Di MICHAEL HARDTIMAN GANJI

Nelle ultime settimane, le tensioni crescenti tra Stati Uniti e Iran hanno minacciato di portare un nuovo conflitto in Medio Oriente. La copertura dei media occidentali sulla presunta minaccia della Repubblica Islamica iraniana ha ricordato a molti giornalisti americani il periodo che ha preceduto la guerra in Iraq del 2003, ma con una differenza. Mentre gli ultimi anni ’90 erano segnati dal movimento su larga scala di alterglobalizzazione, che è servito come precursore di quelle che alcuni scienziati politici considerano le più grandi manifestazioni della storia[1], le proteste di oggi contro l’amministrazione guerrafondai di Trump sono state decisamente assenti.
Ma, e in contrasto con le precedenti escalations, gli Stati Uniti possono agire oggi come forza imperialista sulla scena mondiale? Per Michael Hardt, l’ordine globale funziona ancora secondo il modello proposto negli scritti di cui è autore insieme ad Antonio Negri: l’Impero come un ordine globale con molteplici poli di potere, dove gli Stati nazionali sono ancora importanti, ma non sono più i centri chiave della decisionalità, dove le multinazionali e le istituzioni internazionali esercitano la propria autorità. Impero, quindi, suggerisce che il modello imperialista sia ormai defunto e che il capitale sia diventato globalmente integrato a tutti gli effetti, al punto che non esiste più nessun Fuori.

Iman Ganji: Venezuela e Iran sono entrambi sotto sanzione, in crisi e sotto la minaccia di un’escalation militare. Sono nuovi terreni di gioco per la politica di cambiamento di regime degli Stati Uniti – dove annunci pubblicitari e campagne di propaganda creano un “popolo” a sostegno di un colpo di stato militare?

Michael Hardt: Le attuali provocazioni dell’esercito americano contro l’Iran sono molto pericolose. Trovo molto difficile interpretare fino a che punto il governo Trump affronterà queste minacce. Sembra darsi un’alleanza tattica tra Trump e alcune figure neoconservatrici resuscitate del passato, come John Bolton.

Una possibilità è che Trump lasci che Bolton e altri minaccino l’Iran il più possibile e che poi lo stesso Trump si ritiri prima che si sparino i colpi (o missili). Uno dei metodi principali di Trump, sia sul livello internazionale sia su quello interno agli Stati Uniti, è di lasciare indovinare ai propri avversari se farà effettivamente le cose estreme che minaccia. Non c’è alcuna garanzia, ovviamente, anche se questa fosse la sua intenzione, che Trump sarà in grado di controllare la situazione. In un contesto così instabile, può scoppiare la guerra anche quando nessuno vuole che accada. La mia paura più grande in questo momento è che Trump sta creando una situazione nella quale degli “incidenti” possono scatenare una guerra.

La situazione del Venezuela è diversa. Quello che unisce i due scenari, come diceva, è che gli Stati Uniti sembrano aver messo in scena un vecchio copione. Anche qui Trump ha resuscitato personaggi guerrafondai del passato, come Elliott Abrams. Ma il pericolo qui non è la guerra internazionale come in Medio Oriente. Il pericolo principale in Venezuela, temo, è la guerra civile prolungata, che sembra essere incoraggiata da ogni provocazione degli Stati Uniti. È molto diverso, ma sarebbe un risultato altrettanto tragico.

IG: Entrambi i governi, anche se in particolare l’Iran, si basano sulla corruzione e sulla repressione del loro popolo. Pensa che sia corretto dire che negli Stati Uniti le persone esitino a sostenere una campagna contro la guerra a causa della lunga storia di repressione e corruzione da parte dei governi, come quello iraniano? O si può credere a ragione che ci sarà un altro movimento contro la guerra per le strade nei prossimi anni? E infine, perché non sentiamo prese di posizioni forti contro la guerra da parte della sinistra?

