Di BENEDETTO VECCHI.

La privacy è sempre stata considerata, nel pensiero politico liberale ma anche in quello socialista, come una inaggirabile prerogativa individuale che lo Stato si impegnava a far rispettare e tutelare ponendo tuttavia dei limiti all’esercizio di tale diritto. Le forze di polizia, di intelligence, i militari potevano, con discrezione, certo, e con vincoli posti dal potere giudiziario, violare tale diritto alla riservatezza se l’ipotesi di un pericolo per la sicurezza nazionale era un fatto da verificare. Quello che le costituzioni dei diversi paesi europei occidentali, degli Stati Uniti, dell’Australia e della Nuova Zelanda ponevano con chiarezza è che la sfera privata andava salvaguardata da sguardi e orecchie indiscreti, sia che fossero di civili o di militari.

La situazione è, cosa nota, cambiata con la Rete, che ha avuto come effetto collaterale un cambiamento del confine posto tra sfera pubblica e sfera privata. Leggere un libro piuttosto che un altro faceva parte del campo di possibilità scelta in base a preferenze, gusti letterari, attitudini politiche che erano prerogative dei singoli e che venivano collocati nella sfera privata. Con Internet, invece, le attività on line diventano azioni monitoriate, registrate, memorizzate. Sono azioni domestiche ma osservata da occhi estranei. La privacy diviene quindi un diritto che diviene un fattore relegato al rapporto privato tra i singoli e le imprese e piattaforme digitali. Le leggi nazionali sono quindi sospese. Quel che conta è il rapporto di fiducia verso quelle imprese e piattaforme digitali che sono delegate a sorvegliare che la riservatezza non venga violata da terzi, riservandosi tuttavia la sovranità e la proprietà dei dati raccolti. La privacy diviene quindi un fattore discrezionale, che ha uno statuto incerto, stabilito, di volta in volta, dalla sottoscrizione da parte dei singoli delle molteplici policies delle imprese. Certo, gli Stati nazionali hanno provato a articolare e innovare le legislazioni, in particolar modo quando i dati raccolti coinvolgevano dati sensibili sulla salute, sui comportamenti che potevano avere un corrispettivo economico nel caso di assicurazioni private o che potevano riguardare discriminazioni su base razziale, religiosa, lavorativa.
La logica prevalente è stata improntata su una logica che potremmo qualificare come di riduzione del danno. Le imprese potevano raccogliere dati, esercitando su di essi il vincolo della proprietà privata, ma con limiti temporali e spaziali. Con un linguaggio aulico, ma tuttavia pregnante i giuristi hanno parlato e tematizzato il “diritto all’oblio”, cioè la cancellazione dei dati personali a intervalli di tempo definiti dal legislatore, di “autodeterminazione” dell’utilizzo dei dati, dopo essere stati informati la definizione di profili individuali da parte di imprese o organizzazioni governative. Proposte quasi sempre respinte fino a quando il parlamento spagnolo prima e l’Unione Europea hanno approvato un insieme di norme sul diritto all’oblio nell’era della Rete (https://it.wikipedia.org/wiki/Diritto_all%27oblio), entrate nella fase di applicazione dopo che la Commissione e il parlamento di Bruxelles hanno approvato le nuove regole sulla privacy nel 2018.

Ma come spesso accade con il world wide web la legge interviene in una fase dove la consuetudine e le scelte produttive hanno colonizzato spazi finora relegati nella sfera individuale e domestica. L’attività on line è diventata cioè l’ambito dove raccogliere dati, elaborarli nella loro forma grezza e “impacchettarli” per venderli a chi pianifica strategie di marketing o chi fa della pubblicità l’ambito economico. In questo caso, la privacy è una merce come le altre riguardanti le informazioni raccolte sui siti visitati, le persone contattate, le comunicazioni informali avute nei social network. La privacy è cioè diventata materia da plasmare nel capitalismo delle piattaforme. Tutto ciò è particolarmente evidente nelle attività attinenti il complesso militare digitale che si è costituto nel corso del tempo e che vede la convergenza, all’interno di uno schema riassunto dall’espressione “cooperate e competere”, tra imprese private e istituzioni militari e di intelligence pubbliche. Significativo è a questo proposito il caso della svolta impressa dal presidente Donald Trump alle relazioni tra Washington e Silicon Valley in nome della sicurezza nazionale.

Per Trump, le imprese devono sottostare, adeguandosi, alle linee guida decise dalla Casa Bianca su alcuni settori “sensibili”. Finora il presidente statunitense ha alternato ultimatum nei confronti di Silicon Valley a parziali correzioni, ma è consapevole del potere che può esercitare su imprese globali come Apple, Facebook, Twitter, Google, Microsoft, Amazon. Ognuna delle top five, infatti, è variamente coinvolta nei progetti finanziati dal Pentagono sull’intelligenza artificiale o sull’ingegnerizzazione del software o nello sviluppo di sistemi d’arma incardinanti sulla loro gestione a distanza. Eclatante è stata la lettera aperta sottoscritta da migliaia   dipendenti di Google contro la partecipazione della società di Mountain View a Project Maven finanziato dal Pentagono per la gestione di un drone secondo le tecniche dell’intelligenza artificiale. Un gesto che ha portato Larry Page e Sergej Brin   a ritirarsi dal progetto (https://ilmanifesto.it/google-e-pentagono-il-no-dei-dipendenti/). Ma la società che è finita sotto i riflettori della critica per la sua inveterata e spregiudicata attività di violazione della privacy all’interno della logica di accumulazione capitalistica per espropriazione – di dati individuali – è sicuramente Facebook.  Ed è da molto tempo Mark Zuckerberg sta facendo di tutto per fronteggiare le critiche che stanno incrinando la credibilità del social network, in particolar modo nell’ultimo biennio, cioè da quando è esploso lo scandalo di Cambridge Analytica.

