Di TONI NEGRI

1. Che cosa concludere dopo le ultime elezioni europee, considerate dal punto di vista istituzionale, ovvero della cosiddetta scienza politica? Che con le elezioni del 2019 la centralità politica (istituzionale) dell’Unione si è imposta ed è divenuta operativa ed irreversibile (se non esclusiva) dinnanzi alle scene nazionali.

Già per la Banca europea si erano affermati simili dispositivi di centralità, e cioè di consistenza di un nuovo ordine sovrano, che determina univocamente i flussi di potere. Ora, ciò è dato anche per il governo dell’Unione. Con le elezioni del 2019 si è consolidato un meccanismo di formazione del ceto politico europeo, egemone rispetto ai ceti nazionali. Un centro sovrano di segno assai liberale, che comincia a farsi dominus del processo evolutivo e della stabilizzazione dell’Unione europea.

Ne consegue un flusso di omogeneizzazione e di organizzazione delle forze politiche verso l’alto, dal piano nazionale al piano europeo, verso nuove figure di “destra”, di “centro”, e di “sinistra” – e si apre probabilmente un nuovo dualismo di checks and balances, di equilibri politici, non più quello tradizionale tra Partito popolare/Socialdemocrazia, ma uno nuovo fra Conservatori (liberali)/Democratici (verdi). Attenzione però anche ai nomi cangianti delle forze politiche, in mutazione quant’esse sono in transizione, e si troveranno liberali o verdi tanto a destra quanto a sinistra.

Caratteristica di queste forze è la tensione verso un centro autoritario che ha già programmato un relativo superamento della democrazia rappresentativa (proporzionale) classica. Su questo punto vale la pena di soffermarsi ed aver presente, ad esempio, le politiche istituzionali di Macron, sia nell’uso singolare che fa della Costituzione gaullista all’interno del paese ma soprattutto nel suo posizionamento nei confronti delle istituzioni europee. Anche l’enfasi sull’urgenza ecologica (eccezione) può giocare qui in termini di accelerazione di questo processo.

Ritorniamo con il pensiero alla formazione dei grandi Stati nazione, Germania e Italia, nella seconda metà del XIX secolo. Dopo una fase di stretta di centralizzazione, condotta dai governi monarchici di Germania e Italia (i governi Bismarck, in Germania con le campagne anti-cattoliche e anti-socialiste, i governi Ricasoli, Minghetti, ecc. in Italia e le guerre ai briganti, ecc.), si passa ad una fase di “trasformismo parlamentare” (propriamente chiamata in questi termini) dove le classi dirigenti locali, rappresentative di interessi antecedenti l’unificazione, si configurano diversamente e comunque in forme nuove a Berlino e a Roma, dentro scenari talora imprevedibili. Tutto questo durerà fino alla nascita dei partiti socialisti che rompono la dinamica monarchica imposta all’unificazione ed impongono, anche sul livello istituzionale, le regole della lotta di classe.

Tornando al dopoelezioni del 2019, sottolineiamo dunque che il quadro politico ed il processo istituzionale in Europa, che talora sembrano assai confusi, in realtà procedono alla stabilizzazione di una forma-Stato federale sovrana europea. Questa stabilizzazione, questa europeizzazione della forma-Stato ci sembrano aver assunto un’autonomia in qualche modo eccezionale (quando per “eccezionale” si intenda – in maniera cauta e residuale – definitiva nella decisione ed efficace nella realizzazione).

2. Come si muove il ceto politico capitalista dominante dentro questa accelerazione del processo di centralizzazione?

Innanzitutto lo accetta, ed incrementa questa dialettica istituzionale, avendo coscienza che ogni ritardo permetterebbe sfaceli populisti e retrocessioni incontrollabili. Il ceto politico europeo (chiamiamo così l’insieme del personale politico dirigente le istituzioni dell’Unione) ha appreso, nello scontro con i populismi e nella trattativa Brexit in quest’ultimo decennio, che quella minaccia avrebbe potuto farsi letale per l’Unione se questa non afferma definitivamente la propria irreversibilità.

