Di FRANCESCO BRANCACCIO E MATTEO POLLERI

In questi giorni, la Francia di Macron vara le prime misure di contrasto al Covid-19. Eppure, nel contesto transalpino, le reazioni istituzionali si innestano su un terreno caratterizzato da contraddizioni e conflitti di eccezionale intensità

Con qualche settimana di ritardo rispetto all’Italia, il Covid-19 è arrivato anche in Francia. L’abituale solennità juppiteriana ha caratterizzato giovedì sera il lungo discorso televisivo rivolto alla nazione da parte del “président des riches”. Alcune misure restrittive sono state annunciate (chiusura delle scuole e delle università fino a nuovo ordine; sospensione del campionato; divieto di manifestazioni oltre cento partecipanti), insieme a una serie di prime, parziali, garanzie socio-economiche (prolungamento della “tregua invernale” sugli sfratti; presa in carico statale di nuovi sussidi) e ad alcune indicazioni medico-sanitarie (massimo sostegno, anche dal punto di vista finanziario, alla sanità pubblica; invito al rispetto di norme igieniche severe e alla limitazione degli spostamenti). Nella serata di sabato, l’esecutivo di Édouard Philippe ha inoltre decretato la chiusura dei commerci non essenziali, sottolineando lo stretto coordinamento tra Parigi e Berlino. Le elezioni municipali, il cui primo turno è previsto oggi, domenica 15 marzo, sono state tuttavia confermate. Trasporti pubblici e privati, uffici e luoghi di lavoro in genere restano per ora aperti.

Prudenza e serenità istituzionale, fiducia nel sistema sanitario universalistico della République, responsabilità civile, unità nazionale e appello alla cooperazione europea per far fronte a una sfida che interroga le radici del modello di sviluppo occidentale. Voilà le parole d’ordine del discorso di Emmanuel Macron. La strategia del governo francese, in sintonia con la Germania, sembra per ora votata alla costruzione di un piano alternativo al modello autoritario cinese di contenimento dell’epidemia – elogiato dall’OMS e rilevatosi efficace nella tutela delle vite umane. Occorre anche sottolineare che questo modello ha fatto un ricorso pianificato alle piattaforme digitali, ai big data, alle app di scansione biometrica grazie alla mobilitazione di Alibaba, Baidu e Tencent.

La Francia, di fronte a un fenomeno difficilmente prevedibile e con un impatto sempre più duro, registrato dai bollettini quotidiani della Santé publique, entra così in quella che viene definita la “fase tre” della gestione dell’epidemia. Essa prova a tenere insieme contenimento progressivo e garanzia di alcune libertà fondamentali. In questo quadro, più che un inedito stato d’eccezione mondiale – uno spazio, cioè, omogeneizzato nell’anomia – si può constatare che, per ora, nei vari paesi si stanno sperimentando provvedimenti amministrativi differenziati, al centro dei quali le misure di polizia e di restringimento delle libertà non possono essere incautamente isolate dalla gravità della crisi delle strutture sanitarie. Tali provvedimenti sono basati sulle previsioni delle curve del contagio e su tassonomie che definiscono quotidianamente i livelli di morbosità e di letalità del virus, disomogenee in ciascun paese. Non mancano coloro che negano la gravità della situazione. Si veda, per esempio, la strategia adottata finora da Trump o al “modello” di Boris Johnson, che punta cinicamente al raggiungimento dell’immunità di gregge, assumendo, cioè, che il 60-70% della popolazione sarà contagiata, senza però spiegare come il suo sistema sanitario possa reggere di fronte a tale situazione.

Le prospettive di tenuta di questa governance della crisi epidemica sono a dir poco incerte, in particolare alla luce del diffondersi della paura nel dibattito pubblico, favorita da un mercato dell’informazione pronto, anche in Francia, a capitalizzare il panico. Ma ciò che risalta in primo piano in questi ultimi giorni è il contrasto tra la paura provocata dai media e l’attivazione collettiva che si è manifestata nelle reti sociali e nelle strade. La società che risponde a questa crisi non è uno spazio vuoto ma un tessuto vivente di contro-poteri che si è consolidato nel corso di questi lunghi e intensi anni di lotta. Nelle centinaia di “gruppi” Facebook dei Gilets Jaunes, vere e proprie agorà numériques del movimento, già da diversi giorni e ben prima dell’annuncio della serrata era stata evidenziata la contraddittorietà delle prime iniziative del governo: si è sicuri che le misure fondate sul “principio di proporzionalità” tra la tutela della salute collettiva e il funzionamento della macchina economica, possano essere efficaci? Le nuove chiusure annunciate ieri sera da Philippe mostrano tutta la provvisorietà di questo “principio”, che dovrà adattarsi a una situazione in rapida evoluzione.

