Di MIGUEL MELLINO.

«Nanorazzismo è una critica alla democrazia liberale. Punto». Dopo un breve scambio di battute per email, era con queste parole che Benedetto Vecchi sollecitava, per l’ultima volta, una recensione di Critica della ragione negra, di Achille Mbembe, appena edito da Ibis (pp. 295, euro 19).
Cominciare con le sue parole è non solo un gesto di affetto e amicizia per mantenere ancora vivo il suo stimolo a scrivere queste linee; ma anche un buon modo per posizionare non solo questo testo, bensì la stessa narrazione di Mbembe, dopo quel «Punto».
Cosa poteva voler dire quel «punto» così categorico? Probabilmente che Nanorazzismo, uscito poco prima in Italia, pur essendo successivo a Critica della ragione negra, non andava oltre una (condivisibile) critica alla democrazia liberale.
Come suggerito dallo stesso titolo/sottotitolo dell’edizione italiana – ma non dall’originale, Politiques de l’inimitié – il punto nodale di Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia è sicuramente quello: l’attuale democrazia liberale, prodotto storico dell’articolazione «coloniale/globale» del modo di produzione capitalistico moderno, non è pensabile senza un suo Alien interno, ovvero senza quel rovescio costitutivo (il razzismo) della sua ragione (race/blind) discorsiva.
Il razzismo, come una potente microfisica mortale dell’esercizio liberal-democratico del potere, non fa che minare alla base le pretese di qualsiasi ingenuo universalismo meramente astratto e formale. La democrazia (capitalistica) liberale, ci ricorda Mbembe, è tuttora mossa da una pulsione razziale, da un’ontologia produttiva che trae ancora la sua linfa più vitale da quel delirio schiavistico e omicida tramandato dal vecchio dispositivo della «razza».

L’ASSUNTO, su cui poggia tale affermazione, è semplice: stati coloniali, schiavitù, imperialismo e ragione democratica hanno fatto storicamente parte di un unico assemblaggio di potere. Punto. Nanorazzismo si ferma qui: nella messa in luce, in tutte le sue diverse espressioni, di una strutturale aporia bianca e coloniale dell’immaginario occidentale della democrazia. Non si va oltre, dunque, una raffinata descrizione di questa aporia.
Un passo oltre Mbembe lo aveva già fatto proprio in Critica della ragione negra. Titolo suggestivo, nonché disorientante a un primo sguardo, poiché sembra voler attaccare / decostruire una presunta ragione-altra-non-occidentale. L’idea di una ragione negra potrebbe infatti indurci a pensare alla negritudine e alle sue diverse espressioni storiche. E invece no. Per Mbembe, la ragione negra è qualcosa che si annida nel cuore della ragione (bianca) moderna, non un’alterità esterna, ma un suo (necessario) «sdoppiamento» interno.
Per cominciare a snodare la sua argomentazione, può essere utile collocarla in serie con due testi a cui egli sembra rinviare, Critica della ragion pura di Kant e Critica della ragione postcoloniale di Spivak. Mbembe si pone sulla loro filigrana cercando di «decompletare», per così dire, il tipo di linea intertestuale suggerito da Spivak. Il punto di partenza di Mbembe, il suo presupposto aprioristico, si potrebbe dire, è presto enunciato: in fondo alla ragione moderna occidentale vi è sempre stato un suo doppio, una sorta di necessaria «ombra» interna, un qualcosa che l’ha sempre trascesa in modo spettrale, abitandola in modo fantasmale e criminale.

LA RAGIONE NEGRA è quindi una sorta di «sragione» costitutiva della stessa ragione moderna, una sua proiezione, necessaria non solo all’autofondazione del soggetto occidentale come polo positivo (bianco, oggettivo, normale, razionale) dei saperi moderni, ma anche all’esercizio di un determinato tipo di potere. Rifacendosi in modo esplicito a ciò che Lewis Gordon ha chiamato «esistenzialismo nero» – Du Bois, Césaire, Wright, Fanon, Baldwin – Mbembe ci chiede di pensare al negro (alla sua invenzione) come al sintomo di una pulsione occidentale moderna volta a ridurre ogni specie vivente a mero corpo di «estrazione». Sta qui la potenza produttiva della razza come dispositivo moderno di dominio. La ragione negra andrebbe pensata, dunque, come il rovescio necropolitico di ciò che Foucault ha chiamato «biopolitica» moderna.

L’OLTRE DI MBEMBE in questo testo non si ferma qui. Diversamente da altri autori postcoloniali che hanno insistito su una diagnosi simile, vedi Said e l’orientalismo ad esempio, per Mbembe questa ragione negra è uno dei prodotti della nascita del modo di produzione capitalistico come sistema globale di sfruttamento. La ragione negra non viene qui pensata come un fenomeno meramente ontologico, ha una genesi e una dimensione materiale, sociogenetica, per dirla con il Fanon di Pelle nera, maschere bianche, direttamente riconducibile al razzismo coloniale come dispositivo di governo. La ragione negra va vista dunque come una sorta di metonimia culturale del dispotismo del capitale, ovvero della comparsa nella storia dell’umanità di una logica di dominio agita da un insaziabile istinto predatorio, da un’implacabile sete di profitto, improntata quindi a un’illimitata estrazione di valore.
La ragione negra è la cifra della volontà sovrana moderna di ridurre il vivente a mera «cosa-merce-moneta», ma anche di distruggere o rendere superflua ogni forma di vita di cui essa non abbia bisogno o che si opponga al suo comando. La ragione negra è una sorta di trasfigurazione (o feticismo) della stessa pulsione di morte che muove l’accumulazione del capitale: è il simbolo dell’economia politica morale della modernità.
Ma il vero «oltre» del testo di Mbembe sta nel secondo dei suoi presupposti: con il trionfo incontrastato del neoliberalismo la ragione negra diviene sempre di più la nuova ragione del mondo. La condizione neoliberale, ci viene detto, può essere caratterizzata come un divenire negro del mondo: come l’universalizzazione della storica condizione negra di soggezione. Si tratta di una tesi stimolante per ripensare l’eredità coloniale-razziale della stessa ragione neoliberale, spesso assente dai resoconti dei suoi più noti critici, si pensi ad esempio a Dardot e Laval, ma non priva di problemi.

È CHIARO che posta in questi termini, ovvero senza un’analisi più microfisica delle nuove gerarchie della cittadinanza, delle dinamiche reali dell’inclusione e dell’esclusione, potrebbe finire per neutralizzare proprio quella stessa eredità che intende riportare alla luce. Forse il suo limite maggiore sta proprio in quell’oltre indispensabile ma non compiuto dal testo, nel suo Punto, per tornare all’inizio: nella non presa in esame delle lotte, dei numerosi movimenti di resistenza che un po’ dappertutto si battono contro le diverse articolazioni geografiche della ragione (negra) neoliberale in nome di una nuova umanità comune.
Si tratta di un punto rimasto in sospeso: eppure solo da qui può prendere corpo una critica politicamente più efficace della «ragione negra».

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 21 gennaio 2020.

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