In secondo luogo, la situazione geopolitica, divenuta drammatica per i disastri prodotti dall’Amministrazione Trump (ma già messa in movimento frenetico dagli sviluppi globali della politica cinese), impone al governo dell’Unione un passaggio decisivo nel costruire unità per le politiche europee e nel predisporre ulteriori strumenti per svilupparle e sostenerle.

Spesso si sottovaluta la consistenza ed efficacia del governo dell’Unione. I media dei singoli paesi, ad esempio, giocano ancora con l’illusoria sindrome di una “indipendenza” (sovranità) nazionale incorrotta, o solo diminuita nelle questioni budgetarie. In realtà, nel combinato disposto di Francoforte e Bruxelles, della Banca e della Commissione, è già stata interiorizzata una capacità sovrana, non ancora pienamente dimostrata (se non nella decisiva  tenuta dinnanzi alla crisi del 2008 e nel Brexit) ma che può – qualora sia necessario – mostrare intera la sua potenza performativa.

E questo non riguarda solo le dimensioni budgetarie e fiscali, ma anche la fondamentale questione dei diritti – con le articolazioni tipiche dello Stato federale, laddove al governo federale (ed alla Corte di giustizia) sono affidate la coerenza e la continuità nel riordino dei diritti espressi dalla società (il famoso “stile di vita”).

Ciò detto, occorre chiedersi come si dispongano le forze politiche europee in questa fase di (probabile) irreversibile centralizzazione, che si dà, lo abbiamo ricordato, in una situazione estremamente complessa – eppure, già lo abbiamo sottolineato, su presupposti istituzionali maturi.

Vanno a mio parere distinti tre scenari. Il primo è quello dei paesi del Nord-Europa, con al centro la Germania. In questi paesi il processo di integrazione dell’intero schieramento conservatore nel Partito popolare e quello corrispettivo di ricomposizione a sinistra delle forze cosiddette “democratiche” – socialiste ed ecologiste –, pur essendosi messo in movimento, attraversa una fase contraddittoria e conflittuale. Fondamentali tuttavia sono, a destra come a sinistra, la decisione politica e la tensione normativa alla “messa fuori gioco” delle forze politiche estreme, a destra e a sinistra, attraverso la loro eliminazione dalla dialettica parlamentare, in altri casi attraverso operazioni di neutralizzazione/assorbimento. In questa direzione, l’iniziativa dei Conservatori costituisce un’indicazione generale, non solo nello spazio germanico (e dell’Europa del nord) ma anche nel resto dell’Europa. Come vedremo, tuttavia, questo progetto costituisce problema.

Il secondo scenario è quello rappresentato dal gruppo dei paesi di Visegrad (e connessi). Qui lo schieramento conservatore è decisamente vincente, ha assorbito l’estrema destra, ed ha consolidato istituzionalmente la sua vittoria. Mantiene tuttavia rapporti di subordinazione alle prescrizioni europee ed al comando germanico, salvo derogarne nelle politiche migratorie e nella questione del confine orientale. A conti fatti, a noi sembra tuttavia che anche su questi ultimi campi di azione sovrana, i paesi di Visegrad siano attualmente vigorosamente richiamati all’ordine e probabilmente, come minimo, piegati al compromesso.