Ma soprattutto, nel quadro transalpino, la diffusione del virus e le conseguenti reazioni governative si innestano in un contesto che, già prima della caccia convulsa al “paziente zero”, non aveva nulla a che vedere con il normale ripetersi della quotidianità. L’“eccezionalità” degli interventi governativi non si dà su una superficie liscia, ma su un piano increspato da contraddizioni e conflitti particolarmente intensi, che si condensano intorno al nodo della riproduzione sociale nelle sue varie declinazioni (fiscalità, potere d’acquisto, pensioni, assistenza sociale, servizi sanitari, scuole e università). Esso si intreccia inoltre con la rivendicazione diffusa di “giustizia ecologica”, divenuta una delle istanze fondamentali nei movimenti francesi.

A questo proposito, non si tratta semplicemente di ripetere, una volta di più, che il contropotere permanente, fluido e a bassa intensità, dei Gilets Jaunes – riunitisi per la VI Assemblea delle Assemblee a Toulouse la scorsa settimana – continua a minacciare il potere costituito, come dimostrano le manifs sauvages che hanno attraversato Parigi questo sabato per l’Atto 70. Quel che conta, più in generale, è che l’insieme delle lotte dell’ultimo periodo – dallo sciopero contro la riforma delle pensioni all’attuale battaglia dei precari contro la neoliberalizzazione dell’università, dai movimenti ecologisti agli scioperi dei lavoratori della sanità negli ospedali, prolungatisi per ben nove mesi – rappresenta lo sfondo sul quale si giocherà una parte rilevante della partita politica della gestione dell’epidemia.

Macron proverà senza dubbio a trasformare questa sfida in occasione di rilancio del suo progetto politico, fortemente indebolito e, fino a pochi giorni fa, in caduta libera nei sondaggi in alcune delle città più importanti. Ma questo rilancio, come sappiamo, non potrà che farsi sul piano europeo, cioè nella rimessa in discussione delle regole ferree del neoliberalismo su cui Macron ha fondato fino a ora il suo progetto. Sul piano interno, occorre poi notare che tale strategia vedrà protagoniste due delle istituzioni maggiormente “stressate” negli ultimi anni: i servizi d’assistenza socio-sanitaria e, nel caso di un’implementazione dei divieti di circolazione, la polizia e la gendarmerie. Gli uni, già sottoposti a una forte tensione da un processo di ristrutturazione neoliberale particolarmente rapido e violento; le altre, oggetto di sfiducia da parte di fasce sempre più ampie della popolazione, colpite dalla progressiva securizzazione dello spazio pubblico seguita agli attentati del 2015 e indignate per l’inaudita repressione dell’insurrezione popolare a partire dal novembre 2018.

L’appello di Macron alla coesione europea per costruire una risposta alla crisi alternativa ai ripiegamenti sovranisti e alle chiusure individualistiche si accompagna, d’altra parte, alla conferma dell’approvazione della riforma delle pensioni con la procedura del 49.3, che ha scavalcato il dibattito parlamentare, e al rifiuto di ritirare la riforma dell’assurance chômage, come chiesto dai sindacati e dai disoccupati in lotta. Scelte particolarmente discutibili e contestate, tanto più in un quadro di emergenza sanitaria con ripercussioni sociali radicalmente diseguali. Nelle università e nelle scuole, intanto, i precari e gli insegnanti, da mesi in mobilitazione contro la riforma delle pensioni e la LPPR (Legge di Programmazione Annuale della Ricerca) e ora costretti a casa dalla chiusura, rivendicano il pagamento delle prestazioni lavorative interrotte, opponendosi alle disposizioni relative al téle-travail.

Il movimento di sciopero delle università potrebbe ora prolungarsi in forme di opposizione all’uberizzazione della ricerca e dell’insegnamento. Due livelli, in questo scenario, si disegnerebbero all’orizzonte. Da un lato, l’organizzazione del rifiuto del téle-travail in un contesto nel quale, fino al giorno della chiusura delle università, una parte consistente del personale era in sciopero. Una forma innovativa di interruzione del lavoro potrebbe così essere sperimentata, nella lotta contro l’epidemia e i suoi effetti politici e psico-sociali. Dall’altro, la richiesta non solo del ritiro integrale del progetto di riforma di Frédérique Vidal ma, più in generale, di un piano straordinario di investimento sulla ricerca, in rottura con la logica di privatizzazione dei commons della conoscenza, aprendo al ripensamento complessivo della “funzione sociale” dell’università. Elementi che proprio la crisi epocale del Covid-19 rende non più rinviabili.

