Di UGO ROSSI

In un articolo apparso sul New York Times del 14 marzo con il titolo “We need social solidarity, not just social distancing”, il sociologo Eric Klinenberg – autore di recente di un importante libro sul valore delle biblioteche pubbliche di quartiere come spazi di legame sociale e comunitario – sostiene che ciò di cui abbiamo bisogno in questa fase di grave emergenza sanitaria non è solo il distanziamento sociale necessario per impedire la diffusione del virus ma anche pratiche concrete di solidarietà verso le categorie più deboli della società. I più deboli soffrono in modo particolare la condizione di isolamento sociale in cui oggi si vengono a trovare e in cui sono destinati a rimanere per un periodo prolungato di cui al momento non si conosce il termine.

L’articolo di Klinenberg mi ha fatto riflettere sul senso di frustrazione che ho avvertito in questi giorni tra i gruppi di base di cui faccio parte o di cui seguo i dibattiti abitualmente, in particolare la Rete SET per il diritto all’abitare e i collettivi femministi e transfemministi di Non Una di Meno. Nelle discussioni in corso in questi giorni tra le persone attive in questi gruppi avverto un desiderio insopprimibile ma al momento frustrato di proseguire, ampliare e sperimentare in forme nuove (che ad esempio non prevedano il contatto fisico) le pratiche di solidarietà verso i gruppi sociali più vulnerabili che normalmente ciascuna e ciascuno porta avanti non solo nel lavoro collettivo di attivismo sociale e politico ma come persone nelle proprie vite di tutti i giorni.

Perché dico che questo desiderio è frustrato? Perché secondo le disposizioni contenute nel Dpcm “Resta a casa” emanato nei giorni scorsi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, così come nella direttiva inviata dal Viminale ai prefetti per regolamentarne l’applicazione, le sole attività considerate “indifferibili” e dunque ammesse, vale a dire che possono passare indenni nei capillari controlli di polizia che in questa fase di emergenza segnano le nostre vite, sono quelle lavorative e quelle necessarie alla cura della salute individuale. Nelle disposizioni governative, come nelle dichiarazioni degli esponenti della maggioranza di governo e nel discorso degli organi di informazione ufficiali, non si legge e ascolta alcun invito alla popolazione a mettere in pratica attività o semplici gesti di solidarietà capaci di alleviare il senso di solitudine e vulnerabilità sociale che inevitabilmente prende il sopravvento tra i gruppi più deboli in situazioni come queste: senza fissa dimora, persone sole, malati mentali, persone che hanno visto aggravarsi la propria situazione economica in queste settimane di emergenza sanitaria. Esistono senz’altro molte associazioni “professionali” di volontariato che in questi giorni stanno coraggiosamente proseguendo le proprie attività di assistenza sociale a fianco dei più deboli, ma queste da sole non sono sufficienti a restituire quel senso di solidarietà diffusa e incondizionata che un momento emergenziale come quello che stiamo vivendo richiede.

L’antropologo urbano Abdoumaliq Simone, che ha studiato a lungo le micro-pratiche di solidarietà spontanea e non istituzionalizzata nelle grandi metropoli del Sud del mondo, vale a dire in contesti sociali che si trovano a che fare permanentemente con situazioni di emergenza gravi e impreviste, sostiene che le persone, vale a dire il sostegno che riceviamo dai nostri vicini, dalle nostre comunità di riferimento, siano l’infrastruttura più preziosa di cui possono disporre le categorie sociali che si trovano ai margini della società o che rischiano di ritrovarvisi da un momento all’altro, proprio come può avvenire in una crisi di carattere eccezionale come questa. La teorica transfemminista Judith Butler scorge un’opportunità di cambiamento sociale nella condizione di precarietà esistenziale che attraversa sempre più persone nelle nostre società: non solo i gruppi marginalizzati, ma tendenzialmente tutti noi possiamo rimanere vittime della precarietà ma anche assumere un ruolo di trasformazione sociale a partire da essa. Secondo Judith Butler, per superare il senso di vittimizzazione che può pervadere i nostri stati d’animo nelle situazioni di difficoltà apparentemente senza uscita, vale a dire la sensazione di diventare prima o poi vittime sacrificali di una società chiamata a perseguire obiettivi “superiori” che il nostro “crudele ottimismo”, come lo chiama Lauren Berlant, ci impone (la crescita economica, il benessere individuale, perfino la salute collettiva come in questo frangente), la precarietà può essere vissuta come un’opportunità di incontro con altre singolarità che stanno vivendo una condizione simile di vulnerabilità e che sono alla ricerca di una rete umana di sostegno materiale e affettivo. Da questo punto di vista, le nostre città e metropoli, animate da uno strato diffuso di associazioni, movimenti, gruppi spontanei e singoli cittadini solidali, hanno dimostrato in questi anni di restrizione degli spazi di accoglienza per i migranti, i poveri e le altre minoranze subalterne della società di poter funzionare da veri e propri “ecosistemi della solidarietà” a protezione dei più deboli.

La moltitudine di esperienze e pratiche a difesa dei più deboli e delle comunità a rischio – che oggi rischia di rimanere non solo invisibile e inespressa ma perfino di diventare fuorilegge alla luce delle recenti disposizioni governative – è la risorsa più preziosa di cui disponiamo in una fase di crisi come quella che stiamo vivendo: è un patrimonio che non solo non va dissipato ma che va valorizzato e riconosciuto dalle istituzioni e dalle legislazioni emergenziali. Sarebbe imperdonabile relegare gli “ecosistemi di solidarietà” che abbiamo faticosamente (e gioiosamente) costruito in questi anni in una condizione di non operare o addirittura di illegalità.

Riferimenti bibliografici

Berlant, L. (2011) Cruel Optimism. Duke University Press: Durham (NC).

Butler, J. & A. Athanasiou (2013) Dispossession: The Performative in the Political. Cambridge: Polity.

Klinenberg E. (2018) Palaces for the People: How Social Infrastructure Can Help Fight Inequality, Polarization, and the Decline of Civic Life. Random House: New York.

Rossi U., Stoppani C. e M. Tazzioli (2018) Criminalizzazione della solidarietà, diritto di fuga, città solidali. 3 aprile: https://www.euronomade.info/?p=10506

Simone, A. (2019) Improvised Lives: Rhythms of Endurance in an Urban South. Polity: Cambridge.

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