Il terzo, il più interessante, scenario è quello rappresentato dai paesi latini del Sud-Europa. Qui si sta costruendo quello che dovrà raffigurarsi come il polo democratico dell’Unione – ed è qui che l’egemonia del blocco conservatore del Nord-Europa diviene problematico. Su questo scenario il ruolo rappresentato da Macron è del tutto centrale. Macron si colloca infatti sul lato liberale del sistema parlamentare europeo ma prevalente è l’ambiguità della sua posizione che lo prepara – a mio parere – a disporsi e a recuperare quelle posizioni di centro-sinistra da cui proviene. Sulle rovine di ogni sopravvivenza socialdemocratica, Macron si presenta come un Tony Blair autoritario (“terragno” piuttosto che “marittimo”, nel modello schmittiano), padrone di una macchina politica efficiente nell’affrontare in maniera globale e trasformista la complessità dei problemi dell’Unione. Esso supplisce, in maniera temporanea, alla scomparsa delle forze di sinistra ed è sostenuto – nel corso di questo processo per certi versi costituente – dal blocco germanico – insomma, apparentemente identificato come apice appunto di un centro-sinistra capace di equilibrio ed alternativa al conservatorismo. All’iniziativa di Macron sono direttamente collegati i progetti di Sanchez in Spagna e probabilmente i sussulti di Renzi in Italia, nella direzione di una rottura, costi quel che costi, con le residue forze di sinistra e di costruzione di forti alleanze liberal. Un riformismo debole e un’autorità forte, una governance neoliberale rigida e attenta, chiusa ai bisogni della classe lavoratrice quanto aperta ad una redistribuzione del reddito a favore del ceto imprenditoriale. Questa leadership dovrebbe costituire, rendendo coerenti i governi dei paesi latini (Francia, Spagna, Italia, Portogallo, Grecia), un polo di sinistra “democratico”, capace di comprendere nella propria egemonia (e/o di neutralizzare) i “verdi” e di costituire un peso equivalente di equilibrio con il polo germanico conservatore (rappresentato nel PPE).

3. Quali sono le lotte, le resistenze, i movimenti che si oppongono a livello europeo a questo disegno politico? Qui il discorso si fa davvero difficile.

Dopo il 2011, si sono avuti infatti in Europa forti episodi, se non stagioni, di movimento: movimenti di donne, movimenti sociali, movimenti di appoggio ai migranti, movimenti di protesta e di proposta ecologici, ecc.

Da qualsiasi punto li si guardi, queste resistenze e questi movimenti sono riconoscibili nel fatto che essi si pongono su due terreni strettamente connessi: un terreno di riappropriazione del comune (reddito, condizioni di vita, valori ecologici, ecc.) ed un terreno di riappropriazione di potere politico. La connessione di queste due forme di resistenza, quando divenisse forte, è sempre sembrata ai comunisti decisiva. Non altrettanto era avvenuto ai movimenti che quasi sempre avevano evitato di incontrarsi su un programma comune, stretti da consuetudini o in ideologie contrapposte. In quest’ultimo decennio ci sembra invece sia cresciuta in maniera massificata la consapevolezza che non si dà possibilità di redistribuzione di reddito né di “riconquista della terra” (dinnanzi alla gigantesca operazione di estrazione di valore che il neoliberalismo opera sul terreno globale) senza la creazione ed il possesso di strumenti politici adeguati e di un’“altra” idea di democrazia.

Le rivendicazioni diventano sempre più politiche. La vecchia distinzione lotte sindacali/lotte politiche è saltata per aria. Ogni lotta salariale o per un reddito o per uno spazio ecologicamente sano si confronta a questioni di bilancio, laddove il bilancio è precostituito politicamente a livello europeo. Le lotte ecologiche si scontrano con difficoltà enormi per il potere di comprenderne l’intensità e i tempi. Non esiste inoltre più luogo di intermediazione ed ogni situazione di lotta è sospinta a riconoscersi in lotta con il potere.

Perché questa consapevolezza non si è trasferita dal piano interno a quello europeo? Perché ancora oggi alcuni importanti settori del vecchio e nuovo proletariato sono estranei alla questione europea e ritengono l’Unione un nemico? Se possiamo comprendere (certo non condividere) le presunzioni “imperialiste” di taluni settori dell’opinione pubblica francese od olandese sullo sviluppo della forma-Stato europea, non comprendiamo invece come in Italia possano darsi comportamenti similari, caricaturati da ideologie “sovraniste”. Di contro, tutto ci dice (e soprattutto la nuova configurazione delle lotte) che l’Unione è lo spazio necessario della lotta politica sovversiva oggi. Mai come oggi il criterio del dentro l’Europa/contro il neoliberalismo (che da sempre definisce il modo di conduzione delle lotte nel marxismo operaista) trova la sua base nello sviluppo attuale di resistenze e lotte: ogni azione di insubordinazione, ogni resistenza economica, ogni richiesta di rompere i livelli di precarizzazione, ogni domanda di reddito familiare, ogni pretesa di istruzione, ogni lotta ecologica, ecc. ecc., tutto questo si svolge su un terreno direttamente politico, in uno scontro che pone al suo centro gli equilibri della forma-Stato in senso proprio. Tanto quanto la formazione delle élites si dà sul livello europeo, altrettanto è sul livello europeo che l’esito delle lotte va registrato.

