Di ROBERTA POMPILI

Scene di lotta di classe dalla Cina

La catastrofe pandemica è una catastrofe ecologica: segnala una rottura nella lunga “coevoluzione” di uomini e microbi. Questa rottura è causata da fondamentali questioni strutturali che interrogano il nostro modello economico e sociale nella sua dimensione globale interconnessa. Il nostro rapporto con gli animali si è sostanzialmente modificato in funzione dei cambiamenti climatici, della deforestazione e dell’allevamento industriale. Pare che una delle possibili ricostruzioni sulla diffusione del coronavirus è legata alla ipotesi della trasmissione dello stesso dai pipistrelli all’uomo attraverso un animale ospite intermedio. Raccontano che i pipistrelli, a causa della deforestazione si sono, infatti, maggiormente avvicinati alle aree urbane; questi animali hanno un ottimo sistema immunitario e possono condividere i virus in colonie senza avere i nostri problemi.

Wuhan è una metropoli di 11 milioni di persone e la capitale della provincia di Hubei, nata dalla unione di tre importanti sedi commerciali basati sulla confluenza dei fiumi Yangzi e Han. Il suo grande sviluppo è legato agli investimenti degli occidentali che nel diciannovesimo secolo si stabilirono nell’area sfruttando “trattati vantaggiosi”. Wuhan è una città anche densa di operai e militari dove iniziò la Rivoluzione cinese nel 1911. Si è ricostruito che proprio da uno dei suoi trafficatissimi mercati “umidi” ovvero mercati dove si vendono animali da allevamento e animali che gli occidentali definiscono “selvatici” (anatre, rane o serpenti) – perlopiù allevati in cattività- che sia iniziato a diffondersi il Coronavirus. Quello che forse è stato omesso dalla discussione sui mercati cinesi è la prospettiva di contadini, allevatori e venditori. Sebbene i media riferiscano spesso il consumo di animali selvatici, si dice poco sul perché gli agricoltori si occupino di allevarli e metterli sul mercato. Come l’antropologo Lyle Fearnley ha appreso durante la ricerca sul campo con gli allevatori di “oca selvatica” nella provincia di Jiangxi, due fattori hanno portato la maggior parte degli i contadini all’allevamento di questi animali alla fine degli anni ’90: un’opportunità per soddisfare la domanda dei consumatori senza favorire il bracconaggio illegale proveniente dalla natura, e come un percorso verso una produzione di maggior valore, in un momento in cui i piccoli agricoltori rurali hanno dovuto affrontare una crescente pressione economica da parte delle imprese agro-alimentari. Durante le riforme del mercato post-Mao in Cina, iniziate nel 1978, i terreni agricoli collettivi sono stati redistribuiti alle singole famiglie: questo ha favorito l’aumento di piccoli agricoltori, noti come “specializzati”, perché si sono concentrati su particolari raccolti, oppure in allevamento di bestiame (polli, anatre o maiali). Ma negli anni ’90, la Cina ha intrapreso un “secondo salto” per espandere la scala della produzione agricola. Il governo cinese ha consolidato un programma di sostegno per le “imprese della testa di drago” mega-aziende fortemente capitalizzate – conglomerati di produzione alimentare industriale – che costruiscono catene di approvvigionamento integrate, spesso incentrate su macelli e impianti di lavorazione, collegate con allevamenti intensivi di bestiame. I piccoli proprietari indipendenti sono stati progressivamente espulsi dall’allevamento, in particolare in settori come il maiale o il pollame, perché i prezzi sono scesi troppo in basso e il costo di input (materie prime) è aumentato (anche a causa delle difficoltà subentrate per successive malattie contratte dagli animali). I piccoli proprietari indipendenti, molti agricoltori hanno dovuto affrontare una scelta drastica: intraprendere l’agricoltura sotto contratto con un conglomerato alimentare industriale o abbandonare del tutto l’agricoltura suina o pollame. Alcuni agricoltori hanno scoperto un terzo modo, optando per l’allevamento di razze locali e animali selvatici che possono essere venduti per rendimenti più elevati nei mercati di nicchia: l’allevamento di animali selvatici può essere un percorso verso un reddito costante e rimane una lotta per vivere nella Cina rurale.

