Al termine del percorso aperto dalla Bellezza manierista e barocca c’è la definizione di Kant del sentimento del Bello come libero gioco delle facoltà, che anticipa il rimbaudiano ragionevole sregolamento di tutti i sensi.

Ma soprattutto, c’è l’esperienza del sublime, che cessa di essere confinata nell’impotenza e nella limitatezza per farsi costitutiva dell’umano, in quella finitezza costituente che i grandi filosofi francesi del secondo Novecento si rimandano l’un l’altro:

Riconoscendo come umana quella realtà affatto inumana nella quale siamo immersi, noi possiamo filtrare con l’immaginazione, l’indeterminazione assoluta dell’esistente. Il sublime ha questo di specifico: esso ci impone un’esperienza teorica dell’assoluto negativo, aprendoci all’esperienza pratica del superamento nell’immaginazione [Antonio Negri, Arte e multitudo, Derive e approdi 2014, p. 29].

Il sublime ci insegna che anche quando l’essere ci si presenta come muro invalicabile, come ferrea necessità, come catastrofe – ogni volta che l’essere sembra sovrastarci, la potenza immaginativa dell’umano manifesta la capacità di ricondurre a sé ciò che pretende la supremazia dell’inumano. Mark Fisher ha esplorato in questo senso i territori dello strano, dell’inquietante, del perturbante come deposito di possibilità sempre aperto all’evento, contro l’ideologia del There Is No Alternative del realismo capitalista: in un senso diverso dalla sua “Hauntologia di Shining” [in Mark Fisher, Spettri della mia vita, minimum fax 2019], a me sembra che Danny Torrance, il bambino che sfugge al padre omicida in Shining, sia l’emblema di questa potenzialità. In definitiva, se ciò che rende finito l’umano lo costituisce in quanto umano, in questo processo di soggettivazione costituente l’arte partecipa mostrando che ci sono sempre più relazioni, forme di vita, strati dell’essere di quanto non ne percepiscano i sensi e non ne normi la ragione:

È come se dei percorsi virtuali si affiancassero al percorso reale, che acquisisce così nuovi tracciati, delle nuove traiettorie. Una mappa di virtualità, delineata dall’arte si sovrappone alla mappa reale e trasforma i suoi percorsi [Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina 1996, p. 92].

La Bellezza, insomma, è manifestazione di quell’eccedenza dell’essere, di quella dismisura in cui consiste la potenza stessa dell’umano:

Il mondo dell’artificio è il nostro ambiente, fatto di potenze, eventi, sostanze e qualità. I tragitti che pratichiamo in questo mondo si confondono con la nostra stessa costituzione soggettiva e la carta che costruiamo per orientarci esprime l’identità del percorso e del movimento singolare [Negri, op. cit., p. 135].

Marcel Duchamp, Roue de bicyclette, 1913

Nondimeno, ai nostri tragitti si oppongono operatori di chiusura e apertura, filtri, barriere, frontiere che connettono e disconnettono: processi di assoggettamento, che plasmano il soggetto secondo le enunciazioni discorsive delle reti di potere. Il rischio, per l’arte, è di morirne in quanto libera concatenazione di enunciazione. Tutta l’arte del Novecento combatte un corpo a corpo con la mercificazione: quando l’intera società è realmente sussunta sotto il capitale, la Bellezza coincide col valore, il posto del vago e dell’indeterminato è colmato dalla funzione pratica, il valore del Bello si fa valore di scambio. A questa mercificazione, l’arte reagisce con la Bellezza dell’oggetto qualunque: i Ready made di Duchamp ribaltano l’asservimento dell’oggetto alla funzione, mostrando che ogni oggetto può essere defunzionalizzato come oggetto d’uso e rifunzionalizzato come oggetto d’arte. La Pop Art prende atto della perdita del monopolio dell’immagina da parte dell’artista, per meglio dire della fine dell’eccezionalità della figura dell’artista: nella fine della distinzione fra artista e uomo comune si rivela come l’artista stesso sia non un genio isolato, ma un nodo di una rete di enunciati, valori, immagini prodotte nel comune, al quale dà espressione. È il senso comune del pubblico che legittima come oggetto d’arte un’immagine qualunque, come una banana, una scatola di conserve, o l’immagine di una diva: quello stesso pubblico che trova nella musica dei Velvet Underground, il cui disco è illustrato dalla banana in copertina, come espressione comune e condivisa delle proprie inquietudini.