Le accuse contro il social network sono di violare sistematicamente la privacy degli utenti, tracciando le loro attività in rete, di appropriarsi dei loro dati personali, trasformandoli in sua proprietà, di condizionare la dinamica politica. In altri termini di essere un nemico della democrazia e un razziatore di dati, da impacchettare e vendere al migliore offerente. La profilazione, questo il termine usato per indicare l’attività elaborativa dei dati individuali, non è solo finalizzata a costruire identikit propedeutici per attività di marketing, ma anche per condizionare i comportamenti non solo nel presente, ma anche nel futuro. Software predittivi, machine learning, intelligenza artificiale sono le parole magiche di questo condizionamento preventivo dei comportamenti che si potranno avere in futuro. Dietro le accuse a Facebook si cela dunque il tema dell’evoluzione, sviluppo e crisi del capitalismo delle piattaforme.

Sono da anni che, ad esempio, il tema della privacy non è relegato solo nel campo dei diritti individuali, diventando infatti un tema scottante dal punto di vista politico. Giuristi, mediattivisti, parlamenti nazionali e sovranazionali sono stati investiti dalla richiesta di modificare in senso più restrittivo per le imprese di tracciare gli utenti, di definire policies che prevedono un uso limitato nel tempo e nello spazio dei dati personali, di regolamentare lo spostamento e il trasferimento dei Big Data memorizzati in una nazione in un’altra.

Nel contenzioso tra Europa e Stati Uniti durante la discussione sull’approvazione del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership, la proposta di trattato commerciale tra Europa e Usa) c’era anche l’articolo che prevedeva la possibilità da parte delle imprese statunitensi di spostare a loro piacimento i Big Data raccolti in Europa, possibilità che entrava in rotta di collisione con la legislazione europea sulla privacy e sul diritto all’oblio, cioè l’esercizio del diritto di veder cancellati cancellare i propri dati personali ogni cinque anni. La legislazione europea non è stata accolta da tutti gli stati nazionali, ma quello dovrebbe essere l’orizzonte legislativo verso il quale gli stati membri devono avanzare. Il fatto che gli Stati Uniti volessero così risolutamente riconosciuto il potere delle imprese di poter spostare come meglio credevano i Big Data segnala la rilevanza che il data mining e la produzione di profili individuali hanno nel capitalismo delle piattaforme. Facebook è una delle imprese globali che più di altre ha fatto resistenza passiva sulla privacy rispetto ad altre piattaforme digitali: indifferente alle critiche per molti anni ha semmai incentivato la trasformazione della privacy in un nascente sviluppo produttivo. La logica favorita è stata di incentivare l’adozione di costosi programmi informatici che mettono al riparo il singolo da attività di “profilazione”, ma anche di accentuare una sorta di costituzione di gated community rette secondo linee dovute al censo e al reddito. Su questo aspetto Mark Zuckerberg è stato sempre cauto, data la vocazione globale, deterritorializzata di Facebook, ma ha preferito ignorare le accusa sul suo operato, sollecitando semmai i singoli che ne hanno la possibilità di dotarsi di strumenti informatici, magari forniti dalla sua società, per difendersi da violazioni aggressive della riservatezza. Sta di fatto, tuttavia, che le accuse da sporadiche sono diventate frequenti trasformandosi piano piano in un torrente difficile da arginare.

Account sotto accusa

Una delle iniziative del social network per arginarlo è stata quella di delegare a organizzazioni indipendenti la possibilità di monitorare il flusso di informazioni per individuare le fonti di fake news e di account che diffondono punti di vista razzisti, xenofobi, antisemiti. Così è capitato che il nodo italiano di Facebook sia stato attentamente monitorato da Aavaz, una organizzazione non governativa che dall’iniziale intervento ambientalista ha allargato il suo orizzonte, interessandosi e denunciando la violazione dei diritti umani, civili e della libertà di  informazione (https://en.wikipedia.org/wiki/Avaaz).

Aavaz è stata fondata solo cinque anni fa a New York, ma con i suoi 52 milioni di iscritti a livello globale è ormai considerata una delle lobby “umanitarie” più influenti nel mondo. La sua sezione italiana conduce campagne contro l’inquinamento, cercando di svolgere anche in questo paese la funzione di intermediario e megafono di alcune istanze della cosiddetta società civile presso il sistema politico e le imprese globali. Bene, dopo un lavoro di analisi durato mesi, Aavaz ha stilato un report dove attesta il fatto che c’erano account riconducibili al movimento 5Stelle e alla Lega che diffondevano notizie false, denigratorie verso personaggi noti (Roberto Saviano, ad esempio), antisemite.  (https://secure.avaaz.org/campaign/it/correct_the_record_loc/?slideshow).