MH: Non credo che le critiche all’attuale governo iraniano dovrebbero inibire le campagne contro la guerra. Dopo tutto, nel 2003 chi ha protestato in Nord America o in Europa contro la guerra non lo ha fatto a sostegno del governo di Saddam Hussein. No, dobbiamo protestare contro queste guerre anche quando ci opponiamo ai governi di tutte le parti in causa.

Ha ragione a suggerire che ci dovrebbero essere più proteste contro la guerra nelle strade degli Stati Uniti ora. Il mio sospetto è che la sinistra sia ancora in qualche modo confusa dalle azioni attuali di Trump. È spesso arrogante in maniera incoerente e poi non fa nulla. Le sue minacce (e quelle di Bolton e di Pompeo) sono solo delle pose? O passerà all’azione?

IG: Possiamo dire che, alla luce del cambiamento di rapporti tra le potenze mondiali, della rinascita e del rinvigorimento dell’ultra-nazionalismo, e dell’approfondimento della xenofobia già esistente, stiamo assistendo a una trasformazione sostanziale delle dinamiche dell’Impero?  Stiamo entrando in una nuova era dell’imperialismo, dove abbiamo bisogno di riattualizzare e riconcettualizzare la concezione classica dell’imperialismo?

MH: A mio avviso non stiamo assistendo a un ritorno alle concezioni classiche dell’imperialismo. Le sconfitte dell’esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan, insieme alla crisi economica del 2008 che ha avuto origine negli Stati Uniti, dimostrano che gli Stati Uniti oggi non sono in grado di dettare relazioni di potere globale unilateralmente. Non sono in grado di creare una presenza egemonica stabile per i propri profitti, come deve fare una vera potenza imperialista. Gli Stati Uniti restano sicuramente molto potenti, soprattutto in termini militari. Ma in realtà possono agire con successo solo nel contesto di una struttura di potere globale, cioè all’interno dell’Impero.

Le varie manifestazioni nazionaliste e gli appelli alla sovranità nazionale – America first!, Prima l’Italia!, Brexit! – sono per me urla lamentose di coloro che temono di perdere le loro posizioni di privilegio nel sistema globale. Come i contadini conservatori francesi che Marx ha descritto come guidati a metà del XIX secolo dai ricordi della gloria napoleonica perduta (e desiderosi di rendere nuovamente grande la Francia), i nazionalisti reazionari di oggi puntano non tanto alla separazione dall’ordine globale in quanto tale, ma piuttosto a risalire i gradini della gerarchia globale per riconquistare la loro posizione.

IG: Negli ultimi anni, diversi movimenti rivoluzionari hanno fallito a causa dell’intervento di Stati-nazione stranieri. Nella misura in cui le lotte attuali in tutto il Sud del mondo sono continuamente confrontate con eserciti potenti, che a volte sono costituiti da forze sia straniere che nazionali, crede ancora nel potere delle moltitudini rivoluzionarie?

MH: È vero che c’è una grande asimmetria della forza. Non solo gli eserciti stranieri, ma anche le forze di polizia interna di vario tipo esercitano una forza mortale. Gli accampamenti nelle piazze di Tahrir e Taksim sono stati affrontati con forza estrema, come lo sono ora anche i Gilets jaunes in Francia. Questa asimmetria non è una novità. E non possiamo pensare di vincere con delle armi più potenti. Dovremo vincere politicamente, con mezzi diversi – è qui che risiede il nostro vero potere.

(Traduzione di Clara Mogno)

Questo articolo è stato pubblicato su Verso il 18 giugno.
La versione in inglese è disponibile qui

[1] Lo scienziato politico francese Dominique Reynié ha stimato che, tra il 3 gennaio e il 12 aprile 2003, circa 36 milioni di persone hanno partecipato a quasi 3.000 proteste in tutto il mondo contro la guerra in Iraq”. (Alex Callinicous, Socialist Worker, 19 marzo 2005, numero 1943).

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