di BENEDETTO VECCHI.

Alcune volte per capire la logica combinatoria di un libro frammentario occorre partire dalla fine, cioè dagli ultimi scritti che lo compongono. Già, perché Mark Fisher aveva uno stile enunciativo frammentario e sincopato, al pari della musica – dall’ambient alla techno, al Britpop, all’elettronica, ma questo è un campo infido perché sconosciuto per chi scrive – che amava e che costituisce la colonna sonora della sua produzione teorica. E i testi dai quali bisogna prendere le mosse per comprendere la tensione filosofica, politica che anima questo Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (minimum fax, pp. 315, € 18, traduzione di Vincenzo Perna) riguardano la presentazione di un video girato da un collettivo di videomaker all blacks durante alcuni tumulti, nel lontano 1986. Presentazione avvenuta quando a Londra e in altre città inglese bruciavano ancora le carcasse delle automobili e i negozi dati alle fiamme durante i riots del 2011.

Mark Fisher si domanda quali siano gli elementi di continuità e discontinuità che intervengono tra le due rivolte separate da più di trent’anni di distanza. Sottolinea come le dichiarazioni degli esponenti politici siano simili e in un accorto cut and paste emerge il fatto che le parole usate nel 1986 sono più o meno le stesse di quelle che i parlamentari tory (ma anche qualche laburista) recitano come un rosario esorcizzante le rivolte nel 2011. Lo stesso riguarda l’atteggiamento dei media, che giudicano, in entrambi i casi, inizialmente i rivoltosi come feccia, quasi animali per le distruzioni di automobili e negozi. Con una mossa a suo modo geniale Fisher trova la via d’uscita da questo déjà vu mediatico e argomentativo nelle parole di Paul Gilroy, studioso postcoloniale, anch’egli una delle voci più interessanti della new left inglese.

La Generazione di trent’anni prima che si era scagliata contro l’Inghilterra di Margaret Thatcher è stata cooptata da corporation e establishment culturale come un piccolo esercito di consulenti complici di una radicale e liberistica privatizzazione del discorso pubblico. Sono diventati complici dell’ordine sociale e politico che contestavano in gioventù. Le rivolte del 2011 non vedono, infatti, nessuna discesa in campo dell’intellettualità diffusa inglese. Esplodono e non lasciano traccia se non carcasse di automobili incendiate. Questa la vera differenza, afferma Paul Gilroy. Per Mark Fisher è la conferma non solo dell’egemonia del «realismo capitalista», il testo pubblicato da Nero Edizioni in Italia e che ha fatto conoscere a suo tempo questo intellettuale radical fuori dall’Inghilterra [⇒ qui], ma anche di un passato che incombe sul presente, negando ogni possibilità di futuro.
Spettri della mia vita è un collage sui fantasmi del passato e la nostalgia – gli anni Sessanta, Settanta sovversivi e culturalmente creativi, insieme al rimpianto per la sicurezza sociale garantita dal welfare state è rimpianta; ma è anche un volume su come tale nostalgia possa costituire un blocco nella riflessione teorica nonché politica sul presente.

Gli anni Sessanta, Settanta e il welfare rappresentano un’epoca di esperienze scandite da razzismo istituzionale, grigie forme di vita e un uso dei diritti sociali di cittadinanza per scongiurare la rivoluzione. Meglio di niente, però, ricordando che prima dell’edonismo liberista quel mondo era stato scalzato via da quella rivoluzione mondiale che era stato il Sessantotto.
Come nel precedente The Weird and the Eerie [⇒ qui] Fisher lavora sull’ambivalenza di alcuni sentimenti collettivi. Lì era il perturbante, qui la nostalgia per un passato mitizzato, «inventato» e presentato come una sorta di età dell’oro, rimuovendo così le sue asperità e la violenza esercita dal potere costituito. L’autore lo scrive chiaramente: la nostalgia è un sentimento reazionario. Lo fa chiamando a raccolta alcuni autori molto amati, Friederic Jameson e Jacques Derrida, in particolar modo le analisi sulla modalità nostalgica del marxista e critico del postmoderno statunitense e il mimetismo del filosofo francese emergente nella tematica dell’hauntology, qui miscela di ontologia e constatazione dell’irreversibile tempo spezzato della postmodernità, dove il «non più» e il «non ancora» vengono entrambi sacrificati sull’altare di un eterno presente.

