Di TONI NEGRI, Se n’è andato, è partito con la sua vecchia moto?

«Ho comperato Wired… dimmi, Benedetto, chi è questo Negroponte? Un mago…?» Diversamente dal solito, Ben ride fragorosamente. Non val neppure la pena di prendermi in giro, tanto – ne è fermamente convinto – continuerò a fingere di muovermi nel mondo informatico. Lui no, lui c’entra davvero, lo studia e spiegherà più e meglio di Negroponte, la complessità della Rete.

Questo ricorderò di Ben, che sempre precisava i nostri comuni pensieri, quando non correggeva i miei arzigogoli marxisti. Ci ha insegnato a identificare il potere produttivo della Rete e a scoprirne le funzioni estrattive. Il General Intellect lo ha scorticato e ricostruito dal basso. Ci ha mostrato che questa era l’unica via per comprendere la cultura, il modo di vita informatici e la produzione automatica. E che bisogna attraversare il caos e la dissipazione che i mutamenti tecnologici provocano, per riuscire a costruire un ordine migliore. E che non si poteva pensare che la «sussunzione reale» rendesse tutto liscio ma, al contrario, che poteva arricchire la realtà e il sapere di infinite declinazioni.

Lo chiamavano postoperaista: «se operaista è uno che non usa il computer – mi diceva ridendo – hanno ragione di affibbiarmi questo post». Ma è tutto per uno che l’operaismo lo ha reinventato nelle pratiche della lotta di classe che attraversano il digitale.

Non ne ha perduta una di occasioni, da Seattle a Plaza del Sol, la «tecnopolitica» l’ha ripassata tutta. Poco tempo fa, gli ho chiesto: «Ben, questa Teresa Numerico è un tuo nome d’arte?». Benedetto ride fragorosamente, diversamente dal solito: «Certo son miei pseudonimi, Numerico e Lovink e tanti altri – come una volta quando si parlava di General Intellect, lo erano Paolo e Marco e tanti altri – perché ancora e sempre, quando si avanza nella ricerca, siamo un noi».

Questa mattina mi telefonano: «Ben se ne è andato!». Dove, chiedo. È partito con la sua vecchia moto? Riprendo fiato e dico all’amico: «vedrai che presto avrai una mail dove ti chiede una recensione o un articolo». Aggiungo: «era l’unico cui non si poteva dire di no». Fatti intanto una vacanza, Ben, con quella bella moto.


Di SANDRO MEZZADRA, Un originale cartografo del capitalismo

Ho conosciuto Benedetto al tempo della Pantera, in quella breve e felice stagione in cui le Università italiane erano messe sottosopra da una straordinaria sommossa dei corpi e dei saperi. Di lì a poco ci siamo ritrovati alle riunioni di Luogo comune, una delle riviste che hanno avviato all’inizio degli anni Novanta il rinnovamento e lo sviluppo ulteriore dell’operaismo.

Nei trent’anni successivi ho condiviso tutto con Benedetto: DeriveApprodi, il G8 di Genova e il movimento globale, decine di seminari, assemblee, cortei, il lavoro sulle pagine culturali del Manifesto e i tanti tentativi di costruire progetti che combinassero produzione di conoscenza e militanza politica, da UniNomade a EuroNomade. E molto altro ancora: soprattutto la passione per la ricerca e la tensione militante, il desiderio di essere interni ai movimenti, un certo modo di intendere il marxismo e la critica dello stato di cose presenti. Un certo modo di essere comunisti.

Fin dalla fine degli anni Novanta Benedetto ha dedicato le sue energie intellettuali alla comprensione della rete e dei mondi digitali, a partire dalla precoce intuizione che in quei mondi si giocassero partite decisive per la trasformazione del capitalismo e dunque per la condizione del lavoro vivo. La rete dall’utopia al mercato, del 2015, e Il capitalismo delle piattaforme, del 2017 (Manifestolibri), danno conto degli esiti della sua riflessione su questi temi. Ma solo molto parzialmente: il suo formidabile lavoro di inchiesta è proceduto tumultuosamente fino agli ultimi giorni, attraverso interviste e recensioni di libri, mai scontate, sempre capaci di aprire nuovi orizzonti di ricerca. È in fondo anche il modo in cui ha combattuto la malattia, sostenuto da una curiosità davvero fuori del comune e da una straordinaria passione politica. Occorrerà mettere mano alla gran mole di articoli pubblicati da Benedetto, per restituire la complessità e il rigore del suo lavoro di cartografo del capitalismo contemporaneo e delle linee di conflitto e antagonismo che lo attraversano.