Nel report sono documentati come alcuni siti, nati inizialmente per diffondere informazioni futili e non vincolati alla discussione pubblica, una volta raggiunto un certo numero di sottoscrittori del gruppo e di likes cambiavano “attività” e cominciavano a diffondere notizie politiche e fake news tese a propagandare le posizioni del movimento cinque stelle e della Lega. E’ questa la prima anomalia che il report mette in evidenza. Il secondo dato denunciato dalla ONG è che questi gruppi hanno veicolato video e dichiarazioni fondate su notizie false, come la diffusione di un trailer di un film dove si ritraevano un gruppo di migranti che distruggevano una automobile dei carabinieri. Una scena di fiction commentata come un fatto realmente accaduto. Il report segnala anche i contenuti razzisti, xenofobi, antisemiti che si possono leggere nelle bacheche dei gruppi che hanno followers di gran lunga più numerosi di quelli degli account “istituzionali” dei pentastellati e dei leghisti.  Immediata la reazione di Facebook: gli account sono stati chiusi.

Molto è stato il clamore in Rete e sui media alla diffusione del rapporto di Aavaz. All’opposto c’è da registrare il desolante silenzio di esponenti dei due partiti governatici chiamati in causa. Altro dato sconfortante è il ridimensionamento del fenomeno da parte di alcuni opinion makers (http://www.ilgiornale.it/news/mondo/avaaz-long-legata-soros-che-segnala-facebook-pagine-fake-1693414.html), che hanno sostenuto la tesi secondo la quale Avvaz sia espressioni di gruppi radical e che accetta finanziamenti da esponenti del capitalismo finanziario come George Soros. Altri, invece sostengono che i followers di questi gruppi Facebook sono uomini e donne già simpatizzanti di Lega e 5 stelle. Come a dire che la produzione di fake news ha solo una funzione autoreferenziale e autoconsolatoria, alimentando riflessi identitari e punti di vista già noti.

Ma più che fare chiarezza, questa è una tesi sul “populismo digitale” che occulta la manipolazione e la colonizzazione dell’opinione pubblica attraverso siti e account progettati proprio per condizionare i flussi e la produzione di opinione pubblica, legittimando posizioni razziste, xenofobe e denigratorie verso chi manifesta punti di vista opposti rispetto a quelli dei due partiti in questione. In altri termini, il populismo digitale fa sì leva su una logica identitaria, ma quel che emerge in Rete è il fatto che tale logica ha un riflesso economico e produttivo al quale molte imprese, da Google ad Amazon, da Microsoft alla stessa Facebook, si adeguano o se ne fanno portavoce e protagoniste. Il tema del populismo digitale è certo un tema rilevante, sicuramente è il dato più importante emerso con il divenire della Rete un “media universale”, ma la sua critica risulterebbe indebolita se non è sviluppata la critica alla produzione di opinione pubblica non solo come fabbrica del consenso, ma anche come consolidato settore – i Big Data – del capitalismo contemporaneo.

Il cambiamento, ad esempio dell’algoritmo Edge Rank (http://edgerank.net/) di Facebook , oppure la possibilità dentro di Google Plus di costituire gruppi chiusi, sono elementi propedeutici a rendere “fedeli” i followers e gli aderenti a tali “comunità virtuali” facendo leva proprio sulla comunicazione tra simili che prevede precise e dettagliate regole di adesione ai gruppi, “istituzionalizzando” così i meccanismi di inclusione e esclusione differenziata. Questo dovrebbe garantire la prevenzione di irriducibili e estranianti diversità che avrebbero come effetto una riduzione e colli di bottiglia nel flusso di contenuti, elemento perturbante gli affari delle piattaforme digitali. E se il populismo digitale è la via maestra per affinare e rendere più efficaci i dispositivi da società del controllo che oramai regolano sempre più la comunicazione on line, è anche un fattore dinamico del climax adatto per lo sviluppo della Net-Economy.

La policy è privata

Con la chiusura di un così numero elevato di account la società di Mark Zuckerberg ha preso una decisione così radicale da costituire un punto di svolta nella policy del social network (https://www.facebook.com/policies). Lo aveva sì fatto negli Stati Uniti e in altri paesi europei, mentre è accaduto in questi ultimi anni a molti partecipanti al social network ricevere una mail da un invisibile gestore dove era comunicata la sospensione del proprio account per aver espresso posizioni e usato un linguaggio sanzionato dalla policy politicamente corretta di Facebook. Non sono stati pochi i casi in cui i motivi della sospensione fossero dovuti al turpiloquio usato in post o per aver usato termini un lessico politicamente scorretto. Dopo le proteste dei diretti interessati è arrivato un secondo post, questa volta di scuse con la specificazione che il congelamento dell’account era stato deciso da un software che attivava il blocco in automatico quando era reiterato l’uso di termini “sconvenienti”.

D’altronde il politically correct è da sempre il faro che orienta le discrezionali decisioni degli admin di Facebook. Poco importa quali siano i contenuti veicolati da un post, ciò che è rilevante è che il lessico sia quello usato nei salotti buoni della discussione pubblica: si possono fare allusioni sgradevoli oppure garbatamente elogiare prese di posizioni fieramente reazionarie, ma basta che i limiti di un astratto decoro non siano superati. Dunque nessuna censura programmatica, bensì il potere discrezionale di Facebook di decidere cosa sia lecito o illecito comunicare on line.

