Di MARCO ASSENNATO.

Interrogare, da un angolo filosofico, la congiuntura politica contemporanea è pressoché impossibile senza confrontarsi con il pensiero di Etienne Balibar. Ciò dipende certo dal lavoro che egli ha condotto su alcuni classici, Spinoza e Marx in particolare; e dallo scavo di alcuni dei temi fondamentali come le frontiere, la cittadinanza, lo spazio politico europeo, la violenza, la globalizzazione e così via seguitando. Ma, più profondamente, il nostro debito verso Balibar dipende dalla straordinaria generosità di un filosofo che non ha mai smesso di fare i conti – direttamente – con l’attualità: che non ha esitato, in altri termini, a prendere la parola in pubblico, accostando di lato i grandi cicli di lotte degli ultimi tre decenni, come una coscienza inquieta e curiosa, desiderosa di discutere ed apprendere, insegnando.

Da questo punto di vista è assai preziosa l’iniziativa della casa editrice La Découverte, che ha deciso di raccogliere in volume, sotto il titolo Histoire interminable. D’un siècle à l’autre. Écrits I, i «testi d’intervento storico-politico», prodotti tra il 1995 e il 2019, sistemati dall’autore in tre sezioni (Tracce, Frontiere, Congetture) inquadrate da due grandi saggi inediti a guisa di introduzione e di conclusione provvisoria (un secondo volume di scritti, intitolato Passion du concept. Épistémologie, théologie et politique è previsto per fine marzo). Si tratta di un invito a pensare il passaggio d’epoca: piantare lo sguardo in avanti e attraversare le macerie del mondo dominato dal «capitalismo assoluto». Esercizio non banale perché Balibar lo circoscrive tra un presupposto (che gioca di sponda tra Freud e Althusser): «la storia non è finita», perché essa è «interminabile»; e un dubbio metodico: «che il chiasma tra struttura sociale e azione politica» si sia definitivamente spezzato. Insomma che «il passaggio da un secolo all’altro coincida con la mutazione brutale del senso stesso delle categorie di cui ci serviamo per pensare il tempo, il conflitto e l’azione». Interrogare il nesso tra storia e politica, significa allora pensare senza alcuna certezza la «conversione della violenza in azione di trasformazione e in processo di civilizzazione o di socializzazione». Per farlo però occorre un balzo in avanti, un esercizio di immaginazione, una forma inedita di «empirismo speculativo», viene detto, evocando Hegel.

Tracce

La prima sezione ragiona sugli «effetti obiettivi di disseminazione della memoria» legati a tre eventi fondamentali del XX secolo: la Grande Guerra, la Rivoluzione d’Ottobre e il 1968 (cui andrebbe aggiunto il passaggio compreso tra la caduta del muro di Berlino e gli attentati dell’11 settembre 2001, un interregno nel quale, secondo Balibar, si svela il «vero carattere del XXI secolo»). Ognuna di queste tracce chiama in causa il nostro presente perché contribuisce a definire il «regime di storicità» nel quale ci inscriviamo e quindi le condotte e i sistemi istituzionali che lo ordinano. La Grande Guerra imperialista diventa dunque il punto di partenza di quello straordinario processo di «europeizzazione del mondo» che si è oggi definitivamente compiuto nella «provincializzazione d’Europa». Ma è altresì una occasione per interrogare criticamente gli odierni «nazionalismi senza impero», la cui xenofobia strutturale emerge come risposta patologica dall’oggettivo indebolimento dei poteri reali degli Stati-Nazione. «Potremmo definirla – scrive Balibar – una sindrome di impotenza dell’onnipotente», una forma istituzionale che compensa, in autoritarismo verso gli stranieri, la forza che ha perduto sul terreno politico.

