Di CARLO CROSATO.

L’impresa filosofica più nota di Giorgio Agamben, la serie Homo sacer, si è conclusa nel 2014, con la pubblicazione del nono e ultimo volume. Si è trattato di un lavoro lungo vent’anni, in cui il filosofo italiano si è impegnato nel tentativo di completare e correggere la prospettiva biopolitica offerta da Michel Foucault, ampliandone l’orizzonte storico e il bacino concettuale in termini schiettamente ontologici, fino a reinterpretare la stessa nozione, accantonata da Foucault e oggi quanto mai presente e fraintesa, di sovranità, come geometria fondamentale del nostro pensiero.
Proprio l’impegno profuso da Agamben in questo profondo ripensamento delle categorie filosofiche della nostra cultura, impedisce di ridurne l’opera all’etichetta di filosofia politica. Certo, la celebrità – in ambienti accademici e non – della serie Homo sacer fa apparire i testi, che fin dal 1970 l’hanno preceduta e a partire dal 1995 l’hanno affiancata, come altrettante premesse e puntelli di sostegno in funzione di quella. Ma la radicalità e l’eterogeneità dell’impresa politica agambeniana si rendono davvero comprensibili solo se inserite, come la specie rispetto al genere, nel quadro delle questioni aperte dai volumi precedenti ed esterni alla serie Homo sacer; volumi che in parte indicano il terreno inesplorato entro cui la riflessione strettamente politica dovrà farsi strada, e in parte, in un gioco di rimandi e implicazioni reciproche, concorrono a gettare luce sull’intero scenario del pensiero occidentale, fin dentro a quegli angoli polverosi e trascurati da cui, come scriveva Benjamin, può in ogni momento apparire l’occasione di salvezza.

Il caso de Il Regno e il Giardino, volume recentemente pubblicato da Neri Pozza, è proprio quello di uno sforzo che concorre ad aprire lo sguardo sull’intero panorama ontologico e politico verso cui – soprattutto, ma non solo, con Il Regno e la Gloria – Agamben aveva già fatto segno in termini critici. Così come Regno, Gloria, governo, parole in questione nel volume del 2007, anche Giardino e, nuovamente, come punto di simmetria, il Regno sono elementi la cui genealogia indaga la capacità di eccedere l’ambito semantico d’origine, non per acquisire un nuovo significato, bensì per importare in altre sfere regole, pratiche, precetti, le geometrie che si conservano e permettono di comprendere tanto il passato quanto il presente in uno spazio di coappartenenza. Ed è in questo gioco di rimandi che l’ambizione di chiarire gli aspetti più arcani della politica occidentale è sviluppata a partire da un’analisi tutta rivolta al dialogo antico, tardo-antico, medievale, di tenore spesso teologico e talvolta meramente ecclesiastico, alla ricerca di quelle strategie, di quegli errori e di quei ricorsi storici che hanno permesso a certi concetti di trasferire la propria trama nel pensiero politico. Un pensiero che, per quanto si pretenda autonomo e autoevidente, si arricchisce storicamente mediante l’intreccio e, appunto, il trasferimento di nozioni tradizionalmente considerate assolutamente impolitiche.
Una tale pretesa autonomia dell’alveo politico, che è figlia dell’autoreferenzialità ereditata dal discorso teologico, innerva l’intero pensiero occidentale intorno al potere, la cui sovranità discende dalla trascendenza divina, e intorno al governo, discendente dall’atto mediante cui tale potere impone un ordine al mondo perché si realizzi un Regno di salvezza; elementi la cui reciproca e necessaria implicazione si legittima da sé, celando la propria infondatezza dietro una presenza così luminosa da risultare abbagliante e perciò invisibile. Dall’altro lato, l’interesse intorno al tema del Giardino, del paradiso piantato in Eden perché fosse la dimora della felicità dell’uomo, emerge per Agamben dalla domanda intorno alla curiosa rimozione della possibilità di ottenere la felicità; una rimozione operata in favore della coppia Regno-governo e del discorso intorno al peccato che, facendo decadere la natura umana, offre la condizione di una filosofia della storia come percorso di salvezza proteso alla realizzazione del Regno.

