Di TONI NEGRI.

Per cominciare, chiediamoci se un progetto/metropoli non sia pensabile nell’attuale momento di sviluppo capitalista, caratterizzato dall’emergere (nella società sussunta nel capitale) d’un proletariato cognitivo, capace di espressione autonoma. Per rispondere a questo interrogativo attraversiamo il forte lavoro di Marco Assennato (Progetto e metropoli. Saggio su operaismo e architettura, Quodlibet, pp. 105, euro 16). Qui troviamo egregiamente esposte le ragioni per le quali la risposta operaista a quell’interrogativo era stata a suo tempo negativa. Decisive sono in proposito l’esperienza e la presa di posizione di Manfredo Tafuri negli anni ’70 nel Collettivo di architettura di Venezia e nella rivista Contropiano. Ivi, la decostruzione dell’ideologia del lavoro, propria del movimento socialista, è sviluppata con radicale lucidità. Si costruisce così una critica anti-utopica, strutturata sulla polemica contro le figure ideologiche del socialismo, di quello social-democratico d’antan per arrivare a quello «reale», sovietico.

IN MATERIA ARCHITETTONICA, il punto classico dello scontro si determina nel dibattito attorno alla viennese Karl Marx Hof, la pretesa grande fortezza del proletariato austriaco, dove invece si configura la sconfitta del movimento operaio. Ragionevolmente Tafuri insiste che non avrebbe potuto darsi che sconfitta, una volta che la resistenza proletaria si fosse attardata sull’ideologia del lavoro, che costituiva la base di quell’architettura imponente.
Più tardi altri (Vittorio Aureli in particolare) hanno ripetuto la pretesa di un autonomo progetto («architettura assoluta») fissandone il disegno in termini di isoformismo, non più con l’ideologia del lavoro del movimento operaio ma con una presunta «autonomia politica» del movimento stesso. È facile riconoscere qui una distorta e illusoria interpretazione dell’«autonomia del politico» trontiana, una sua fantasiosa traduzione fuori dalle stesse condizioni della sua genesi.

MA TORNIAMO a quella presa di posizione corretta che Tafuri esprime negli articoli di Contropiano, laddove distrugge la possibilità per l’architetto di muoversi in una metropoli «che non è più una forma ma un processo di produzione, una catena di montaggio nella quale l’oggetto architettonico è divenuto integralmente sovrastrutturale». Fu questa la posizione operaista un cinquantennio fa? Certamente. Le coerenti conseguenze si ritrovano nel lavoro fatto in quegli anni da Luciano Ferrari Bravo e Guido Bianchini con l’«Associazione dei Designer» di Milano: laddove, a questo proletariato di architetti e progettisti – si diceva realisticamente – che stavano passando dalla matita al computer nell’immutato loro destino di assoggettamento al capitale immobiliare e finanziario. Ed era lì, dentro questo riconoscimento, che essi dovevano organizzarsi, evitando cattivi sogni alternativi pseudo-dada e provocazioni surrealiste d’altri antichi tempi. Di seguito, con efficace insistenza politica, in quella fase della critica operaista (siamo già negli anni ’70 avanzati) sono redatti i fascicoli e le proposte di La Città-fabbrica di Magnaghi, Bonfiglioli, ecc. Non è un’esperienza accademica ma di lotta, quella che qui viene costruita attraverso l’analisi della condizione dell’architetto e del designer, dell’urbanista e del ricercatore, insomma di quella nuova figura dell’«operaio-sociale» e della sua pratica sovversiva nella/della metropoli.

Credo che la conclusione che Assennato tira da quest’esperienza sia perfetta: per l’operaismo, ci dice, «si tratta di leggere l’urbanistica come diagramma del potere e, dentro a questo, sempre anche come dispositivo di soggettivazione, rottura del limite, critica del codice, rifiuto della norma. Da un lato lo sviluppo e dall’altro la produzione, da un lato la crisi e dall’altro la soggettivazione. Insistiamo, si badi bene: un doppio movimento che è interno al diagramma del potere, non esterno, non altro, non separato da esso. Di qui la ricerca può ripartire: su questa base disincantata, va fatto funzionare il pensiero, va attivato il punto di vista della tendenza, del progetto, la ricerca di dispositivi pratici di iniziativa politica soggettiva».

SU QUESTA BASE disincantata, oggi, sarà possibile proporsi nuovamente il tema del progetto rivoluzionario nella metropoli? La conclusione dell’analisi fin qui condotta vuole che una «via in su» sia difficile, esposta a un esito destituente, probabilmente capace di produrre forza ma del tutto incerta di rinnovare progetto. Eppure, nella situazione attuale, l’emergere di nuovi segmenti di classe e i nuovi rapporti di forza che essi manifestamente impongono, attraverso la disastrata moltitudine, determinano squilibri oggettivi e resistenze soggettive davvero vivaci. Queste forze investono la metropoli, appropriandola nell’inappropriabile sua bigness.

UNA RINNOVATA tragedia? Una lotta di classe ancora obbligata a girare attorno a un restrutturato ma irremovibile comando capitalista? Una ripetizione impotente dell’operaismo sconfitto? Eppure, come fanno oggi i gilets jaunes, ormai molteplici sollevamenti proletari investono piazze dove costruire assemblea. In questa luce, sembra difficile negare, pur attenendosi a un cauto sperimentare, la volontà di proporre progetto di ricostruzione della metropoli.
Sembra che si sia toccata una soglia di rottura, in quanto potenza di un nuovo progetto, che attende definizione. Inetti ad affidarci a qualsivoglia utopia, c’è qui qualcosa di più di quell’insistente domanda che, unendosi nella rivolta, i corpi producono. C’è una domanda prepotente: noi la vogliamo nostra, quella metropoli nella quale di nuovo risuona la lotta di classe.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 24 maggio 2019.
Illustrazione di Claudio Calia

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