Benedetto alzava di rado la voce. Era gentile anche quando invitava alla rivolta e all’insubordinazione. E aveva un’umanità straordinaria, che solo chi ha avuto il privilegio di essergli amico conosceva fino in fondo. È difficile accettare che non sia più con noi, che non leggeremo più i suoi articoli sul Manifesto, che non potremo più contare su di lui per condividere imprese sovversive. Che non potremo più chiamarlo in un momento di difficoltà e di tristezza. Solo, possiamo continuare a fare le cose che abbiamo fatto in questi anni insieme a lui per averlo in qualche modo ancora con noi, per provare a colmare il vuoto enorme che oggi avvertiamo.


Di SANDRO CHIGNOLA

Ben ha avuto una buona vita. Autonomo a Primavalle, poi militante di tutte le imprese editoriali di movimento degli anni 90-2000, intelligente responsabile delle pagine culturali del Manifesto. Il suo impegno ha dimostrato quali autentiche università militanti siano stati i gruppi sovversivi per chi li attraversasse. Di Ben

mi mancheranno il sorriso e l’ironia. La capacità autenticamente filosofica di stare ben dentro le cose, senza esserne, mai, prigionieri. Lo ricordo in via Tolemaide a Genova; lo ricordo passare in moto tra i cordoni dei compagni e quelli della polizia a Roma, ridendo del fatto che non ne avessimo più l’età. Ricordo l’ultima volta che l’ho visto, pochi mesi fa, come sempre con molte cose da dire e sereno. Ci mancherà, mi mancherà. Un abbraccio a chi resta.


Di MARCO BASCETTA, La lotta di classe si è spostata nel cyberspazio

Da dove cominciare non si sa. Da un amico carissimo, compagno di quasi tutto. Complice fino in fondo. Nelle pagine culturali del giornale, nei cortei, nelle assemblee di movimento, nel lavoro di ricerca, in quel sentire comune (e comunardo) che lega noi vecchi e meno vecchi ragazzi degli anni ’70.

Benedetto è stato dall’inizio alla fine un compagno di movimento senza mai cadere però nella retorica movimentista, nelle illusioni autoconsolatorie, senza mai rinunciare a vedere i limiti, le impasse, i circoli viziosi di quel mondo inquieto e volubile. Con una passione politica a tutto tondo, ma senza ombra di settarismo. Trascinato da una curiosità intellettuale, da un desiderio di sapere che lo ha reso un vorace divoratore di libri e di testi d’ogni genere.

Scriveva molto e molto in fretta accumulando una leggendaria quantità di refusi, ma offrendo sempre ai suoi lettori una panoramica larga e mai banale delle idee più innovative e del dibattito politico-culturale in corso.

Così in questo giornale in cui ha lavorato per molti anni, senza mai risparmiarsi, è andato spesso e volentieri controcorrente, battendosi contro prese di posizione che riteneva errate, contro ogni adagiamento sulle certezze della tradizione e ogni diffidenza verso le metamorfosi del lavoro e l’insorgere di nuove forme di vita.

Stava sul confine, Benedetto, in una posizione sovente scomoda.

Nel collettivo del giornale difendeva le ragioni dei movimenti e del loro radicalismo, così come nelle sedi di movimento difendeva il ruolo del manifesto e le sue ragioni.

A lui questo giornale, noi tutti, dobbiamo moltissimo. Soprattutto per due ragioni.

La prima è quella di avervi introdotto, all’inizio insieme a Franco Carlini, le tematiche dell’era digitale dalla nascita di Internet al capitalismo delle piattaforme (cui avrebbe dedicato un libro con questo titolo) leggendo questa parabola in quei termini conflittuali che derivavano dalla tradizione operaista cui era vicino, ma non del tutto interno. Che anche rispetto ai suoi compagni più vicini Benedetto non ha mai rinunciato a rimarcare l’autonomia del suo pensiero e la specificità della sua esperienza politica.

Andare a cercare la lotta di classe nel cyberspazio come proiezione di un’aspra realtà materiale, non rientrava negli orizzonti dei fondatori del manifesto e nell’habitus mentale di gran parte del collettivo, che, piuttosto, di questo «nuovismo» diffidavano. Su questo terreno altri, nei movimenti, erano ben più avanti. E Benedetto faticò a farsi ascoltare e capire, mai rinunciando, tuttavia, a lavorare perché il manifesto diventasse una sede importante di questa ricerca e di questa discussione.