Biosicurezza

Negli ultimi anni un numero crescente di antropolog* medici hanno iniziato a esaminare gli aspetti materiali e tecnologici del controllo dell’epidemia. Un argomento che ha attirato un’attenzione costante nei recenti studi antropologici sulle tecnologie di controllo dell’epidemia è stato il passaggio riguardo alla salute pubblica da un focus sulla “prevenzione” a uno sulla “preparazione”: la preparazione è legata alla genealogia militare della Guerra Fredda e si basa sulla dottrina della biosicurezza. Prendendo in prestito le tecnologie di simulazione e le ideologie di rischio in risposta alla guerra nucleare, la preparazione non è semplicemente una sostituzione della prevenzione, ma un terreno biopolitico ibrido della teoria e della pratica epidemiologica. Secondo l’antropologo Keck, la formazione di un nuovo dispositivo globale chiamato “biosicurezza”, all’indomani dell’11 settembre e in risposta alle paure suscitate dal bioterrorismo, non consiste solo nell’emergere di nuove forme di vita in regimi di sicurezza preesistenti. Affinché questa emergenza abbia luogo e produca una ricomposizione dei sistemi in atto, è necessario che gli attori vadano alle frontiere della natura per articolarli con altre frontiere politiche. Non è quindi sufficiente identificare e valutare nuovi rischi: devono prodursi catastrofi, che ridefiniscono la realtà in gioco nel mondo sociale e che aprono una nuova temporalità dinamica. L’attuale pandemia porterà senza dubbio a una ricomposizione di questi confini, con cambiamenti significatici degli assetti politici e sociali, e nelle politiche di welfare e della salute. D’altra parte l’imposizione di standard di biosicurezza in Cina (che comporta anche una gestione ed un controllo centralizzato delle banche dati dei laboratori che si occupano di epidemia), non dovrebbe oscurare l’intenso lavoro di riorganizzazione su più scale ai confini della vita in questa regione, da parte dell’organismo politico che funge da guardiano della salute per il resto del mondo.

Keck, nel suo studio sulla preparazione all’influenza Aviaria a Hong Kong, osserva come per la gestione dei polli come siano state implementate diverse tecnologie. Una di queste ha riguardato l’uccisione di pollame infetto in fattorie e mercati, l’abbattimento è stato utilizzato come modo per attenuare la minaccia. Nelle fattorie gli strumenti di biosicurezza hanno, inoltre, rafforzato i loro confini con il mondo esterno: reti, stagni, stivali, vaccini. Nelle fattorie l’attrezzatura materiale è servita anche per ribadire la distinzione tra uccelli selvatici e domestici.  Contemporaneamente, i virologi di Hong Kong hanno impiegato polli vivi come “dispositivi sentinella” (uccelli di controllo non vaccinati, in un allevamento di uccelli vaccinati) per la diagnosi precoce dell’emergere di nuovi ceppi di influenza. Se l’“abbattimento” (del pollame) può servire per stabilizzare la minaccia pandemica dell’influenza a livello simbolico per effetto della cultura visiva/visibilità pubblica, i dispositivi sentinella producono segni di una minaccia invisibile”, “sono al confine tra il visibile e l’invisibile”. Essi fanno parte di più ampi sistemi di biosicurezza che rintracciano la “potenziale incertezza”, ovvero hanno una “posizione strutturale su un confine dove si verificano eventi”. Le sentinelle sono quindi istituite come tecnologie epidemiologicamente significative nella misura in cui comportano la facoltà profetica dei regimi di preparazione alla pandemia.

L’antropologo descrive tre tecniche di “preparazione” che modellano l’immaginario globale: sentinelle, simulazioni e scorte. Le sentinelle comunicano con gli esseri viventi tramite segnali, le simulazioni le inseriscono in sequenze d’azione in modo che la minaccia diventi reale. Vengono in seguito accumulate scorte diinformazioni (banche dati). Attraverso queste tre tecniche, il “mito” (come scambio reciproco di prospettive tra animali umani e non umani) diventa “rituale” (attraverso il gioco e le prestazioni) e “economia” (gestione dell’accumulo di informazioni che provengono da questo scambio). L’ecologia delle malattie infettive ha dimostrato che i virus non sono entità intenzionali che mirano a uccidere l’uomo, ma indicano che l’equilibro in un ecosistema si è modificato (e di certo dall’ecologia politica abbiamo imparato è che i confini tra “specie” sono sempre instabili e prodotti). Gli umani tendono a pensare di essere al centro dell’ecosistema quando sono solo uno degli attori: le sentinelle sono una delle nozioni ecologiche che decentrano l’uomo mostrando la sua dipendenza da altre specie. Le nostre tecnologie digitali contemporanee, lungi dal distanziarci dagli uccelli e da altre specie, ci aiutano a costruire nuove relazioni con loro in uno spazio virtuale.

