (dal genere, la razza, l’orientamento sessuale, la cultura e la fede religiosa all’età e alla condizione di disabilità), in una partitura biopolitica a 360 gradi. Non vi sono diritti civili o patrimoniali, come è stato un tempo per la proprietà, o diritti sociali, come quelli riconosciuti al lavoro dalla costituzione italiana, capaci di costituire l’ossatura di una soggettività giuridica omogenea.
Strettamente connesso all’affermarsi delle identità sul piano giuridico è il riconoscimento dei diritti umani, forse il più evidente dei caratteri distintivi del diritto globalizzato nell’attuale fase della sua diffusione. Per sua natura, il discorso dei diritti umani si articola infatti attraverso l’individuazione di specifiche e differenti identità che tendono a frammentare la soggettività giuridica secondo genere, età, razza, orientamento sessuale, ecc., in tal modo occultando le condizioni economiche e sociali che nella realtà connotano le singole forme di vita. Propria di questa fase è dunque la declinazione dei diritti fondamentali secondo identità particolari e non più su base universale. Ne consegue che stella polare della loro tutela sia non già il principio dell’uguaglianza sostanziale ma la formulazione di svariati divieti di discriminazione, tanti quante sono le identità reputate meritevoli di riconoscimento giuridico.
Per quanto ci interessa in questa sede, l’intreccio identità/diritti fondamentali interseca la famiglia principalmente secondo due traiettorie. La prima vede come protagoniste le soggettività LGBTI, cui la famiglia legalmente riconosciuta ha ormai da tempo spalancato le porte attraverso la previsione di forme di paramatrimoniali prima (registered partnerships, unioni civili, PACS) e il matrimonio per tutt* poi. Più defilata, ma comunque ben presente a livello globale, è l’ascesa dell’omoparentalità quale modello emergente di genitorialità. Essa si lega ovviamente al riconoscimento dell’orientamento sessuale quale veicolo di affermazione di nuove identità e alla più generale individuazione di un ‘pacchetto’ di diritti specifici delle soggettività non cisgender (LGBTQI).
La seconda traiettoria lungo la quale l’ascesa delle identità e l’egemonia del rights discourse incrociano la famiglia ha invece al centro la persona del minore.
Nel poderoso apparato retorico dei diritti umani un capitolo importante è ora dedicato proprio ai minori, i quali rispetto al passato hanno acquisito un’inedita centralità nel discorso giuridico multilivello, ponendosi come soggettività autonoma e distinta rispetto alle famiglie d’origine e ai genitori. Convenzioni internazionali e carte dei diritti sovranazionali e nazionali riconoscono oggi diritti precipuamente modellati sui bambini, volti a garantire loro tutela a prescindere dalla protezione accordata alle loro famiglie e talora esplicitamente contro le famiglie stesse. Parallelamente, una folta giurisprudenza intitolata al best interest of the child si è diffusa in ogni giurisdizione di quella area che fino a qualche tempo fa è stata chiamata Western Legal Tradition. La primazia assicurata all’interesse del minore non conosce frontiere: non c’è oggi principio – per quanto basilare possa essere per il diritto di famiglia di un dato paese – che sia in grado di competere con la forza persuasiva del best interest of the child.

Sebbene apparentemente il ddl Pillon si collochi su una linea diversa, che parrebbe conforme ad un’idea di famiglia tradizionale – organicista, eterosessuale e nucleare – i dispositivi che pone in essere contraddicono il nucleo duro di quel modello proprio per il fatto di rompere con il paradigma della solidarietà familiare e con l’ideale comunitario che esso incarna. In realtà il provvedimento gioca anch’esso la carta dell’identità, non, questa volta, l’identità del minore ‘armata’ della clausola del best interest, tanto meno quella non-etero promossa dal divieto di discriminazione e dai principi dell’autodeterminazione e del rispetto della dignità umana, e neppure quella femminile al centro dei dispositivi redistributivi propri della famiglia egalitaria: l’identità emergente è qui quella del maschio alfa, identificato essenzialmente nel suo ruolo di padre-breadwinner.
Considerato, dunque, che tanto la tensione verso la privatizzazione quanto il discorso dei diritti umani e delle identity politics entrano in rotta di collisione con il diritto di famiglia tradizionale in un punto fondamentale, cioè nel suo carattere comunitario, votato alla realizzazione di un interesse della famiglia superiore a quello dei suoi componenti e radicato nell’idea di solidarietà familiare; che questo, a sua volta, si erge contro il modello individualista della competizione fra soggetti e della ‘prevalenza’/conflitto propri invece delle due tendenze più moderne, dobbiamo concludere che il ddl Pillon non percorre affatto la via della restaurazione del canone della famiglia tradizionale. Esso porta al contrario alle loro estreme conseguenze tanto la privatizzazione della famiglia quanto la competizione fra identità – e l’individualismo che connota entrambe – ponendo fine a ogni legame di solidarietà fra coniugi e genitori e subordinando la tutela del benessere dei figli minori alla salvaguardia del patrimonio del genitore più abbiente. A queste conclusioni conduce la centralità nell’economia del ddl delle disposizioni relative alla (abolizione della) casa familiare e al mantenimento diretto. Esse sanciscono la prevalenza della proprietà individuale sulla solidarietà familiare, del controllo del patrimonio del genitore su una gestione armonica delle risorse destinate al mantenimento del figlio.
Non è, come forse nelle intenzioni dei presentatori, la rinascita della famiglia nucleare eterosessuale, ma il suo requiem. Comunque lo si voglia giudicare, è paradossale che un tale esito sia conseguito da chi si propone come paladino dei valori che quel modello di famiglia incarna.

*Questo articolo è una sintesi di un lavoro più ampio in uscita su n. 1/2019 RCDP, «Fra pulsioni punitive e rigurgiti proprietari. I molti pasticci del ddl Pillon»

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