La seconda ragione è stato il suo logorante impegno come presidente della cooperativa del nuovo manifesto, nel corso di un passaggio difficilissimo e lacerante.

Chi conosceva bene la sua indole, le sue idee politiche, può facilmente capire quanto potesse essere gravoso per un ribelle abituato alla libertà delle dimensioni di movimento piegarsi alle regole, alle norme, alle costrizioni finanziarie e legislative contro le quali si era sempre battuto, sia pure per salvare una realtà politico-giornalistica cui attribuiva grande valore.

Lo ha fatto con il medesimo sistema con il quale aveva costruito il suo profilo intellettuale. Con lo studio continuo e meticoloso, in questo caso dell’impervia materia societaria, ascoltando gli esperti di questo o quel segmento della politica aziendale. Con qualche ruvidezza, forse, dovuta proprio alla natura costrittiva e tanto diversa dalla sua di ciò che si era trovato a fare, il «bottegaio» diceva lui del suo ruolo di amministratore. Alla fine con successo per quanto era nei suoi poteri. Ci scherzavamo su, con una vena di amarezza e un po’ di costernazione.

Il giornale, però , sebbene Benedetto cercasse di riversarvi la sua intera esperienza, non era che un segmento del suo mondo.

Nelle riviste, da Luogo Comune a Deriveapprodi aveva introdotto competenze e punti di vista che anche in quei collettivi erano ancora carenti. E avrebbe continuato a svolgere un ruolo importante in esperienze di ricerca teorica e di intervento politico come Uninomade e poi Euronomade, oltre che in una miriade di seminari, incontri, dibattiti, presentazioni di libri. Fino a poche settimane fa.

Era soprattutto quello il suo mondo. Una collettività critica e inquieta alla perenne ricerca di varchi attraverso i quali scardinare l’ordine dominante. Tenuta insieme non solo dalle idee, ma da affetti, simpatia e affinità elettive. Una vita pubblica che si estendeva e arricchiva nei legami personali, che Benedetto coltivava con grandissima cura, con empatia, con un’attenzione continua al benessere dei suoi cari e dei suoi molti amici. Di cui, credo, in molti serbiamo un vivido ricordo.

A rivederci, dunque, non solo in quei ricordi ma nelle molte tracce lasciate lungo la strada che abbiamo percorso insieme.


Di ANDREA COLOMBO, Dentro la scrittura tenace di un quasi «controgiornale»

Credevo di conoscerlo a fondo Benedetto. Eravamo entrati insieme nella redazione del manifesto, alla fine degli ’80. Sezione Cultura: a raccontare che era la migliore in campo nella stampa dell’epoca si rischia di passare per gradassi ma non è così. Poi l’esperienza breve e felice di Luogo comune, punto di partenza di un percorso di ricerca che pochi hanno poi approfondito scandagliando per decenni come lui, e quella di DeriveApprodi. Decine, macché centinaia, di riunioni, in redazione e fuori. Di assemblee. Di confronti e scontri. Di discussioni, di manifestazioni fianco a fianco.

Invece Benedetto lo ho conosciuto davvero solo dopo quell’estate maledetta di tre anni fa, quando iniziò il suo combattimento contro un corpo che si ribellava, contro malattie che ogni volta parevano sconfitte, almeno domate, e invece si ripresentavano più letali di prima. Benedetto non ha combattuto la malattia con coraggio. Lo ha fatto, senza un briciolo di retorica, con eroismo.

Ha continuato a scrivere, a studiare, a militare, a ridere a cena con gli amici, a darsi da fare per salvare il manifesto. Senza mai smettere di sorridere. Senza mai cedere anche un solo dito di dignità. Senza arretrare di un centimetro fino all’ultimo secondo. Di fronte alla sua forza non si poteva che restare ammirati e stupiti.

Ma lo stupore per quella prova era sbagliato. Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto riconoscere quell’aspetto di Benedetto Vecchi. La testarda determinazione con cui Ben Olds, come si chiamava su Fb, ha fronteggiato questi ultimi anni tremendi era la stessa con cui trent’anni fa, in arrivo dai servizi tecnici, aveva affrontato la sua nuova vita di giornalista ma anche di intellettuale rivoluzionario. Non un accademico, non un innamorato della cultura per la cultura o per il lustro che ne poteva ricavare.