4. Se, a partire da queste premesse, ritorniamo alle alternative del quadro europeo, tracciate dianzi, e cerchiamo di tratteggiare un nostro “che fare?”, avvertiamo un primo paradosso. Per i militanti comunisti del Sud-Europa appare infatti come importante il compito di sostenere le politiche che coadiuvano l’unità delle loro forze nel Sud-Europa e si pongono contro gli equilibri determinati dalla preponderanza e prepotenza dei paesi nordeuropei. In questo spirito sostenemmo l’avventura di Tsipras. Paradossalmente, ne risulterebbe, in questa prospettiva, l’opportunità per le forze comuniste di appoggiare il trasformismo politico di Macron e la costituzione di un fronte democratico per l’affermazione di un polo di sinistra (democratico ed ecologico) in Europa. Evidentemente questo paradosso va presto rigettato, quando si consideri che ogni vittoria di Macron e dei suoi affiliati sul terreno europeo, non potrà che determinare il contenimento delle lotte e il loro risucchio in una governance distruttiva, del tutto analoga a quella che le forze conservatrici espressamente propongono. Evitando i paradossi, le lotte contro Macron possono determinare un vero fronte di contropotere, molto più utile a presentare prospettive di unificazione dal basso dei movimenti del Sud-Europa. La lotta di classe è difficile da ingabbiare fra paradossi.

Ma cosa intendiamo per lotta di classe? Si legge spesso, e si ode, che non c’è più lotta di classe. Le ideologie neoliberali e le scienze giuridiche dello Stato (il costituzionalismo, la teoria dell’amministrazione pubblica, ecc.), semmai abbiano concesso qualche spazio alla lotta di classe, nell’ultimo cinquantennio l’hanno fatta definitivamente scomparire. È un fatto d’altra parte che non ci siano più le classi che hanno caratterizzato la storia dello Stato moderno: talora si danno sopravvivenze, politicamente organizzate ed efficaci, ma è ben vero che l’antica struttura delle classi non esiste più. Tuttavia c’è ancora il capitale e ci sono ancora i poveri, gli esclusi ed i lavoratori, e sono enormemente cresciuti coloro che soffrono dei mali della Terra – e queste categorie si mescolano più facilmente che un tempo; così come ci sono i capitalisti ed i ceti amministrativi e politici, le élites per dirla in breve, che sovente governano e si esprimono all’unisono.

Il panorama è dunque confuso, ma non è oscuro. L’affermazione che la “lotta di classe” non assomiglia più (quando si diano lotte sociali, femministe ed ecologiche caratterizzate) alla vecchia lotta di classe, nella quale l’espressione della “classe operaia” era senz’altro egemone, sembra evidente.

Ciò concesso, ci si deve comunque chiedere che cosa siano le lotte nelle quali interessi contrapposti (e rivendicazioni di salario, di Terra, di comune e/o di diritti) si oppongono alla gestione capitalista della produzione sul terreno sociale e/o politico. E la risposta è banale: sono lotte nelle quali agiscono (e si oppongono al capitalismo imperante ed alla sua élite politica) forze differenti da quelle delle antiche classi ma ridefinibili e ridefinite nei termini molteplici e cooperanti di una “nuova classe”. Mutatis mutandis, permane dunque la “lotta di classe”.

