Di MARCO BASCETTA

Primum laborare, deinde vivere, questo il motto sciagurato inscritto sugli stendardi di quel tempo ignoto e oscuro denominato “fase due”.

Ora rinviato di un altro mese, ma non ripensato nei suoi principi e calibrato secondo una logica strettamente commerciale. Certo, la pressione esercitata dai capitani d’azienda per l’immediata ripresa della produzione è stata per il momento respinta, ma solo sulla base di un emergenza tutt’ora estrema.

La sequenza, comunque, non è in questione e non comporta solo il rischio gravissimo imposto ai lavoratori “precettati”. Converrebbe anche rendersi conto che senza vita non c’è mercato.

Che quest’ultimo non è un rapporto tra umani e cose, ma un rapporto sociale. E poiché la sospensione della vita è ormai globale anche l’assenza di mercato lo è. Salvo poche e specifiche filiere. Perfino Confindustria può arrivare a capirlo.

Che il commercio on-line possa aggirare la natura sociale delle merci e del consumo, aldilà di quanto necessario alla sopravvivenza, è un’illusione destinata a deperire molto presto. Cosicché la graduale riapertura, con tutta la prudenza necessaria e le relative misure, non può che essere valutata congiuntamente. Il blocco totale di ogni circolazione delle persone è in contraddizione con qualunque forma, pur limitata e controllata, di ripartenza.

Prescindendo da questo nesso si verrebbe a determinare il desolante scenario di una popolazione ripartita tra monatti-operai certificati e costretti a una produzione dagli sbocchi incerti e la grande massa dei reclusi a tempo indeterminato.

Cosa poi, nel frattempo, possa accadere a una popolazione lungamente privata non solo delle relazioni sociali, ma di ogni rapporto con l’ambiente circostante più vasto delle pareti domestiche e degli scaffali di un supermercato, è un interrogativo che mette i brividi. Questi pochi elementi bastano già a scardinare il nesso, fino ad oggi imperativo, tra lavoro, reddito e diritti (non solo alla salute).

Primum vivere, deinde laborare.

Qualcuno valuta con speranza l’impossibile ritorno alla “normalità”, poiché questa era contrassegnata da ingiustizie, diseguaglianze, sfruttamento. Ma anche prescindendo dal fatto che non serviva certo un virus per smascherarle e che nulla ce ne mette automaticamente al riparo, “normalità” ha anche un altro irrinunciabile significato.

Vale a dire la natura sociale, relazionale, affettiva, corporea, sensibile, dell’animale umano. La sua propensione ad attraversare situazioni e ambienti sempre diversi e a sperimentarvi tutti i suoi cinque sensi.

Quali effetti possa determinare una prolungata privazione di questa “normalità” per una intera popolazione (e per la sua salute in senso pieno), nonché l’assurda demonizzazione dell’aria aperta, è qualcosa che non possiamo prevedere nella sua devastante portata.

Che la dimensione telematica possa riassorbire e restituire tutto questo, o anche solo surrogarlo pro tempore è più che una cattiva utopia, una triste illusione.

Dietro la mimica impoverita, lo sguardo perso nel vuoto, l’ordine sequenziale di ogni comunicazione virtuale si percepisce facilmente questa semplice verità. E poiché altra forma attualmente non ci è concessa (non è una possibilità “in più”, ma molte in meno) lo schermo ci appare più che altro come il parlatoio di un carcere con i suoi orari e le sue regole.

Cosicché il risultato di questa costrizione nel mondo virtuale, più che a un generale apprezzamento delle sue potenzialità condurrà, probabilmente a una reazione di nausea.

Vi è poi la schiera di coloro che riconoscono alla pandemia la virtù di aiutarci a distinguere tra il superfluo e il necessario. Anche volendo forzatamente prescindere dalla labilità e dalle continue mutazioni del confine tra queste due sfere è indubbio che il motto che presiede alla “fase due” rappresenti una interpretazione, apparentemente dominante, di questa distinzione, come del resto la rappresentano le politiche dell’austerità.

La partita che si sta giocando in Europa sugli strumenti con i quali affrontare la crisi pandemica ruota in un certo senso intorno a questa distinzione e al vecchio indecente invito rivolto ai già più svantaggiati di “non vivere al di sopra dei propri mezzi”.

Sullo sfondo della catastrofe la scelta resta, alla fine, nelle mani degli stati e del mercato. Supportati dai rispettivi esperti. Fermo restando che un epidemiologo non è tenuto a sapere come funziona il fondo salva stati e un economista può allegramente ignorare i meccanismi di diffusione dei morbi. Nell’un caso e nell’altro la tentazione a semplificare a favore del proprio punto di osservazione è inevitabile.

Neutralizzare il virus resta compito della ricerca con i suoi tempi e con le risorse che le saranno messe a disposizione. Ma la conivivenza con la minaccia dell’infezione non può che essere oggetto di una discussione attraversata da furibonde contraddizioni, posizioni asimmetriche e interessi divergenti.

Disgraziatamente sembra prendere corpo uno scenario calato sopra la testa di cittadini considerati (e catalogati) prevalentemente come potenziali vittime dell’infezione o come “eroi” loro malgrado.

Laddove ciascuno resterà inchiodato al suo posto e al suo ruolo funzionale, alla sua età anagrafica, alla sua condizione di miseria o di ricchezza. Ognuno con le sue regole e le sue prescrizioni comportamentali. Sempre meno affidate alla responsabilità dei singoli, sempre più alla minaccia della sanzione. Di questo passo il momento dell’insubordinazione non è lontano.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 14 aprile 2020.

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