Uno di quelli, e ormai sono in pochi, per cui il sapere e la militanza erano indivisibili: a cosa serve il sapere, se non a cambiare il mondo? Perché studiare, ogni giorno, senza tregua, divorando una quantità incredibile di libri, cimentandosi con testi che mettevano alla prova pazienza e resistenza, se non per avere un’arma a disposizione, esplosivo immateriale da adoperare contro lo stato presente delle cose?

Benedetto è «cresciuto in pubblico». Ha imparato a scrivere, prima bene e poi molto bene, articolo dopo articolo, e i suoi non erano mai pezzi da ombrellone. Non era arrivato in quella sezione cultura in cui cercavamo consapevolmente di affrontare temi diversi da quelli che occupavano la prima pagina, con un sapere già appreso in accademia da elargire al volgo.

Quelle conoscenze se le è costruite nel tempo, con una tenacia senza pari, sino a padroneggiare come pochi la materia che aveva scelto di studiare a fondo: il lavoro e le sue trasformazioni, le dinamiche del capitalismo nell’età della digitalizzazione, il parto lunghissimo e travagliato, ancora in corso, di un nuovo proletariato senza più fabbrica.

Per Ben la politica era la stella polare: orientava i suoi studi, i suoi articoli, i suoi libri. Però cercare di trascinarlo sul terreno infido della politique politicienne era impresa votata a fallimento. Per le peripezie dei partiti solo in rare occasioni aveva in serbo qualcosa in più di uno sbadiglio.

Era ed è rimasto fino all’ultimo un ragazzo del ’77, convinto che con quella roba, con quei giochi di potere, con quei conflitti mimati più che vissuti, la politica avesse poco a che spartire e che chi voleva sovvertire il mondo dovesse tenersene a distanza di sicurezza. Forse esagerava in rigore. Di certo non aveva tutti i torti.

Benedetto era paziente, ragionevole, mai collerico neppure in una redazione dove il pacato confronto cedeva spesso il passo allo strillo e qualche volta al lancio degli oggetti contundenti. Ma la sua calma traeva in inganno. Era determinato come pochi.

Sapeva chi voleva essere, chi voleva diventare: obiettivo ben più ambizioso del cercare di ottenere o di conquistare qualcosa.

C’è riuscito perfettamente. È stato l’uomo, lo studioso, il giornalista e il militante rivoluzionario che voleva essere e diventare. Ci è mancato troppo presto, ed è un dolore immenso. Ma ha chiuso la sua partita da vincitore assoluto.


Di PAOLO VIRNO, L’intellettuale dai piedi scalzi che sapeva di non appartenere ai vuoti e «felici pochi»

Da anni Benedetto era intento a morire nel modo più alacre che si possa immaginare: studiando, scrivendo pagine non futili (cioè: non introverse), detestando gli intellettuali con i mocassini e facendo comunella con quelli dai piedi scalzi (era uno di loro, del resto), censendo con buonumore i sintomi di rivolte prossime venture, soccorrendo generosamente coloro che cercavano di soccorrerlo. Una morte pubblica, gremita di voci, mai priva di solidarietà nei confronti di chi resta e vorrà parlarne. Poiché lo scemare del suo tempo è diventato, esso pure, un episodio della prassi sovversiva, agli amici veniva da pensare che Benedetto sarebbe durato indefinitamente. È la sola eternità che noi materialisti possiamo concederci.

Ho conosciuto Benedetto nel 1988, quando cominciai a lavorare alle pagine culturali de il manifesto. Non era ancora un redattore, Benedetto, ma un tecnico informatico. Lo divenne poco dopo, timido e circospetto, vorace di libri e di idee. Sapeva di non appartenere alla tribù degli happy few, dei letterati «felici pochi» che spacciano citazioni come eroina tagliata pur di scansare qualsivoglia pensiero, sempre pronti a rifugiarsi in un soave borgo campagnolo quando l’epoca ruggisce.

Dotato delle qualità, e anche della durezza, degli unhappy many, degli «infelici molti» di cui è composto il proletariato moderno che lavora con il linguaggio, Benedetto capì in fretta come orientarsi nel corso della grande trasformazione del modo di produzione capitalistico, delle forme di vita, dei gerghi e delle tonalità emotive. Cercammo e trovammo insieme nomi provvisori, a volte maldestri, per designare quella trasformazione e la sovversione che essa covava in seno: lavoro cognitivo, intellettualità di massa, rivoluzione come esodo, democrazia non rappresentativa.