La domanda sul Giardino, perciò, si presenta come un’archeologia interessata a scoprire da dove tale discorso sul peccato originale provenga, quali discorsi alternativi abbia oscurato e, di conseguenza, come altrimenti si potrebbe pensare un accesso alla salvezza e, in termini profani, una nuova politica che realizzi la felicità senza subordinare la vita alla violenza costituente del potere sovrano e alla violenza conservativa del diritto, entro una cronologia della salvezza. Si tratta di questioni che Agamben ha toccato fin dalle sue prime riflessioni, per continuare a proporne punti di vista sempre più ricchi e preziosi. Il Regno e il Giardino offre una prospettiva il cui tema portante è quello del peccato e della sua capacità di afferire l’intera umanità per mezzo della corruzione della natura umana stessa. La storia dell’uomo ha dunque origine in una caduta che impone alla massa umana un percorso di redenzione: la massa è il termine che, da Agostino al pensiero politico moderno fino alle masse dell’epoca contemporanea, designa il protagonista di questa economia di salvezza, sia essa configurata in termini sacri e impolitici o in termini profani e politici; o, meglio, l’oggetto di questa economia, essendo la massa mai vero e proprio soggetto della propria storia, ed essendo destinato al fallimento e alla subordinazione ai capi ogni tentativo di emancipazione.
La subordinazione della massa umana a un potere che la governi è, poi, l’effetto della riduzione della dimensione messianica del Regno a coincidenza con l’ordine immanente che nella storia, per mezzo dei sacramenti somministrati dalla Chiesa o per mezzo del governo civile, guida l’uomo in una protensione indefinita verso il recupero della felicità, assieme ricordo della dimora passata nel Giardino e utopia da riguadagnare nel futuro. Agamben, per parte sua, ambisce a recuperare quella dimensione messianica, ridonandole però il suo vero significato: non come apertura cronologica in senso utopico o catastrofico, per lo più subordinata alla cattura del potere sulla vita, bensì come una tensione interna alla vita stessa, come uno spostamento minimo sul posto, che rinnovi, nel senso di una consapevolezza critica, la vita di ognuno, e salvi l’uomo.

Sono i temi che, all’insegna dell’inoperosità, Agamben insegue fin dagli anni Novanta, con l’immagine di una comunità che viene, con le nozioni di un soggetto “quodlibet” e della forma-di-vita, con i paradigmi di Bartleby e del cinese di Tienanmen, e, infine, passando per la impareggiabile analisi del messianismo paolino, con la conclusione della serie Homo sacer consacrata a un “potere” che destituisce il susseguirsi storico di costituente e costituito, e che non sia più votato alla cattura della vita entro determinate forme e all’imposizione di identità. Qui il ripensamento messianico del Giardino è operato soprattutto grazie alla lettura di Dante. Già in un importante saggio del 2004, Agamben aveva citato Dante come occasione per reinterpretare i passi in cui il pensiero antico, non potendo sopportare l’idea di un essere di pura e impotente potenza, rinveniva nel logos l’atto essenziale all’uomo e affidava alla polis la definizione e l’espressione di esso. Dante offre per Agamben l’occasione di sostare in prossimità di una potenza pura e non destinata a ricadere necessariamente nell’operosità; e offre, altresì, l’occasione per pensare una politica all’altezza della vera dimora etica dell’uomo, ossia lo spazio di un’apertura accessibile all’uomo come pura medialità del linguaggio e del gesto, rompendo con la catena che lega mezzi e fini, potenza e atto.
È in questo senso che, ancora con Dante, Agamben ripensa il Giardino come allegoria della beatitudine che è destinata all’uomo nella vita terrestre: esso non è un luogo diverso rispetto alla selva oscura, emblema dello smarrimento; anzi, le due selve sono una sola, entrambe spazio di realizzazione della felicità, vero fine della vita umana. Non è la realtà fattizia a mutare, quanto invece il modo in cui essa viene attraversata; e la vera beatitudine si realizza solo mediante l’operazione della propria virtù, che nell’uomo non corrisponde a qualche cosa di determinato, a una forma o a un’identità imposta secondo un ordine che cattura la vita, bensì è l’operazione dell’inoperatività stessa, della capacità di sostare presso la propria impotenza intesa come apertura massima e trattenuta della propria potenza, e trasferita in quanto tale anche nel momento in cui essa si determina in una forma di vita, quale che essa sia di fatto. È allora qui il punto cardine su cui Agamben intende volgere l’attenzione, tradizionalmente orientata al binomio Regno-governo, verso il paradigma del Giardino, come emblema di una felicità non altrove o in un tempo indefinitamente procrastinato e colonizzato dall’ordine di potere, quanto invece proprio come disattivazione di tale cattura della vita in una qualche forma, nella sospensione della forma che non ne annulli la realtà fattuale, rendendola piuttosto osservabile e incapace di definire la vita.
Regno e Giardino si corrispondono perché rimandano uno all’altro, ma non come il passato e il futuro si implicano a vicenda, bensì come un’abbreviazione del tempo in un’occasione presente, in cui il Regno si prepara a venire e, anzi, fa già parte della felicità per cui ci si prepara su questa terra.

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