Forse ha reso più difficile il riconoscimento del rinascere della “lotta di classe”, il fatto che il vecchio criterio di classificazione delle lotte è ora completamente saltato. Un tempo, le lotte di classe erano scrupolosamente distinte e differenziate in cataloghi che separavano il sindacale dal politico, le lotte salariali dalle lotte rivendicative di diritti, le lotte ecologiche e quelle femministe, ecc., e che determinavano contrapposte categorie politiche e giuridiche di lecito ed illecito, di contrattabile e di non ammissibile, ecc. ecc. I cicli di lotta odierni non conoscono queste classificazioni. Essi si sono affermati come cicli di lotte che propongono obiettivi senz’altro politici. Obiettivi politici antagonisti a quelli del capitale, meglio, a quello che il capitale impone come norma (di regolazione) di controllo e a quello che qualifica come sviluppo. E le lotte ecologiche si pongono senz’altro anch’esse su questo terreno.

5. Si può ricordare che quanto sta avvenendo solleva interessanti analogie con quanto avvenuto nel momento del configurarsi iniziale dello Stato moderno. Vogliamo dire che i cicli di lotta (di classe) che abbiamo vissuto e sperimentato dalla fine del XX secolo portano le esperienze protagoniste di classe al cuore della politica, laddove cioè si dibatte tra le classi sociali sui modi di appropriazione della “ricchezza sociale”, sugli spazi e i tempi (l’ecologia) del suo godimento, e sull’organizzazione (rappresentanza e gerarchie) della decisione politica. Riprendendo esempi classici della medievale Magna Charta e della moderna nascita del“parlamentarismo” britannico, sottolineiamo in entrambi i casi l’emergere della “struttura binaria” della lotta di classe: aristocrazia e borghesia nel primo caso e nell’altro, in differenti forme, si contendono il controllo delle politiche rappresentative e nel parlamento il potere di decidere sulla “ricchezza della nazione” e sulle gerarchie sociali che ne permettono la riproduzione. Oggi, i movimenti si sono complessivamente mossi, nei cicli di lotta che conosciamo, percependo questa urgenza politica: il riappropriarsi del politico è la loro bandiera – ed è per questa riappropriazione che oggi è determinante mettere in discussione le forme della rappresentanza, oltre quelle di produzione e ripartizione della ricchezza.

I gilets jaunes sono le forze sociali, apparse in Francia, che meglio di ogni altro ha interpretato questo passaggio. La feroce repressione che hanno subito mostra che il cuore del potere è stato effettivamente toccato. A mio avviso dobbiamo portare ovunque in Europa il modello di azione dei gilets jaunes ed aprire, ovunque in Europa, la discussione sul loro progetto politico.

6. Nell’ultima riunione di Euronomade (Bologna, aprile) Michael Hardt ha presentato un papier dal titolo C-M-C’. Dietro questa formula si proponeva una nuova lettura del concetto di classe oggi, un rinnovamento dunque dei concetti che descrivono la lotta di classe. La formula C-M-C’ ci dice alcune cose. La prima è che la vecchia classe operaia (C) è stata dissolta dallo sviluppo dalla lotta di classe nel secolo XX e conclusa con una vittoria del capitale – vittoria consolidata attraverso una rivoluzione tecnologica che ha portato il lavoro e la valorizzazione della forza-lavoro fuori dalla fabbrica, facendola divenire moltitudine (M). Moltitudine è dunque il superamento della vecchia classe operaia dovuto ad una sconfitta riportata nella lotta di classe, sviluppatasi nel lungo secondo dopoguerra che ci ha condotto fino all’inizio degli anni ’80.

Ma considerare la moltitudine semplicemente come prodotto caotico e sconfitto nella fase di lotta di classe che ha portato alla dissoluzione della vecchia classe operaia, è cosa del tutto insufficiente. La moltitudine così costruitasi ha infatti prodotto dal suo interno altissime capacità di cooperazione e l’individualismo verso il quale era spinta ha prodotto inattese e formidabili potenze di singolarizzazione. Cooperazione e singolarità hanno quindi formato quel contesto moltitudinario a partire dal quale, nella lotta, nella resistenza, viene costituendosi C’, la nuova classe operaia.