Già, il tempo. Fisher lo considera categoria colonizzata dal potere. Nella successione passato-presente-futuro quello che viene negato è il futuro, proiettando così all’infinito, citando un saggio di Franco Berardi Bifo, il presente neoliberista. Dunque occorre riprendersi il futuro, la possibilità di immaginare una rottura dell’ordine costituito. Non viviamo però in un interregno à la Gramsci, dove il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere. Ciò che viene esperito è la ripetizione del sempre uguale e delle oasi di sosta, zone temporaneamente autonome dove i nostalgici evocano un passato tuttavia mai esistito.

Il passato e il futuro sono dunque gli spettri del pensiero critico inglese. Il marxismo, così come il comunismo sono stati certo sconfitti, ma i loro spettri continuano ad aggirarsi nelle vite, alludendo sempre a un nuovo assalto al cielo che non costruisca, a differenza di quanto accaduto nel Novecento, prigioni a cielo aperto, come sono state molte delle società del socialismo reale. Prospettiva assente in questo libro.
Attorno a tali nodi si dipanano e si sono aggrovigliati gli ultimi anni della vita di Fisher. Lucidamente amare sono le pagine dedicata alla nostalgia, dimensione sì reazionaria, ma anche sentimento che può essere dirottato in una direzione ostinatamente contraria al governo neoliberista della vita. C’è, infatti, dentro la nostalgia e nel rimpianto del passato un ambivalente rifiuto di darsi per vinti. Ciò che dovrebbe ossessionarci non è il «non più» della socialdemocrazia, ma il «non ancora» del futuro che ci aspetta. Qui si dà dunque politica, qui si dà conflitto. Chissà cosa ne avrebbe pensato Mark Fisher di questo approdo teorico.
C’è anche un’altra chiave di lettura possibile del libro. Quella che lo vede composto come fosse una cronaca della scena culturale, cinematografica, televisiva e musicale inglese. Vi è anche questo, è indubbio. Fisher ricostruisce la produzione musicale, l’intreccio tra underground e industria discografica, dove i primi sono stati sempre la leva senza la quale non ci sarebbe stata né innovazione culturale né sociale. Così come sono godibili le pagine dedicate alla serie inglese del Doctor Who o le serie tratte da noir decisamente politici come quelli della serie Red Riding Quartet di David Peace.

Belle sono le pagine sui film di fantascienza ingenui dal punto di vista degli effetti speciali – e comunque sottilmente caustici e critici verso la cultura imperiale del vecchio e giustamente scomparso impero del Regno Unito – della serie del dottor Quatermass; o quelli ben più recenti e a budget e casting internazionale di Christopher Nolan Memento e Inception, pellicole che hanno ognuna a suo modo indagato gli effetti stranianti e socialmente darwiniani del tempo spezzato nel neoliberismo.
Mark Fisher ha un altro merito che va ricordato. Non ha mai sottaciuto alcuni elementi ricorrenti nella contemporanea vita associata, spesso ignorati nel pensiero critico. La depressione, l’assunzione di psicofarmaci come se fossero coca-cola per tenere a bada il male di vivere. Il suo è stato un implicito invito a riflettere sul fatto che la politica – compresa quella radicale e sovversiva – non fornisca risposte esaustive al male di vivere divenuto fattore costitutivo, dopo lo scippo del futuro, di una società dove la precarietà non è solo lavorativa ma anche esistenziale. La precarietà è allora un dispositivo psicopolitico che inibisce ogni desiderio di cambiare la propria vita. Un tema che merita essere ripreso e articolato per scongiurare che il comunismo e la rivoluzione siano ridotti a misera teologia politica metafisica. Fisher ha documentato, scritto, con lucidità e rigore la depressione. Lo ha fatto fino alla sua fine, quando ha deciso di suicidarsi. La sua morte è stata una perdita indubitabilmente per tutti coloro che pensano, lavorano, agiscono, scrivono per dare forma e sostanza a quel necessario e rinnovato assalto al cielo, senza il quale c’è solo l’eterno ritorno del sempre eguale.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 20 giugno 2019

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