Farsi comune nel/del mondo

Nella fase politica-ecologica che stiamo attraversando, particolari momenti di crisi come quello causato dalla pandemia in corso di Coronavirus, rappresentano una spinta considerevole a tecnologie e a razionalità politiche che rimodellano quella che alcun* studios* hanno definito la biocittadinanza o cittadinanza biosicura. Questa consiste nel politicizzare l’individualità simbiotica, che incorpora i non umani nei domini della cittadinanza riconoscendo e agendo sulla relazionalità umana-non umana. I determinanti politici della cittadinanza non si basano completamente sul singolo corpo, ma sulle connessioni del corpo con altre entità, sulla condizione simbiotica inter e intra attiva del “vivere insieme” umano-non umano. Attraverso il suo ruolo costitutivo nel consentire la mobilità “pericolosa” di agenti patogeni, virus e specie invasive, l’individualità simbiotica è stata politicizzata come una questione di determinazione e controllo dello stato. Le articolazioni contemporanee della cittadinanza biosicura attraversotecnologie di persuasione e controllo, aumentano le coordinatenazionali” della cittadinanza, ricostituiscono l’individualità simbiotica e giustificano la penetrazione dello stato nella sfera privata. La biosicurezza è essenzialmente definita dalla trasgressione bioecologica dei confini politici degli stati nazionali. Mentre gli elementi nazionali sono stati messi in discussione – di fronte alla globalizzazione, al cosmopolitismo e al carattere transnazionale del degrado ambientale e contemporaneamente dagli stessi movimenti transnazionali per la giustizia ambientali e i diritti e la libertà sessuale e riproduttiva (Friday For Future e Non Una di Meno) – la biosicurezza è un’attività che rimodula i confini dello stato nazionale in modo altamente significativo, anche se in modi fratturati. Oggi mentre siamo tutt* consapevolmente in quarantena, per “curarci” e per sostenere gli enormi sforzi di un sistema sanitario al collasso, non possiamo di certo dismettere le armi della critica. Il problema si pone, in un certo senso, non nella “biosicurezza” in sé, ma proprio nella sua connessione tra biosicurezza e potere sovrano, apparato militare, interessi nazionali prioritari… Come non problematizzare la biosicurezza che pattuglia oggi le nostre vite e riflettere in questi giorni drammatici sul significato che essa ha assunto, anche a partire dalle semplici retoriche politico-mediatiche a cui abbiamo assistito riguardo al salvifico “modello Italia”?

Sono molti gli interventi significativi che si interrogano sull’ontologia materiale-relazionale, sulle nostre interconnessioni “con la vita” nella costruzione e comprensione di sé e degli altri, umani e non umani, esplorando e sfidando questi confini prodotti e riprodotti. Con Donna Haraway non possiamo non convenire che questi disastri di “estinzione” che stiamo vivendo sono provocati da un estrattivismo del capitale che sfrenatamente trasforma ogni corpo in risorsa, portando ovunque devastazione e precarietà. Per vivere nelle macerie di questo mondo infetto occorre sollecitare pratiche dal basso, di memoria, di cura e reinvenzione di forme di vita condivise. Creare nuove storie per creare nuovi mondi, un farsi comune nel/del mondo che sappia mettere da parte l’eccezionalismo umano e produca forme inedite di con-divenire, corpi simpoietici fuori dall’individualità e dall’organismo. Un processo di trasformazione e con-divenire di cui la pandemia, come fatto sociale totale, evento straordinario che interrompe il tempo-spazio ordinario, ha iniziato a mostrarci il possibile, nelle pratiche mutualistiche, di aiuto e solidarietà, nei corpi tecnologicamente assemblati  e mostruosamente in relazione.

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