La chiusura dei 23 account in Italia è quindi la prima azione su larga scala del social network. Nel comunicato di Facebook è annunciato che ci sono gruppi di lavoro e altre organizzazione non governative che stanno controllando il flusso delle informazioni in vista delle elezioni europee. Medesimi gruppi di controllo sono stati organizzati, hanno fatto sempre sapere i portavoce di Menlo Park, in vista delle presidenziali statunitensi. Il social network cerca così di recuperare il consenso perduto e prevenire l’accusa di indifferenza o complicità nel manipolare l’opinione pubblica, come è accaduto nel referendum inglese sulla Brexit, quando Cambridge Analytica ha acquistato da Facebook milioni e milioni di dati personali per campagne personalizzate finalizzate a condizionare il referendum. Poco prima che Cambridge Analytica desse forfait – ha dichiarato bancarotta nel 2018 (https://en.wikipedia.org/wiki/Cambridge_Analytica) – si è appreso che la società  inizialmente inglese ha operato anche negli Stati Uniti, favorendo il fatto che le ombre sulla legittimità della elezione di Donald Trump si allungassero sinistramente sull’operato del miliardario, immobiliarista e presidente americano dopo che il sospetto che la Russia di Vladimir Putin fosse intervenuta per screditare Hillary Clinton con lo scopo di far eleggere un candidato “amico”.

D’altronde, il maggiore azionista e fondatore del social network aveva annunciato che l’impegno contro le fake news non sarebbe stato di facciata. Così come non era di facciata la scelta di unificare le regole sulla privacy di Facebook, Instagram e WhatsApp per meglio garantire il diritto alla riservatezza. Una “unificazione” che tuttavia suscita molti dubbi, segno di un accentramento e di una gestione unificata degli 2 miliardi e 200 milioni di account, un patrimonio immenso di materiale informativo grezzo che viene continuamente elaborato e impacchettato per diversificare e accrescere i Big Data del social network. I dubbi vengono anche dal fatto che le regole di WhatsApp sull’anonimato e del diritto all’oblio di Instagram sono molto più garantiste dei diritti individuali di quelle di Facebook.

Non è chiaro, infatti, se la nuova policy resa pubblica in dose omeopatiche sarà all’insegna dello spirito che è stato di WhatsApp e di Instagram prima dell’acquisto da parte della società di Menlo Park oppure quella storica di Facebook, ma è chiaro che il diritto alla riservatezza è, per Mark Zuckerberg, il diritto di usare come meglio crede i dati personali. Inoltre il social network vuol continuare ad avere le mani libere nel tracciare tutte le attività compiute in Rete dagli utenti.

Un punto di vista ribadito goffamente da Mark Zuckerberg di fronte al Congresso degli Stati Uniti, dove era stato chiamato nell’aprile del 2018 per chiarire il comportamento della sua società nell’affaire Cambridge Analytica e per rispondere alle critiche di violazione sistematica della privacy, dato che i suoi algoritmi, software e cookie raccolgono dati, questa l’accusa, anche quando l’utente non è collegato a Facebook. (https://www.youtube.com/watch?v=BnElbSz1-Zs).

Nei video diffusi a Rete unificata, un imbarazzato Zuckerberg non riusciva ad andare oltre un confuso balbettio, rispondendo spesso con monosillabi alle domande poste dai rappresentanti del popolo americano. Quel che però ha tenuto a sottolineare, e qui la goffaggine è svanita dal volto di Zuckerberg, che in futuro sarà maggiore l’attenzione al rispetto delle leggi americane sulla riservatezza, ma che non c’è norma o legge del Congresso che neghi la proprietà del social network sui dati prodotti dagli utenti nelle loro attività on line.

Un cookie per nemico

Il danno di immagine per Facebook è un dato che preoccupa molto i vertici di Menlo Park, ma quel che è certo che Facebook continua a depositare brevetti su come localizzare gli utenti connessi al social network, a elaborare cookie che seguono click dopo click l’utente, registrando siti visitati, pagine internet aperte e lette, parole chiave usate nelle ricerche. Inoltre, l’impegno economico per sviluppare macchine intelligenti e software di intelligenza artificiale è secondo solo a quello di Google. Settori dove è indispensabile avere i migliori dispositivi tecnologici e software dato lo stratosferico numero di pagine Internet e utenti della Rete, rendendo così efficiente e produttivo il data mining, cioè l’estrazione di profili individuali e Big Data da vendere ad altre imprese o per vendere a inserzionisti pubblicitari interessati a strategie di marketing individualizzato (https://it.wikipedia.org/wiki/Data_mining). D’altronde è questo il core business di Facebook. È quindi irrealistico immaginare che Zuckerberg abbandoni il campo che lo ha fatto diventare uno degli uomini più potenti del mondo. Ha avviato una frenetica campagna di pubbliche relazioni, ha cambiato strategie imprenditoriali solo al fine di consolidare la posizione di impresa leader nell’economia di Rete. Il politicamente corretto sul rispetto della privacy non abita a Menlo Park. Tutt’al più c’è da attendere lo sviluppo di software che rende meno trasparente, e segreto quindi, l’attività di Facebook.