Ricordo Benedetto nei seminari parigini degli anni Novanta, da cui nascerà la rete politica e intellettuale chiamata Euronomade. La sua curiosità. L’emozione accuratamente celata quando conobbe Toni Negri e gli altri esuli, insomma i bersagli viventi del pogrom contro la sinistra rivoluzionaria. Fu allora che Benedetto inciampò, per così dire, nel concetto cui avrebbe dedicato le sue energie fino a ieri: il general intellect, l’«intelletto generale» di cui parla Marx come dell’autentico pilone della produzione sociale. Il pensiero, il sapere, il linguaggio messi al lavoro, fonte eminente del profitto: d’accordo, disse Benedetto, ma in che modo, per quali vie, mediante quali procedure? Le sue riflessioni sulla rete informatica, contenute in innumerevoli articoli e in due libri pregevoli, sono un tentativo di rispondere a questi quesiti di gran peso, serenamente ignorati da una sinistra raccapricciante o patetica.

Sempre negli anni Novanta, Benedetto partecipò a una rivista durata soltanto quattro numeri, meno effimera però di testate universitarie che si trascinano per decenni: «Luogo comune». Le riunioni di redazione furono, talvolta, adrenaliniche, certamente mai squisite di quella squisitezza letale di cui si beano gli scrutatori di anime. In quella rivista è stato detto quasi tutto l’essenziale sul tempo che viene. Coloro che vi hanno messo mano, anche quando si sono persi di vista, mantengono la tacita intesa di chi è affratellato da comuni scoperte. Con Benedetto, su certi temi e certi eventi, bastava un sorriso complice: che te lo dico a fare, amico mio?


Di ARIANNA DI GENOVA

A Benedetto Vecchi piaceva moltissimo il mare. Non rimaneva mai in superficie ma preferiva sparire sotto il mondo visibile, tuffarsi nelle profondità per conquistare altri mondi nascosti, stregato da ciò che non è di immediata conoscenza. Una metafora potente del suo muoversi tra le maglie della società contemporanea. Al mare, però, non andava mai leggero. Quando riaffiorava dall’acqua, ripescava certamente i suoi libri dalla tasca del fedele zainetto. Erano tomi di inusitata pesantezza fisica (centinaia di pagine), ma ambrosia divina da dare in pasto alla sua curiosità inesauribile. A volte, quelle tematiche spinose che tanto aveva a cuore – dal postumano all’intelligenza artificiale passata al vaglio del materialismo marxista, fino alle piattaforme del capitalismo digitale – erano fonte di scambi di battute insieme alle compagne e compagni di stanza perché Benedetto aveva il dono – assai raro – dell’autoironia. Ogni giorno sul suo tavolo si accumulavano libri densissimi, politicissimi, che molti di noi avrebbero stentato solo ad aprire. Per lui, invece, erano miele purissimo. Reti succose dove impigliare i fili del ragionamento, «canovacci» utili per strofinare le lampade di Aladino negli angoli oscuri della realtà.
Nella sezione cultura – dove ha lavorato con sconfinata generosità per decenni e che per lui era anche un luogo di sovversione pulsante e di pensiero liberissimo – ha aperto varchi inaspettati, rendendo «liquida» l’architettura delle idee. E in quella liquidità democratica si immergeva anche la sua passione per il noir, unica concessione «fuori registro», insieme alla fantascienza di Ursula LeGuin. Timido a suo modo, eppure fermo nelle decisioni, portentoso ascoltatore dei disastri privati altrui e delle altrui irrazionali costruzioni esistenziali, è stato prima che un compagno di strada e di lavoro, un amico sincero. Che non si sottraeva mai, infaticabile negli affetti come nella sua dedizione a il manifesto, l’impresa collettiva nella quale ha creduto (e che ha contribuito, con tutte le sue forze, a salvare dal naufragio), con fede incrollabile, fino all’ultimo.


