Di BENEDETTO VECCHI.

Le immagini del suo arresto, da parte dei poliziotti di Scotland Yard, sigillano con il marchio dei voltagabbana la fine di un’era dell’attivismo on line. Solo, stanco, invecchiato era ormai diventato per l’Ecuador un ospite ingombrante che causava non pochi problemi alle sue relazioni con gli Stati uniti.

Washington, e il Pentagono in particolare, voleva fortissimanente la testa di Assange, dopo che WikiLeaks aveva diffuso i materiali su un’operazione sporca sfuggita di mano ai soldati americani provocando la morte di alcuni civili e giornalisti iracheni. Termina così una vicenda che ha le sue radici nel mediattivismo in Rete. Assange aveva spregiudicatamente tessuto la tela di alleanze e relazioni con i media mainstream e leader politici autoritari e ostili alla libera circolazione delle informazioni (il russo Putin) portando alla ribalta segreti fino ad allora inconfessabili.

Per anni, la sua organizzazione, WikiLeaks, è stata sinonimo di un attivismo digitale portabandiera della trasparenza, eletta a parola d’ordine radicale contro il segreto militare, industriale e la manipolazione della realtà da parte dei media. Nelle sue scorribande in Rete e fuori, Assange ha incontrato inaspettati compagni di strada tra gli hacker più politicizzati e radicali (Anonymous), registi radical (Ken Loach) e i migliori giornalisti investigativi su piazza (Glenn Greenwald), coinvolgendo militari Usa (Chelesea Manning) e creando le condizioni affinché personaggi come Edward Snowden decidessero di rivelare le malefatte della National Security Agency (Nsa).

La sua vita spericolata, assieme all’accusa di stupro in Svezia, ha attirato sulla sua testa non poche critiche anche della sua parte. Un accentratore che non ha esitato a cacciare chi metteva in dubbio le sue decisioni, Un egocentrico indifferente alle ragioni della sua organizzazione. Giudizi che hanno determinato un calo di consenso verso WikiLeaks, portandolo a fare scelte molto poco trasparenti, come quando ha accettato di lavorare a una televisione russa pagata da Putin; o quando ha contattato l’entourage di Donald Trump, ventilando la possibilità di passare mail e documenti che avrebbero messo in cattiva luce Hillary Clinton durante le presidenziali del 2016.

Ogni volta, Assange, ha rivendicato il suo operato come il mezzo per rompere l’assedio al quale era costretto dai servizi segreti statunitensi, risultando tuttavia poco credibile. Sta di fatto che si è alla fine ritrovato solo. C’è solo da sperare, adesso, che non venga estradato negli Usa dove è accusato di attentato alla sicurezza nazionale, un capo di accusa che apre sicuramente le sbarre della prigione con una probabilità assai alta che i suoi carcerieri possano buttare via le chiavi della sua cella. Un esito da respingere, perché l’operato di WikiLeaks è stato comunque prezioso.

In una situazione dove la Rete è diventata medium universale, Assange ha intuito il potenziale controinformativo che aveva. Con un lavoro meticoloso di verifica delle informazioni, ha messo on line documenti mai smentiti, senza mai mettere in pericolo la vita di nessuno, sia che si trattasse di documenti e mail di compagnie petrolifere dove si potevano leggere la corruzione di esponenti politici africani (in Kenya o in Nigeria, ad esempio); o quando manager di imprese finanziarie inglesi con sedi in Asia raccontavano con spavalderia le loro speculazioni che magari impoverivano intere regioni del pianeta per arricchire quell’un per cento delle élite globali. Ma la bestia nera di WikiLeaks è rappresentata dal Pentagono, raccogliendo materiali sulla guerra sporca in Iraq o quella contro il terrorismo islamico, ambiti nei quali l’esercito americano non ha certo brillato per rispetto della popolazione civile. Allo stesso tempo non ha esitato a bussare alle porte delle redazioni mainstream proponendo collaborazioni per diffondere sulla carta gli stessi documenti pubblicati sul sito di WikiLeaks.

Assange è stato cioè flessibile, pragmatico, poco incline a comportamenti settari. Questo il suo merito, assieme al fatto di aver risollevato dal fango dell’arricchimento personale le nobili bandiere hacker sulla libera circolazione delle informazioni, legittimando così le azioni anche di Anonymous. Al di là del successo planetario del film V per vendetta, la maschera di Guy Fawkes non sarebbe diventata il simbolo dei movimenti sociali che è diventata se WikiLeaks non avesse dichiarato di aderire, anche se per breve tempo, alla frase di Anonymous «Noi siamo legione».

Di strada ne ha dunque fatta molta Julian Assange da quando giovane attivista australiano, in nome del cypherpunk, faceva l’agit prop a favore dell’anonimato in Rete e contro lo strapotere di governi e imprese, sbarcando anche, agli inizi di questo millennio, al forum sociale di Porto Alegre, dove, da dietro un banchetto improvvisato, distribuiva i materiali della sua nascente organizzazione. Era dovuto riparare nell’ambasciata dell’Ecuador, dove un presidente si professava populista, di sinistra e antimperialista per poi diventare un populista neoliberista amico degli Usa. Solo, con i fondi di WikiLeaks bloccati. Ma soprattutto era cambiata la Rete.

Ormai la trasparenza radicale è garantita da Facebook, Twitter, Instagram, mentre Whatsapp, in nome della privacy, usa un software che impedisce di leggere i messaggi, garantendo l’anonimato. Insomma quelle stesse corporation che Assange vedeva con il fumo agli occhi. È l’ironia della storia il fatto che il suo arresto sia accaduto in diretta, perché con la Rete la trasparenza deve essere garantita a chiunque. Ad attivisti radicali come a spregiudicati venditori di socialità in forma di spazi pubblicitari.

 

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 12 aprile 2019. 

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