Essa non può essere immaginata nei termini nei quali abbiamo descritto l’“operaio massa” e neppure nei termini nei quali abbiamo descritto l’“operaio sociale”. Quest’ultimo ha rappresentato semplicemente un’apertura al lungo processo che costituisce, consolida e propone la potenza della nuova classe operaia.

Che è, innanzitutto, intersezione delle nuove stratificazioni del lavoro vivo all’interno dei processi globali di estrazione di plus-valore. In maniera singolare, si ricompongono così, nella classe, i movimenti delle donne, i movimenti di lotta antirazziale, i movimenti di lavoratori migranti, i movimenti ecologici, ecc. ecc. Tanto quanto le politiche capitaliste spingono verso la divisione sistematica di queste potenze, tanto più esse trovano in maniera latente o espressa momenti di ricomposizione.

Muoversi dentro il rapporto nel quale la composizione sociale e la composizione politica di questi processi di intersezione si svolge e trasformarlo in azione politica, diventa fondamentale in questa fase. Tenendo presente dunque, nella intersezione, l’articolazione di cooperazione e di singolarizzazione.

7. Abbiamo insistito sulle difficoltà e ritrovato problemi irrisolti che l’accelerazione dei processi costitutivi dell’Unione europea in forma-Stato federale produce. Dobbiamo prendere coscienza che essi possono essere anche utili a sollevare lotte e a preparare un’alternativa comunista.

Prendiamo un esempio francese. È dinnanzi all’approfondimento delle contraddizioni in materia ecologica che il governo di Macron impone per decreto una tassa-carbone. Siamo nel novembre 2018. Inaspettatamente ed improvvisamente si organizza la resistenza e si rifiuta questa gabella. Migliaia e migliaia di persone, in seguito ad una sollecitazione in rete, occupano i ronds-points (le rotonde di circolazione) in tutta la Francia. Il fenomeno è imprevisto e colossale. Il governo lo denuncia come fenomeno populista, quasi fascista.

Ma subito si comprende, in primo luogo, che i gilets jaunes apparsi in questa circostanza non sono dei “forconi” qualunquisti, perché spiegano il loro rifiuto aprendo un discorso egalitario contro l’ingiustizia della fiscalità (Macron aveva tolto la tassazione sulle “grandi fortune”) e sull’iniquità dei processi decisionali.

In secondo luogo, insistono sull’urgenza di più democrazia decisionale (meglio, di un recupero di potere da parte della moltitudine) in uno “spazio pubblico” che le politiche neoliberali hanno smantellato fino a lasciarlo vuoto.

In quest’azione non c’è dunque misconoscimento, fra i gilets jaunes, della questione ecologica – c’è piuttosto una richiesta di giustizia e di recupero della democrazia che si manifesta nelle Assemblee dei ronds-points e negli Atti nomadici del sabato.

E neppure c’è ignoranza o sottovalutazione degli altri movimenti che oltre quello ecologico si muovono sulla scena francese, bensì azioni di ricomposizione e di unificazione nei loro confronti: lavorare per la convergenza dei movimenti è la parola d’ordine sviluppata dai gilets jaunes. Ad esempio, il Primo Maggio 2019 si attua la convergenza con i sindacati nelle piazze di Parigi e di tutta la Francia e il 21 settembre 2019 si realizza una prima confluenza nelle manifestazioni ecologiche. In questa convergenza si pone il tema della riappropriazione della politica da parte dei movimenti, espresso nei termini: costruiamo democrazia diretta.

Penso che bisogna prendere questo esempio non come modello ma come incitamento ed impegno a collegare, meglio, a far convergere i movimenti in Europa e soprattutto nell’Europa del Sud. In Francia, in Spagna, in Italia, esistono condizioni simili sulle quali intervenire ed operare – si tratta di far convergere gli sforzi su questo obiettivo, sempre dando respiro europeo alle lotte.

Fare organizzazione nel movimento, nell’intersezione dei movimenti, nella costruzione di un progetto nello spazio politico europeo.

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