Questo corpo a corpo si prolunga fino ai giorni nostri. Ne indico due manifestazioni.

La prima è l’ossessione per il corpo conforme a canoni di Bellezza. Non è casuale che gli anni del doping di massa siano anche gli anni

Del successo editoriale dei manuali che insegnano a prendersi cura del corpo e a sopravvivere allo stress. La vita è diventata il centro degli interessi del potere. Il corpo – controllato, monitorato, palestrato, in salute e immortale per legge, rispondente ai dettami dell’estetica dominante – diventa parte integrante dei meccanismi produttivi. Esattamente come, dall’altro lato, la conoscenza, i sentimenti, l’esperienza accumulata dalla vita extra lavorativa diventano sempre più chiaramente capaci di produrre valore aggiunto [Cristina Morini, Per amore o per forza, ombre corte 2010, p. 77].

Il lato oscuro di questo modello è la creazione di un corpo precarizzato, cioè reso precario nelle condizioni di lavoro e di esistenza, e autopercepito come precario perché in posizione incerta rispetto alle gerarchie di una vita, in relazione instabile rispetto ai modelli emergenti – primo fra tutti, “l’imperativo della magrezza”:

Una tirannia instaurata praticamente grazie a una serie di tecniche di trasformazione del corpo, organizzate secondo una logica di mercato e promosse, anche qui, dalla cultura del consumo: dieta, esercizio fisico, prodotti cosmetici e farmaceutici, liposuzioni. Viene bandita ogni eccessiva “morbidezza” che fuoriesca dai “contorni”, il corpo-macchina deve liberarsene se vuole avere possibilità sociali e personali. Ignoti e potenzialmente infiniti spazi di mercato si aprono per consentire ai corpi-macchina di mantenere tali promesse [ibidem, p. 85].

La seconda è l’ideologia del decoro, che in nome di una rappresentazione del Bello come lindo, decoroso, fruibile, turistico fa della Bellezza, scrive Giovanni Semi, «una nuova frontiera della disuguaglianza, ponendo individui e territori davanti all’imperativo della performance estetica come garanzia di potenziale arricchimento» [Inventare il passato, estrarre bellezza. Per una critica all’estetica dell’urbano, qui]. Nella città gentrificata il connubio bellezza-decoro ridefinisce il diritto alla città secondo una gerarchia – come mostra Wolf Bukowski nel suo La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro [Alegre 2019, pp. 154-55] – che vede al gradino più basso i non-consumatori non-cittadini, ossia i migranti poveri; terzi, seguono i non-consumatori cittadini, i poveri da colpevolizzare (se dormono in strada, se chiedono l’elemosina, è colpa loro) e confinare nelle periferie; secondi, i consumatori cittadini, che «devono comportarsi bene, dimostrare di sapersi guadagnare il welfare residuo, o meglio ancora un’occupazione che garantisca loro il welfare aziendale»; primi, in cima alla gerarchia, il turista, il consumatore non-cittadino, «quintessenza del soggetto sgravato da legami e bisogni sociali, privo di necessità che non possano essere soddisfatte dal denaro che egli stesso porta in dote».

A fronte di questa pretesa di assoggettare la Bellezza al canone e all’utile, l’eccedenza dell’essere resiste. Pensiamo alle bottiglie di Morandi: nei suoi solo apparentemente seriali gruppi di bottiglie Morandi oltrepassa continuamente, con un pathos sconosciuto al cinismo della pop art, il limite della serialità, mostrando come il segreto della Bellezza stia nel suo scaturire in modo inatteso dalla patina di grigio che copre l’oggetto qualunque.

