Di ARIANNA BOVE

Nelle disquisizioni post-elettorali si parla tanto del red wall, il muro rosso: una sorta di confine, oltre il quale i londinesi metropolitani e i sudisti abbienti han paura di avventurarsi. Un pò come il Mezzogiorno al contrario. Il muro rosso rappresentava il caposaldo del partito laburista, composto da regioni che storicamente lo votano, segno di un’identitá tramandata da genitori a figli, dove le campagne elettorali non c’é neanche bisogno di farle. Ma a dicembre i conservatori hanno infranto questo muro. Come hanno fatto? É la domanda del giorno.

Nell’era postfordista della produzione just-in-time, fermare la catena di montaggio equivale al peggior sabotaggio. La Gran Bretagna era il nono più grande manifatturiere nel mondo.



C’é chi la definisce un “foreign-owned production site”, officina di proprietá di stranieri, e il settore contribuisce circa il 15% del suo PIL. Le fabbriche che assemblano Jaguar, Land Rover, Nissan e Mini esportano, e l’area dell’UE rappresenta piú della metá del suo mercato. Ma il settore non esisterebbe senza importazioni: le parti che si assemblano provengono dall’estero. Se alla linea di assemblaggio servono venti milioni di parti al giorno, just in time o no, la fabbrica deve prendere impegni con fornitori, ordinarle.

E con la rierezione dei confini e lo spettro delle tariffe in agguato, non é semplice. Chiunque sia coinvolto nel mercato internazionale, grande o piccolo che sia, non ha idea di che tariffe verranno applicate sugli scambi delle merci. Nell’incertezza non si rinnovano contratti, non si fanno ordini, non si prendono impegni.

In un clima paralizzante, solo nello scorso anno, la Jaguar Land Rover, la BMW e la Toyota hanno fisicamente bloccato la catena di montaggio, una settimana alla volta piú di una volta. Nel frattempo, a Castle Bromwich, storica fabbrica di Spitfire e Lancaster Bombers dove ora si fanno le Jaguar, l’85% dei lavoratori ha votato a favore di una riduzione della settimana di lavoro.

Tutte misure queste per arginare i danni presenti; perché quelli futuri sono giá avvenuti. 

Il gruppo PSA (Peugeot e Citroen) continua a ritardare l’apertura di una fabbrica promessa a Ellesmere Port nel timore che il governo non trovi un accordo con l’UE: 1.100 posti di lavoro nel buio. L’Honda ha giá chiuso i battenti a Swindon: 7.000 posti di lavoro andati. La Nissan ha indietreggiato sulla produzione di Infiniti e della nuova X-Trail a Sunderland.

La confindustria Britannica informa che le aspettative di investimento nel settore manifatturiero l’anno prossimo sono negative, letteralmente: costruzioni -44%, macchinari e fabbriche -34%, e training, -28%.

Durante la campagna del referendum tre anni fa, il fautore della Brexit, Nigel Farage, ripeteva che se gli inglesi avessero smesso di comprare le loro Volkswagen, l’economia dei tedeschi sarebbe crollata. Questo a sostegno della sua promessa che con l’uscita non si sarebbe corso alcun pericolo di un accordo di mercato sfavorevole alla Gran Bretagna o di ripercussioni negative sull’economia nazionale. Un’invenzione astuta, un’immagine persuasiva: basta osservare le strade del paese, le marche tedescHe sono la scelta di acquisto predominante. E questo conta: va riconosciuto che le invenzioni pre-referendarie e pre-elettorali sono sempre molto ben radicate in situazioni che godono di un’alta visibilità nel quotidiano. Ma altrettanto poco sono radicate nella realtà dei fatti e della loro maledetta complessità. Del settore manifatturiero e degli effetti catastrofici dell’uscita del paese dal mercato continentale non ne parlava nessuno prima del 2016 e sono ancora in pochi a parlarne. 

Il Regno Unito é stato declassato dalle agenzie di credito per la terza volta in un decennio: causa l’erosione della stabilità istituzionale post-referendaria. La rata di crescita scende, e il contrasto con la situazione nel resto dell’Europa dopo il referendum del 2016 non potrebbe essere più evidente. Si prevede che nel futuro prossimo il PIL scenderà del 6% in presenza di un accordo con l’UE, e dell’8-9% in sua assenza.

I fautori della Brexit insistevano che uscendo dall’UE si sarebbe goduto di una situazione pre-definita: le tariffe dell’OMC (WTO) si sarebbero innescate automaticamente su tutti gli scambi successivi all’uscita dall’unione, e non era necessario far nulla. Non si sarebbe rimasti ostaggi di negoziazioni con i 27 membri dell’UE. In realtá poco si parlava del fatto che non esiste una situazione pre-definita, e la Gran Bretagna dovrá concordare con i paesi membri del WTO una nuova lista di tariffe e quote, uno alla volta.

Gli effetti sono calcolabili. La Gran Bretagna é ancora nell’unione, ma dal referendum ad oggi il valore della sterlina é sceso del 12-15% rispetto all’euro e del 5% rispetto al dollaro. Ad ogni annuncio che l’uscita senza accordo é possibile, la sterlina cade.

Office of National Statistics

Inevitabilmente questo collasso ha aiutato a controbilanciare le difficoltá favorendo le esportazioni. Ma l’effetto sulle importazioni si sente, e non solo sulla grande industria. In realtá questo ha un enorme peso sulla piccola imprenditoria e l’artigianato, per non parlare dei servizi. A cui si aggiunge un’accellerazione del collasso dell’industria dell’acciaio lo scorso maggio, con la messa al rischio di 31.000 posti di lavoro.

É questo il muro rosso.

L’industria just-in-time automobilistica impiega circa 800.000 persone, con fabbriche di assemblaggio a Halewood (Merseyside), Castle Bromwich e Solihull (Midlands). La maggior parte dei posti di lavoro persi nell’industria dell’acciaio sono in Yorkshire e Humber. Queste sono regioni che hanno spezzato con la tradizione. Lontane dal Parlamento a Westminster, poco contano nell’immaginario politico. É qui che il partito laburista ha perso voti, dopo averli dati per scontato.

Chi ha perso le elezioni accusa chi le ha vinte di aver usato uno slogan troppo diretto e semplice. “Get Brexit Done”. Come il “just do it” della Nike, non si sa come, non si sa cosa. Tre parole. Un ordine. Purché si fermi la paralisi. Costi quel che costi. Ma poco é cambiato nello stallo Brexit, e l’unica paralisi che si fermerà sarà quella del partito laburista, che per tre anni si é rifiutato di esprimersi sull’argomento. “Ambiguità costruttiva” la chiamavano i suoi attivisti con un certo orgoglio ambidestro. Un’ambiguità che più che costruire qualcosa, ha distrutto il muro rosso. Facciamo la Brexit é un’esasperata chiamata al parlamento, a che lasci carta bianca al potere esecutivo. Il governo non avrà più la scusa di un parlamento diviso per negoziare migliori accordi con l’unione, ha perso il suo asso nella manica. E per controbilanciare questa debolezza, intende rendere una proroga dell’uscita a dopo il 2020 illegale. Continua a presentare l’uscita senza accordi come una minaccia all’UE, quando chi ne soffrirà di più sarà la Gran Bretagna. E così, la saga di questo peculiare auto-sabotaggio continua.

In copertina: Light Red Over Black di Mark Rothko

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