Un attivismo che non ha tuttavia l’effetto sperato, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, a partire da quell’Europa che ha una legislazione sul diritto alla riservatezza meno “aziendalista” di quella oltre Atlantico. Le difficoltà continuano inoltre a manifestarsi indipendentemente dalle buone performance economiche, testimoniate dal fatto che il numero degli account di Facebook ha doppiato da molto tempo la boa dei due miliardi, che i profitti sono stabili e che le azioni non crollano in Borsa. Le difficoltà derivano proprio dalla rivendicazione della privacy come diritto dei singoli e che la salvaguardia delle attività comunicative, relazionali, affettive sono un bene comune e che è tempo di porre dei limiti a sfruttare l’attività umana in un materiale che le imprese estraggono per trasformarla. E se questo vale per il passato e il presente, la sfera privata dovrebbe essere messa al riparo per evitare condizionamenti sui comportamenti futuri. Da questo punto di vista, Facebook risulta essere la piattaforma digitale più esposta alla critica del capitalismo estrattivo. Il data mining è cioè l’ambito divenuto vulnerabile e esposto alla critica dei processi di produzione e realizzazione del valore nel capitalismo delle piattaforme.

Quel che inoltre emerge con forza è che ormai i j’accuse contro la società di Menlo Park non arrivano solo dai governi nazionali e delle associazioni dei diritti civili, ma anche da chi è stato pioniere e fa parte delle top five della Rete. La Apple, per bocca del suo eclettico e spregiudicato amministratore, Tim Cook, ha mandato a dire dalle pagine del magazine Time che la privacy è un bene comune che va salvaguardato e che il Congresso dovrebbe modificare la leggi sulla riservatezza in una prospettiva più garantista per i diritti dei singoli (https://www.privacy.it/2019/01/17/cook-apple-privacy-data-broker/). Per Cook, è sì compito delle imprese salvaguardarla, ma è prerogativa della politica definire le regole per difenderla.

Presa di distanza prevedibile da parte di chi ha il suo business non nei Big Data, bensì nella vendita di dispositivi digitali, dagli iPad agli iPhone, ai notebook. Questo non significa che la Apple disdegni di fare affari con i dati personali, ma sono un settore secondario, quasi marginale rispetto a quelli prioritari. Né ci sono segnali che i dati raccolti quando c’è connessione con gli App Store o con iTunes siano venduti ad altri.  Infine colpisce che l’ultima bordata contro Facebook sia arrivata da Chris Hughes, cofondatore assieme allo stesso Zuckerberg, Eduardo Saverin e Dustin Moskovitz del social network (https://ilmanifesto.it/facebook-sotto-assedio-lazienda-va-divisa-in-tre/).

In un lungo editoriale apparso sul New York Times, Hughes non ha usato mezzi termini per indicare in Facebook un pericolo per la democrazia a causa della sua inveterata propensione a costruire profili individuali che vengono poi venduti ai pubblicitari e per la posizione di monopolio che ha acquisito con l’acquisizione di WhatsApp e Instagram, fattore che impedisce il libero mercato e la concorrenza. Il rischio per la democrazia viene, inoltre, dal clima di segretezza che avvolge il software utilizzato nel tracciare i comportamenti in rete degli utenti, la conseguente violazione sistematica della privacy, il potere di condizionamento, reale o potenziale, delle elezioni politiche e della formazione dell’opinione pubblica, come testimonia la vendita di dati personali da parte di Facebook a Cambridge Analytica.

Quel che colpisce è che l’attacco a Facebook venga da uno dei cofondatori. Hughes ha certo lasciato il social network molti anni fa, quando la sua posizione dentro l’impresa fu considerata incompatibile con la decisione di collaborare con lo staff di Barack Obama in corsa per il primo mandato alla Casa Bianca. La sua uscita da Facebook fu miliardaria, va da sé. Con il capitale avuto con la vendita delle azioni ha aperto una società che doveva funzionare come piattaforma digitale per tutte le organizzazioni non governative statunitensi. L’impresa, la Jumo (https://en.wikipedia.org/wiki/Jumo) , fu un insuccesso, ma la sua vendita portò altre centinaia di milioni di dollari nei conti di Hughes, che prese e acquistò il magazine moderatamente progressista New Repubblic (gli americani direbbero liberal). Hughes aveva un piano per il rilancio della testata, che non ha funzionato. Quando la ristrutturazione fu tradotta in ridimensionamento e il licenziamento di alcuni giornalisti, gran parte della redazione si dimise per protesta. Al giovane miliardario laureato ad Harvard non rimase la strada della vendita della testata.

L’esodo dei millenials

Eppure Hughes, nonostante gli insuccessi imprenditoriali, è una figura ritenuta autorevole della network culture. Le sue posizioni sono si molto mainstream, ma le sue analisi e proposte sono considerate innovative e corrispondenti allo “spirito del tempo” dominante. Un imprenditore, cioè, che in nome della proprietà privata prende posizioni spesso liberal per quanto riguarda le dinamiche sociali e economiche dentro e fuori la Rete. Che abbia scelto il New York Time, giornale che in questi anni non è stato tenero con Mark Zucherberg, segnalano che per il social network il calo dei consensi ha raggiunto il livello di guardia. E’ una crisi ben più evidente di quella emersa con l’entrata in scena di Instagram, che attirò l’attenzione e il gradimento dei millenials e degli adolescenti che in massa emigrarono da Facebook al social network per la condivisione di immagini. A quella crisi, Zuckerberg reagì come da tradizione: visto che non poteva competere, acquistò Instagram. Le difficoltà di immagine attuali sono espressione del latente, ma mai sopito conflitto sulla proprietà dei dati individuali. Per Facebook, una volta connesso il singolo utente accetta di cedere la proprietà delle sue attività on line. Ovvia l’opposizione dei singoli e dei gruppi di mediattivisti che va dalla richiesta di una regolamentazione da parte degli stati nazionali o da organismi sovranazionali (l’Unione Europea, ad esempio). L’accusa, tuttavia, alla quale Facebook preferisce non ribattere, è che l’utente è tracciato anche quando non è connesso al social network, come testimoniano una serie di articoli pubblicati dal quotidiano statunitense Wall Street Journal (https://www.wsj.com/articles/facebook-shares-tumble-at-open-1532612135).