C’è una profonda eticità nella Bellezza inattesa dell’oggetto qualunque, che ci riconduce al santo di Assisi.

Il suo discepolo san Bonaventura narrava che lui, “considerando che tutte le cose hanno un’origine comune, si sentiva ricolmo di pietà ancora maggiore e chiamava le creature, per quanto piccole, con il nome di fratello o sorella”. Questa convinzione non può essere disprezzata come un romanticismo irrazionale, perché influisce sulle scelte che determinano il nostro comportamento. Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati. Viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti a tutto ciò che esiste, la sobrietà e la cura scaturiranno in maniera spontanea. La povertà e l’austerità di san Francesco non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio». [Enciclica Laudato si’, 11].

Papa Bergoglio esorta a credere che «alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita Bellezza di Dio e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine»: la Bellezza si manifesta qui come un Oltre luminoso che ci esorta a superare la nostra condizione nella speranza di una vita eterna che «sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati» [ibidem, 243].

Ma la speranza che i poveri potranno essere liberati nella vita eterna non nega la possibilità che questa liberazione possa avvenire anche in questa vita.

Dove trovare quell’Oltre luminoso in questa vita terrena? David Foster Wallace l’ha trovato nella Bellezza cinetica che si esprime nel gesto sportivo, davanti al quale «ti cade la mascella, strabuzzi gli occhi ed emetti suoni che fanno accorrere la tua consorte dalla stanza accanto» [D.F.W., Roger Federer come esperienza religiosa, Casagrande 2010]: un’esperienza che fa riconciliare l’essere umano col fatto di avere un corpo. Il nostro corpo è ciò che costituisce il nostro limite: si ammala, invecchia, è afflitto da dolori, nausee, goffaggine, gravità, cattivi odori. È il nostro corpo che muore. Però,

Più o meno come certe rare ed elevate epifanie sensoriali, i grandi atleti sembrano catalizzare la nostra consapevolezza di quanto glorioso sia toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la materia, Certo, le cose che i grandi atleti fanno con il proprio corpo il resto di noi può solo sognarsele. Ma i sogni sono importanti – compensano diverse cose.

Vi avevo parlato, in apertura, di George Best, uno di quegli atleti che ti fanno sentire nel profondo la verità delle parole di Shakespeare: «Che opera d’arte è l’uomo, com’è nobile nella sua ragione, infinito nelle sue capacità, nella forma e nel muoversi esatto e ammirevole, come somiglia a un angelo nell’agire, a un Dio nell’intendere» [Amleto, II]. E forse non è per caso che l’immagine più bella di Best, nel momento più alto della sua carriera, sia questa:

George Best, Wembley, 29 maggio 1968

La foto lo riprende di spalle, ci mostra quello che Best vede un attimo dopo aver segnato il suo goal più importante [qui, 1:16:41]. Per un uomo considerato bello quanto uno dei Beatles, è quasi ironico che il suo volto non ci sia: non è il corpo di Best, ma un corpo qualunque, espressione di quel comune che rende l’umano una meravigliosa opera d’arte quello che qui ammiriamo. Ciò che il fotografo ha immortalato, è la possibilità di un sogno: che quel corpo sia il nostro, che siamo noi stessi a godere di quella Bellezza. La Bellezza di un sogno possibile ci dice che anche la Bellezza di un mondo che risplende libero da ogni servaggio, nel quale ogni povero troverà riscatto, così come di certo quella notte molti poveri hanno trasceso la propria miseria con una pinta di birra davanti al televisore nel pub – questa Bellezza, e questo mondo, sono possibili.

Questo testo è la parte finale della proluzione al corso di formazione Cives “Bello da Dio. Difendere e diffondere la bellezza”, Piacenza, 11 ottobre 2019

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