Nel frattempo, negli ospedali, la tensione è già alle stelle, e il personale sanitario ci mostra con il suo coraggio la funzione indispensabile della sanità pubblica nella tutela e nella riproduzione della società. Più che accreditarsi come autorità morale, spoliticizzata e tecnicizzata, in Francia le figure del medico e dell’operatore sanitario sono state infatti investite da significativi processi di conflitto, come testimoniano la mobilitazione permanente dei lavoratori del settore sanitario, le rivendicazioni dei Gilets Jaunes in merito alla salute e la forte adesione di medici e infermieri agli scioperi contro la réforme des retraites. Le condizioni lavorative di questo settore sono da mesi un terreno di scontro con l’esecutivo, scombussolato dalle dimissioni della ministra della salute Agnès Buzyn, improvvisamente cooptata per le elezioni municipali parigine al posto di Benjamin Griveaux. La tensione interna agli ospedali non potrà che addizionarsi, dunque, alle difficoltà prodotte dal contagio, come recentemente dichiarato dal direttore del sistema sanitario della capitale. Se certo l’omogeneità territoriale della salute pubblica francese non è paragonabile alle asimmetrie italiane, le previsioni degli operatori del settore sulle effettive capacità di accoglienza delle infrastrutture sono infatti lontane da quelle del governo. La visita ufficiale di Macron alla Pitié Salpêtrière di Parigi, dedicata proprio all’emergenza virale, è stata anzi occasione di protesta da parte di medici e infermieri: il personale sanitario è già al lavoro per far fronte all’epidemia, ma non ha alcuna fiducia nell’esecutivo e nell’Eliseo.

Prefigurazione di possibili ridefinizioni delle lotte dell’ambito riproduttivo dentro l’emergenza sanitaria? Le previsioni, a oggi, risultano impossibili. Ciò di cui si può tuttavia essere certi è che l’equilibrio sul quale si gioca la strategia macroniana di gestione dell’epidemia è fragile. Eventuali misure di ulteriore sospensione differenziale della socialità, economicamente diseguali e finalizzate a garantire la continuità dell’estrazione di valore, potrebbero essere oggetto di contestazione nei luoghi di lavoro, dove da mesi la quotidianità è segnata da débrayages e scioperi. Parallelamente, la rivendicazione dell’indipendenza della sanità dalla logica del mercato, sostenuta da Macron nel suo discorso alla nazione, potrebbe costituire un terreno fondamentale su cui incalzare la controparte, facendo esplodere le contraddizioni interne al suo programma politico. Infine, lo stesso spazio della “quarantena”, per ora solo parzialmente attuata, potrebbe permettere la sperimentazione di forme di solidarietà e conflitto, come alcune esperienze italiane cominciano a indicare, a partire dalla rivendicazione del “reddito di quarantena”. Questi terreni rimetterebbero allora al centro della lotta quella potenza della fraternité vissuta per più di un anno sui ronds-points e nelle assemblee.

Insomma, il tentativo di ricompattamento nazionale e rilancio politico tentato da Macron è tutto meno che scontato e non è da escludere che le misure per rispondere a un’eventuale crisi riproduttiva producano un approfondimento del solco che ormai separa potere politico e società. In tale scenario, il tessuto affettivo sedimentato dalle lotte degli ultimi anni – rivelatosi finora capace di rovesciare le passioni tristi in indignazione e gioia – si dovrà misurare con un rinnovato rigurgito hobbesiano di paura e angoscia e, al tempo stesso, con l’urgenza di approfondire le reti di mutualismo e di cura collettiva finora sviluppate. Tra le tante lezioni dei Gilets Jaunes, non ultima vi è la capacità di far vivere i discorsi sulla “vulnerabilità” nell’organizzazione del conflitto, grazie al protagonismo di donne, anziani e disabili nel movimento e attraverso la messa in opera di pratiche di politicizzazione dell’esperienza quotidiana e messa in comune delle sofferenze.

Fin dalla celebre lettera inviata da Jean-Jacques Rousseau a Voltaire in seguito al terremoto di Lisbona del 1755, sappiamo, d’altronde, che le catastrofi sono storicamente e socialmente determinate. Che le loro cause e i loro effetti, cioè, non sono mai del tutto indipendenti delle azioni umane e si distribuiscono, anzi, sulle linee gerarchiche e di sfruttamento che strutturano la società, acuendone i punti di incandescenza. Ma, come per ogni evento epocale, sarebbe sciocco proporre frettolosamente interpretazioni complessive e orizzonti strategici strutturati. Nel caso della Francia e dell’Europa intera, basti al momento dire che l’arrivo di ciò che Luca Paltrinieri ha definito, non senza ironia, le «prove generali di apocalisse differenziata» porta con sé nuove sfide per le lotte sociali, forse le più dure che il presente ci consegna. Hic Rodhus, hic salta!

Questo articolo è stato pubblicato su Dinamo il 15 marzo 2020.

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