Nel suo scritto, Hughes punta inoltre l’indice contro la Federal Trade Commission statunitense, il Congresso e i governi di altri paesi che non hanno fatto nulla per evitare che imprese, gruppi di potere usino i Big Data per condizionare la discussione pubblica e la dialettica democratica, elezioni e referendum, come quello sulla Brexit nel Regno Unito. Infine, questo l’aspetto finora mai emerso così chiaramente, Chris Hughes ha invitato le autorità americane a porre fine all’attività oligopolistica di Facebook, il sito che con i due miliardi di account ai quali si aggiungono i dati raccolti da Instagram e Whatsapp, costituisce una mastodontica e potente portaerei nel raccogliere e fare business sui dati personali, seconda solo a Google (questa classifica non tiene ovviamente conto dei siti cinesi sui quali vige il segreto più assoluto, garantito dal governo centrale). Per questo, Hughes chiede la divisione in tre della società di Menlo Park: Facebook, Instagram e WhatsApp.

Quello di Hughes può essere letto come la tradizionale e spregiudicata presa di posizione antimonopolista che ha scandito con frequenza, più o meno variabile, la storia del capitalismo americano, imponendosi politicamente e socialmente quando i rapporti di potere vigenti sul mercato rappresentano un blocco allo sviluppo di un settore o perché costituiscono una barriera all’innovazione, meglio alla diffusione dell’innovazione di processo e di prodotto.

Se Facebook sarà divisa come chiede Hughes, il suo spezzettamento in tre differenti società non sarebbe dunque un evento, bensì la riproposizione di una forma politica specifica di produzione e governo del mercato che ha visto il congresso di Washington svolgere una attenta funzione “pastorale”.  Decisioni anti-monopoliste sono state infatti già prese dal Congresso Usa nel corso del Novecento per le ferrovie, la produzione di acciaio, le telecomunicazioni (Att) e l’high-tech (l’ultima vittima eccellente è stata Microsoft). Smembramenti imposti in nome del libero mercato e della convinzione che i monopoli siano un ostacolo all’innovazione tecnologica e penalizzanti per i consumatori per le attività di cartello che consentono di imporre prezzi alti. E’ indubbio che le scelte antitrust hanno impresso dinamicità nell’attività economica, ma la deregulation neoliberista ha visto licenziamenti di massa, riduzione dei diritti sociali di cittadinanza e una caduta verticale della qualità dei prodotti, alimentando la logica che solo un accesso censitario al mercato garantisce buoni prodotti. La convergenza tecnologia tra computer science e telecomunicazioni è stata sicuramente favorita dallo smantellamento del monopolio della Att, mentre lo sviluppo delle piattaforme digitali non sarebbe stato possibile se il Ministero della Giustizia non avesse imposto a Microsoft il divieto di vincolare al sistema operativo Windows una serie di software applicativi come Internet Explorer, i programmi per la gestione di video, file musicali e molti altri. Ma è innegabile che socialmente i costi della deregulation sono stati alti, tanto nel Nord che nel Sud del Pianeta.

La proposta di smobilitare il monopolio di Facebook nei social network fa quindi parte di quel nodo da sciogliere sul  futuro del capitalismo delle piattaforme o della sorveglianza, come scrive l’economista Shoshana Zuboff (https://shoshanazuboff.com/), autrice dell’importante saggio  The Age of Surveillance Capitalism (il libro sarà pubblicato in Italia dalla Luiss University Press nel prossimo autunno) e di un illuminante articolo sul Financial Times sulle tendenze in atto in Rete (https://www.ft.com/content/7fafec06-1ea2-11e9-b126-46fc3ad87c65, il testo è stato tradotto da Internazionale del 10-16 Maggio 2019). Per Zuboff la privacy e i software predittivi dei comportamenti sono i temi dirimenti dietro la vicenda di Facebook, sono cioè l’ostacolo la prima, il limite da forzare il secondo per consolidare e sviluppare il capitalismo della sorveglianza. C’è da sottolineare che finora il social network ha sempre incentrato le sue scelte strategica su una logica – “abbiate fiducia in me” – che incontra sempre meno consenso. Di questo Mark Zuckerberg è consapevole ed è corso ai ripari uscendo dagli annunci e imprimendo svolte nella politica imprenditoriale. Sulla decisione che riguarda l’Italia, si è già detto.

L’eden recintato

Il cambiamento più significativo è quello annunciato alla riunione – la F8, https://www.youtube.com/watch?v=LY6zxU1f92Y  – degli sviluppatori di software e di app per Facebook che si è svolta a San Jose agli inizi di maggio 2019. In quella occasione, Zuckerberg ha gettato definitivamente a mare il progetto di costruzione di una comunità globale mediata dal social network per una più prosaica sommatoria di comunità “private” fondate su affinità elettive, aperte solo a chi già la pensa in una certa maniera. Insomma tante agorà recintate, echo chambers nelle quali si può entrare solo se si esprimono gli stessi punti di vista di chi ha fondato il gruppo di discussione, che può rifiutare o cancellare la partecipazione dei membri del gruppo Facebook che esprimono posizioni divergenti da una aleatoria e discriminante policy fondativa. Così di policy se ne avrebbero molteplici: una, che funziona come una metapolicy di Facebook, e le altre espresse dai gruppi. La strada del web recintato e delimitato da muri tanti quante sono le comunità elettive è così tracciata.