Contro il nazionalismo imperialista vive invece la traccia dell’Ottobre: rivoluzione capovolta nel suo contrario, quando ha perso, nella statalizzazione del suo movimento, l’orizzonte leninista di uno «Stato-non Stato». E tuttavia rivoluzione che continua a produrre effetti, se non altro nella paura delle tecnocrazie contemporanee verso lo spettro del comunismo. Ma il rapporto con il ’17 è ancora più cogente dacché, secondo Balibar, conseguenza paradossale della rivoluzione sovietica è stata la spinta verso un nuovo modo di organizzazione del capitalismo: quella Grande Trasformazione, descritta da Polany, contro la quale si è organizzata la reazione neoliberale. Possiamo dire perciò che «il capitalismo globalizzato odierno è un capitalismo postsocialista». Infine il 1968, data simbolo che contiene in germe una diversa prospettiva rispetto alla «crisi dello Stato Nazionale-Sociale». Contro le tesi oggi imperanti che descrivono il ’68 come premessa dell’individualismo neoliberale, l’autore recupera tutta la complessità di un momento che non si lascia ridurre ad unità. Attivato da un «nuovo regime di discorso e di parola nello spazio pubblico» che intendeva manifestare «l’esatta antitesi dell’assorbimento nei consumi di massa e nella distrazione commerciale», l’essenziale del ’68 consiste, secondo Balibar, nella sperimentazione di un «momento democratico extra-legale» che rivendica «il diritto ad avere diritti».

Frontiere

La seconda sezione del volume ragiona su alcune linee di faglia: Francia-Algeria, Palestina e, più in generale, il Mediterraneo, «punto di incontro e di conflitti permanenti tra storie e culture», ma anche «orizzonte di un progetto di civilizzazione a venire». È nota la pervicacia con la quale, da decenni, Balibar ci invita a considerare il tema della frontiera come metodo (in diverse occasioni egli fa riferimento al fondamentale lavoro svolto in tal senso da Sandro Mezzadra e Brett Neilson). Una postura qui, ancora una volta, ribadita: «al posto di una concezione poliziesca della frontiera, urge una pratica politica della frontiera. Bisogna immettere la frontiera nel campo politico, fare in modo che essa non sia più ai margini – fuori da ogni controllo e contestazione – ma al centro (…); farne una questione politica della quale si possano negoziare i modi d’uso e di trasformazione». Ma ragionare sulla frontiera, in politica, significa ragionare sulla cittadinanza e quindi sulle forme istituzionali che consentono di assicurarne la cogenza.

Forse, dice Balibar, «l’idea di uno stato senza frontiere non è all’ordine del giorno», ma certamente la questione di individuare delle forme istituzionali sovranazionali «che non siano più lo strumento delle superpotenze militari e finanziarie» è di «bruciante attualità». La sfida del Mediterraneo come spazio frontaliero dentro alla globalizzazione apre allora al tema dell’Europa politica: grande «mercato di consumatori, indissociabile dagli insiemi euro-mediterranei ed euro-africani». L’Europa è oggi una cinghia di trasmissione delle politiche neoliberali all’interno delle nazioni che la compongono, e una base di retroguardia per le «politiche neocoloniali» di Usa e Cina. La sua afasia politica dipende dall’incapacità di immaginarsi come spazio democratico. Ma domani il vecchio continente può diventare il centro di nuove forme di cooperazione con il sud del mondo, una verticale che riapre lo spazio geopolitico, insomma, sull’asse nord-sud.

Congetture

La terza e ultima sezione contiene un doppio confronto con Immanuel Wallerstein e Mario Tronti, due pensatori della crisi del rapporto tra storia e politica. Una crisi in sospeso, nella concezione dei cicli storici di Wallerstein; e già avvenuta invece nella versione kathekontica di Mario Tronti. Pur riconoscendo l’importanza di queste due traiettorie intellettuali, tuttavia, l’escatologia negativa non basta a Balibar. Hic Rodus, Hic salta, la domanda da porsi è tutta rivolta al futuro: «quali ipotesi possiamo fare su una politica anticapitalista nell’epoca del capitalismo assoluto?». Come pensare un socialismo per il XXI secolo (qui il confronto è piuttosto con Toni Negri)? Ovvero: quali sono le condizioni della politica, in un mondo radicalmente diverso da quello del Secolo Breve, e nel quale la catastrofe ecologica ci impone di rimettere in questione la modernità e la tecnica, i modi di produzione, di distribuzione, di consumo delle risorse e le forme della democrazia?