Di FRANCESCA BORRELLI

La sua passione per il conoscere gli ha fatto conquistare via via pezzi di mondo, il lessico per nominarli, cassette degli attrezzi sempre più nutrite di chiavi per aprire testi anche impervi, ai quali ha guardato con una originalità a volte spiazzante, derivata da un punto di vista a sua volta molto orientato: politicamente orientato, come diversamente non avrebbe potuto darsi per un uomo che ha puntato sul linguaggio, rendendo questo requisito trascendentale permeabile alla contingenza storica della sua generazione: un tempo, anche, di rivolte.
Se è vero, e lo è, che i confini del nostro linguaggio determinano i confini del nostro mondo, raramente si è vista una politica espansionista così appassionata nei confronti di territori del sapere da annettere al proprio patrimonio esistenziale: osservare Benedetto nella sua parabola conoscitiva è stato uno stupefacente esempio di vita activa, da serbare nelle nostre coscienze, per quanto ormai troppo poco critiche, prima ancora che nei nostri ricordi. Era dotato, fra l’altro di un sentimento della gratitudine per nulla ovvio, per nulla diffuso, che si traduceva in lui nella generosità della sua condivisione dei passaggi più difficili degli amici, verso i quali coltivava una, a volte commossa, intensa partecipazione.
Sono molte le circostanze di cui gli siamo debitori, e molti – peraltro – i conflitti consumati: anche di questi bisogna riconoscergli la derivazione quasi pulsionale, dunque più coinvolgente, quella che implica quella spesa di sé cui non tutti sono disposti, ma Benedetto sì.


Di ALESSANDRA PIGLIARU

Aveva una intelligenza complessa, Benedetto. Una di quelle che ti espone al groviglio del mondo, da dentro e mai da spettatore. Operaio del pensiero, non conosceva fatica quando si trattava letteralmente di adoperarsi, per queste pagine e per il giornale. Aveva un attaccamento appassionato che non è mutato di una virgola al sopraggiungere della malattia, tanto da far pensare, osservandolo e leggendolo, a quegli amori incrollabili che sanno trovare nutrimento nonostante il tempo che resta si avverta sfuggente. Benedetto non si è mai risparmiato. Ha sempre preferito la presenza alla ignavia ormai diffusa in questo presente di miserabilità. È stato un amico e un compagno su cui contare, insostituibile come chi non teme di esserci e sceglie di restare anche quando le cose si fanno difficili. Ma lui rispondeva offrendo il petto, di poche parole, con una calma proverbiale. Sapeva quel che faceva. Era un intellettuale militante. E aveva un’altra qualità rara: era buono. Ha sostenuto generazioni di collaboratori (anche io devo ringraziarlo, senza di lui non avrei mai cominciato a scrivere qui), sollecitando dibattiti generosi. Perché amava il confronto, la parola dell’altro e dell’altra. Le cose scambiate in questi anni rimangono e non si possono invece raccontare. Si tengono tra le cose più care, giorno per giorno. Insieme ai suoi occhi grandi e autunnali, che si illuminavano di ardore per ciò che gli andava bene oppure no; il modo suo che aveva di stare accanto alle cose anche piccole è forse la perdita incolmabile. Ma ce la teniamo stretta, anche questa ultima cosa. Per il bene che gli abbiamo portato. Ciao Ben, tutto il mio cuore grato per te, per Laura e per Marianna.


Di GUIDO CALDIRON

Alcuni gesti erano cambiati, alcune espressioni scontavano il passaggio del tempo, avvenuto per entrambi, ma lo sguardo di Benedetto non era diverso, quel suo modo di non prendersi troppo sul serio e di giocare simpaticamente con l’interlocutore. Ti guardava strizzando leggermente gli occhi, un lampo di ironia pronto a scoccare. Ci siamo incontrati al manifesto nel 1992 ma i ricordi che mi scorrono davanti, magari un po’ confusi dall’emozione, lo vedono altrove, per strada o in luoghi dove il suo paziente lavoro di studio si intrecciava con la sua passione per la politica – anche se vorrei in realtà parlare di rivolta – e la sua inarrestabile curiosità. Lo rivedo così durante una manifestazione a via Cavour o al vecchio Leoncavallo accanto a Primo Moroni a farsi raccontare storie di balere e di “ligera”. Ma anche durante un indimenticabile weekend – te lo ricordi Lia? C’eri anche tu – ospiti dei neodestristi che parlavano di comunità e radici qualche decennio in anticipo su Salvini. Una trasferta che una volta usciti i pezzi sul giornale ci valse l’appellativo di “rautiani del manifesto”. Ti ho sempre detto che sarei voluto venire a lavorare al manifesto solo per poter ridere e litigare con te tutti i giorni. Non mi hai dato il tempo.

Un omaggio a Benedetto Vecchi della redazione de il manifesto.

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