Di TONI NEGRI.

Un bel libro questo: L’Autonomia operaia vicentina. Dalla rivolta di Valdagno alla repressione di Thiene, quinto volume della collana «Gli Autonomi» (DeriveApprodi, pp.256, euro 19). Ne è l’autore Donato Tagliapietra. È un libro vero, per taluni versi eccezionale, e racconta la storia singolare di uno di quei cento centri autonomi di iniziativa comunista che negli anni ’70 agirono nelle fabbriche e nei territori italiani, affermando contropotere operaio e conquistando salario e diritti.

OGNUNO DI QUESTI CENTRI è un’esperienza unica, l’insieme un episodio rivoluzionario. Il racconto, degli operai e dei militanti vicentini, mostra la confluenza di un movimento sociale sgorgato dal ’68 e di una comunità generazionale di ragioni e di affetti politici, che rende in maniera esemplare l’irripetibile qualità del fare politica dell’Autonomia di quegli anni. Questo mondo lo si può prendere dunque da due lati, quello della lotta di classe e quello generazionale, ma questi due lati non si separano mai. Ogni pagina la si può leggere come racconto del modo in cui una fascia d’età d’operai e studenti s’è trovata a mettere in questione, in maniera radicale, l’ordinamento di fabbrica e sociale e come ciascun gruppo di compagni abbia voluto vivere questa rottura e ci abbia messo del suo per fabbricarla.
«Destino e libertà», si potrebbe dire filosoficamente. Ma detto in veneto, con un accento ed una decisione tanto dure quanto fu allora la costrizione al lavoro salariato contro una generazione di giovani, già definitasi come intellettualità di massa in formazione.
Il libro è costruito quasi esclusivamente da documenti prodotti dall’organizzazione – i Collettivi Politici Veneti dell’alto vicentino – e da interviste con i militanti d’allora. E segue l’espansione straordinaria delle lotte, incentivate e/o organizzate dai collettivi di paese, dalla rivolta della Marzotto di Valdagno dell’aprile ’68 fino alla repressione degli inizio degli anni ’80. Dall’inizio alla fine di questo periodo si determina una concentrazione organizzativa sempre più estesa sul territorio e sempre più incisiva.

LA COMUNITÀ DI LOTTA è anche una comunità di vita: questa verità trasuda dal racconto. Liberarsi dalla miseria del lavoro salariato, vendere a caro prezzo la propria forza-lavoro costituirono un modo di costruire una vita diversa. Gli scioperi in fabbrica e le ronde contro il lavoro nero andavano con la conquista dei concerti gratuiti, con la lotta contro gli affitti e l’occupazione di case e la generosa appropriazione di beni nei supermercati. Illegalità di massa, sì, ma anche invenzione di un modo di vita che rifiutava la povertà dei corpi e la miseria dello spirito. Una generazione di giovani si propose, con grande maturità, il progetto di una vita libera.

COM’È DIFFICILE narrarlo oggi a chi finge di essere libero. Eppure la lettura di questo racconto risveglia nel fondo di ogni animo quell’imperfetta coscienza della falsità e della illibertà che la volgarità del vivere sotto padrone determina: non a tutti è dato di trasformare quel risveglio in un atto di rottura. Poiché siamo soli. Di contro, quei ragazzi di Thiene e dei paesi attorno, fino a Schio, fino a Bassano, fino a Vicenza avevano rotto ogni destino di solitudine: erano insieme, si sentivano forti, diedero un esempio di dignità. Insieme, tutti insieme.
Lo scontro con il potere fu violentissimo. Come in tutto il Veneto, d’altronde, dove fra i ’60 e i ’70 si dettero alcune delle più importanti esperienze massificate di organizzazione ribelle, nelle grandi fabbriche prima e poi nella fabbrica diffusa, ed in contemporanea nelle scuole e nelle università.
Perché nel Veneto la lotta di classe divenne tanto dura? Perché – come questo libro mostra – la rivolta non avvenne solo contro il padrone ma, data l’arretratezza delle discipline sociali di sfruttamento, fu uno scontro sulla vita: fu un salto nel nuovo ed una scoperta del comune, un associarsi radicale nella lotta e la volontà di costruire una nuova società.

DURISSIMO FU APPUNTO lo scontro con la repressione. Eppure anche negli episodi di lotta armata in risposta alla repressione, la linea dei Collettivi fu sempre quella della tenuta dei territori dell’«operaio sociale» e non fu mai assassina, bensì rivolta alla costruzione di comunità libere. Non a caso non ci furono infami né pentiti quando la repressione vinse. Quando dopo la tragedia dell’11 aprile del ’79, quando tre compagni morirono mentre si preparavano a rispondere al blitz del 7 aprile, e quando un quarto compagno fu assassinato in carcere, l’opera al nero dei repressori, di Calogero e di Dalla Chiesa, fu feroce. Negli anni successivi, alla galera per molti, si aggiunse l’eroina per moltissimi.
Questo libro è dedicato ad Antonietta Berna, Lorenzo Bortoli, Angelo Dal Santo e Alberto Graziani, ai quattro caduti di quell’aprile maledetto, in maniera amara, non luttuosa tuttavia, bensì esclamando orgogliosamente quanto quella vita di uomini liberi assassinata fosse vera ed esemplare.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 18 aprile 2019.

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