Bisogna innanzitutto comprendere che il capitalismo assoluto «non è uno stato stazionario», ma «un regime straordinariamente instabile, fragile e quindi aggressivo». Da questo punto di vista la transizione postdemocratica che stiamo attraversando e il tendenziale coincidere tra nuove forme di autoritarismo e ricette neoliberali, segnalano una debolezza, più che una forza, del sistema della governance globale: per cui ad ogni nuovo ciclo di riforme strutturali seguono movimenti di contestazione e rigetto. Una «politica della politica» è possibile dunque ragionando sulla «convergenza di un programma di trasformazione del lavoro e della produzione, di un sistema aperto di regolamentazioni cosmopolitiche, di una molteplicità di insurrezioni democratiche e dello sviluppo di utopie concrete che tentano nuovi modi di vita e comunicazione». Programma, regolamentazioni, insurrezioni, utopie sono momenti sincronici da attraversare per riaprire la partita della storia (e il suo nesso con la politica). Balibar ne incarna la possibilità evocando le «nuove soggettività transfrontaliere (di razza, genere, culture)», che si battono per nuovi diritti (alla cittadinanza, al reddito universale e slegato dal lavoro, per l’ambiente) e istituiscono «contro-poteri». La storia non è finita, aveva detto all’inizio. E qui il cerchio si riapre: il mondo è attraversato da insurrezioni. Esse possono essere riconosciute e legittimate dando luogo a forme inedite di invenzione istituzionale.

Ecologia, riforma, rivoluzione

Una delle differenze fondamentali tra la situazione attuale e il novecento politico sta nell’irreversibilità della crisi ecologica e climatica. Da qui la necessità di ripensare i conflitti sociali nella retroazione tra uomo e ambiente. Senza nulla cedere a posture neo-romantiche di «re-incantamento del mondo» o a mistiche della grande madre terra, Balibar propone di ripartire dalla domanda di André Gorz: come si inserisce il lavoro socializzato nello scambio con la Natura? Come trasformare radicalmente, dunque, i nostri criteri di efficacia economica, di consumo e di produzione? Perché è questa la sfida. Resistere «all’ideologia apocalittica del collasso inevitabile» del pianeta «rivoluzionando il concetto stesso di progresso tecnologico». Immaginare un programma socialista, individuare delle regolazioni transnazionali che frenino gli effetti nefasti del ciclo neoliberale, serve a Balibar per visualizzare uno spazio di esistenza e di variazione della comune potenza di agire dei soggetti politici. Si tratta, in altri termini, di costruire assemblaggi, a partire da una diagnosi condivisa della congiuntura.

C’è un’alternanza costante di realismo ed utopia in queste pagine: tipica di chi non rinuncia ad aprire orizzonti di senso ma si pone al contempo il problema delle condizioni concrete della politica. Si potrebbe dire che siamo di fronte a un revisionismo capovolto. E su un capovolgimento si tiene tutto il ragionamento di questi scritti, almeno laddove Balibar ci invita a ripensare «il dilemma classico delle politiche socialiste ma invertendone lo schema»: la rivoluzione è ormai presupposto necessario per le riforme. Senza rivoluzione, oggi, nessuna riforma sarà possibile. In fondo «l’obiettivo finale non è nulla, il movimento è tutto». 

Questo articolo è stato pubblicato in una versione ridotta su il manifesto il 10 marzo 2020.

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