Ciò che non viene proprio meno è quindi l’esercizio, dietro le quinte, del potere di condizionamento e di governo del flusso di dati e informazioni. La discrezionalità sull’operato dell’impresa, associata a un vero e proprio culto del segreto industriale è d’altronde una caratteristica costante di Facebook. Nessuno, infatti, ha saputo niente sull’algoritmo EdgeRank, usato fino a quando il numero degli account non ha superato una soglia critica. A quel punto è stato oggetto di continue revisioni, modifiche, aggiunte di funzioni nel news feed  riguardo la temporalità dei post inseriti, il loro peso – se hanno foto e video –, il numero di like (https://en.wikipedia.org/wiki/News_Feed). Di come funzioni ora l’algoritmo riveduto e corretto si può solo dedurre. Nulla infatti è noto sull’effettivo funzionamento.
Per molti computer scientist, l’algoritmo contiene inoltre modalità e procedure per definire il profilo individuale dell’utente, fattore fondamentale per la costituzione di Big Data appetibili per gli inserzionisti pubblicitari. Eguale segreto sul noto tasto like. Se è certo che il numero dei like fa variare la visibilità di un post sulla bacheca di un account, come già evidenziato, non sono pochi i giornalisti e gli esperti di riservatezza che indicano quel tasto (il pollicione verso che esprime consenso e empatia per il contenuto di un messaggio) come il cavallo di troia per tracciare i gusti, le preferenze, l’adesione elettiva a punti di vista e consumi dei singoli. Anche in questo caso, sarebbe una funzione, e il suo relativo software, ad arricchire di informazioni il profilo di un utente che Facebook vende ai pubblicitari. Come è emerso con il caso  del software Beacon nel 2009, l’impresa di Mark Zuckerberg ha sempre usato programmi informatici per tracciare e catturare le informazioni sulle azioni, i siti e i post letti dai singoli: alcune funzioni del software sono però state dimesse dopo che le  critiche sulla violazione della privacy hanno sommerso Menlo Park (https://en.wikipedia.org/wiki/Facebook_Beacon). Questo non significa che l’attività di “schedatura” si sia interrotta, bensì che è diventata meno invasiva e più mimetica. L’amore per la privacy nella società di Zuckerberg è infatti sempre declinato in funzione del motto business as usual.

Sono agli atti della cronaca gli investimenti multimilionari del social network per acquistare azioni e proprietà di società e start up produttrici di programmi informatici per la gestione di funzioni da integrare con quelle già sviluppate in proprio che dovevano consentire una maggiore capacità di tracciare le attività degli utenti. Tra il 2007 e il 2019, Facebook ha per questo acquistato Parakey, proprietaria di un brevetto per l’acquisizione e il trasferimento di immagini da smartphone. Due anni dopo, è stata la volta di  Friendfeed, società specializzata nella produzione di software per aggregare aggiornamenti (FriendFeed è anche la società che ha sviluppato Like), mentre la razzia di piccole imprese si è poi concentrata sul settore del cosiddetto mobile (Snaptu, WhatApp), per la definizioni dei target per la pubblicità (Push Pop Press, Real8tion), per la geolocalizzazione (Gowalla, Glancee, programma informatico che indica anche persone vicine che hanno un medesimo account su una piattaforma digitale), per la gestione di droni (Droni Ascenta) e il riconoscimento facciale (la israeliana Face.com).

Mark Zuckerberg non si è cioè distinto dagli altri boss della Rete. L’innovazione è ridotta a merce da acquistare. E poiché acquistare brevetti non è mai economico è quindi preferibile acquistare start up e imprese emergenti in un settore, integrando i loro prodotti nell’attività di Facebook. Quella a Menlo Park, al pari di tante altre imprese globali della Rete, è una oculata politica degli acquisti per coprire l’intero campo di attività del data mining, comprese i settori di frontiera e emergenti della intelligenza artificiale e del machine learning. Questo non significa che Facebook non faccia ricerca e sviluppo in proprio.

Tra il 2016 e il 2018 sono state infatti depositate tre proposte di brevetti per la geolocalizzazione: Offline Trajectories Location, Prediction Using Wireless Signals on Online Social Networks, Predicting Locations and Movements of Users Based on Historical Locations for Users of an Online System. Ai sospetti che tali brevetti costituiscano il grimaldello per tracciare anche gli spostamenti al di fuori della Rete, prevedendo anche le possibile vie percorse o le soste in questo o quel negozio, Facebook ha risposto con un laconico comunicato, sostenendo che la richiesta dei brevetti era preventiva, perché il social network non ha certo intenzione di schedare le passeggiate di uomini e donne, ma che erano da considerare come un atto preventivo nel caso  ci fossero altre imprese invece che tale operazioni di tracciabilità le vogliano rendere operative. Quel che è evidente è che Mark Zuckerberg ha sempre operato affinché Facebook diventasse una delle imprese più attrezzate nel settore dei Big data e per acquisire la conoscenza e le competenze necessarie per operare nei settori emergenti, ma in gran parte ancora inesplorati nella previsione di preferenze future nei consumi, nei libri che saranno acquistati, nelle persone che saranno frequentate, nei luoghi amati di una metropoli o di una cittadina che sanno visitati nel cosro della settimane, il mese, l’anno. I software predittivi sono infatti l’oggetto del desiderio di Mark Zuckerberg. Per acquisire un vantaggio su altre imprese vale dunque la pena investire in Ricerca e Sviluppo; o acquisire imprese che possono diventare la gallina dalle uova d’oro o rivelarsi un insuccesso clamoroso.

La Weltanschauung di Facebook è stata sempre di immaginare gli utenti del social network come una comunità globale, segnata si da differenze interne, ma comunque uno spazio senza confini e aperto. Prototipo forse della società aperta vagheggiata dal filosofo liberale Karl Popper o realtà nata dalla pedissequa e burocratica applicazione delle riflessioni di Jürgen Habermas su una società globale fondata sulla libera comunicazione. Sta di fatto che quella decisa recentemente a Menlo Park è una inversione di rotta abbastanza radicale. Solo fino ad alcuni anni fa Mark Zuckerberg rappresentava infatti il social network come l’infrastruttura e la piattaforma digitale pronta a mettere in contatto l’intera umanità. Una comunità globale fondata sulla tolleranza, la pacata e civile discussione, nonché punto di incontro dove le diversità potevano trovare il contesto adeguato per manifestarsi. Certo, chi si iscriveva al social network ne sottoscriveva le regole e assegnava al social network il ruolo di controllore, arbitro e gestore. Più prosaicamente Facebook diventava il proprietario dei dati personali e avrebbe gestito con discrezionalità il diritto alla privacy dei singoli. Una comunità globale senza confini nonché spazio da razziare per alimentare la fabbrica dei Big Data. Facebook si faceva dunque paladino di una attitudine liberal, fattore fondamentale per difendere e sviluppare la sua egemonia economica dentro la Rete.

Silicon Valley con la mimentica

Non furono pochi i commentatori americani che videro nella proposta di Zuckeberg le premesse di una sua candidatura indipendente nelle prossime elezioni presidenziali come alternativa a Donald Trump, il presidente che utilizza compulsivamente i social network – Twitter in particolare, anche se il suo staff non disdegna la moltiplicazione di gruppi Facebook a sostegno del presidente – anche se è stato considerato il nemico di Silicon Valley fino a quando non è giunto a un accordo di non  belligeranza e di accettazione da parte delle top five della Rete di alcune proposte presidenziali per far esercitare un controllo e un monitoraggio dell’intelligente statunitensi di Internet.  Zuckerberg ha sempre smentito con sdegno i rumors sulla possibile candidatura presidenziale, ma a due anni di distanza di quel progetto per un eden habermasiano della libera comunicazione rimane ben poco. Meglio dunque lo spezzatino di tante comunità private che la pensano alla stessa maniera e che hanno un meccanismo di autoregolamentazione dal quale è bandito ogni forma di regolamentazione pubblica e statale.

Così, se il populismo digitale è legittimato come appartenenza identitaria a una comunità elettiva seppur recintata e controllata a vista da un amministratore, il sovranismo digitale articola un rinnovato rapporto tra il Politico e l’Economico. Il potere politico diventa cioè l’espressione di un capitale collettivo, che opera in relativa autonomia per fissare le regole dentro la Rete, il rapporto tra finanza, produzione e consumo di contenuti. L’importante è che il ciclo raccolta, elaborazione, vendita di dati personali e di microspazi pubblicitari non si interrompa. Significativo è il silenzio di Facebook, Amazon, Google, Apple e Microsoft alla militarizzazione dell’economia di rete che il presidente Donald Trump sta perseguendo in nome della sicurezza nazionale. Una militarizzazione necessaria per la guerra commerciale contro la Cina, alla quale hanno finora aderito Google, Intel, Qualcomm e Broadcom, che hanno fatto proprie la decisione di Trump di interrompere ogni rapporto con il colosso delle telecomunicazioni Huawei.

L’inquilino della Casa Bianca ha certo di fronte a sé il fosco orizzonte di un possibile declino dell’impero americano per quanto riguarda il settore dell’high-tech sotto l’incalzare del protagonismo economico e politico della Cina, ma è evidente che Donald Trump invoca lo stato di sicurezza nazionale imprimendo una svolta nelle relazioni tra Silicon Valley e il governo di Washington, che non vuol essere, come è invece accaduto negli ultimi lustri, l’esecutore amministrativo di decisioni prese altrove. Il Congresso, e la presidenza, rivendica cioè un ruolo di garante dei processi di accumulazione capitalista fondata sull’espropriazione dei dati sull’attività umana – la logica estrattiva del capitalismo by dispossession evidenziata nelle analisi di David Harvey, Sandro Mezzadra e Brett Nielsen. A questa logica devono piegarsi le imprese globali, compreso un social network come Facebook. Certo Mark Zuckerberg vorrebbe che Facebook continuasse a essere una delle top five della Rete. Il suo ex-compagno di Università Chris Hughes e tanti altri vorrebbero invece smembrata la società di Menlo Park in nome dell’innovazione e del libero mercato. Senza però mettere in discussione il capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza.

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