Di OMID FIROUZI TABAR

Sono passati circa due mesi da quando l’emergenza sanitaria ha investito le nostre vite rimodulando di conseguenza centralità e priorità assegnate ai piani di analisi e discussione su determinati fenomeni e riconfigurando le narrazioni su specifici soggetti e contesti sociali. Colpisce che la tematica delle migrazioni, divenuta negli anni protagonista incontrastata del discorso pubblico mainstream, sia quasi scomparsa dai radar, tendenzialmente non pervenuta. Per circa due mesi dunque milioni di migranti – di cui 100mila richiedenti asilo definiti opportunamente da Nazzarena Zorzella dell’ASGI “i grandi dimenticati” della quarantena in Italia – sono stati letteralmente rimossi dalla scena politico-mediatica, e, qualche eccezione a parte (S.Mezzadra[1], G.Mosconi[2]) piuttosto marginali in quella del sapere e del pensiero critico, spinti aggressivamente in un processo di invisibilizzazione materiale e simbolica raramente esperito in precedenza.

Di rado ne hanno parlato i politici che grandi e infami fortune hanno fatto agitando ogni giorno, prima dell’inizio del contagio, l’allarme immigrazione, producendo e usando le retoriche dell’invasione e attaccando le pratiche solidali dentro e ai confini dell’Italia.

Se ne sono “scordati” i media nelle loro cronache, abituati da tempo a dedicare a loro quotidianamente intere pagine ad alimentare colpevolmente e ferocemente odio e violenza raziale attraverso appositi schemi e dispositivi narrativi di stigmatizzazione.

Se ne sono occupati in misura estremamente ridotta, forse di conseguenza, intellettuali, ricercatori, e giornalisti che solitamente esprimono una certa sensibilità nel decostruire e ribaltare un certo piano del discorso o perlomeno ad arginare l’attacco populista e sovranista che le/i migranti e soprattutto le/i richiedenti subiscono da diverso tempo.

A riprova di questa “rimozione” guardiamo a uno strumento che spesso molto ci dice delle agende pubbliche prioritarie e cioè la ricerca in rete. Facendo banalmente una ricerca su Google in questi mesi i risultati ottenuti sul tema delle migrazioni, dei richiedenti, dell’accoglienza ecc si riferivano in gran parte ad avvenimenti commenti riflessioni datate prima della quarantena.

Le/i migranti sono da anni protagoniste/i dello spazio pubblico-politico-mediatico, perché attraverso l’insistentenza sulle minacce da loro rappresentate, si nutre uno dei più importanti dispositivi del controllo sociale e cioè la produzione di nemici pubblici razzializzati, un dispositivo orientato, in buona parte, a una funzionale cristallizzazione di paure e insicurezze di parte della popolazione autoctona. Un ingranaggio di distrazione di massa che, è sempre utile sottolinearlo, collochiamo pienamente dentro una dimensione strutturale del razzismo che nel tracciare e spacciare certi profili dell’”alterità” si mette al servizio di processi materiali che spesso hanno a che vedere con il tema dello sfruttamento. Socialmente costruiti, per dirla con Nils Christie, come “suitable enemies”, in tali casi criminalizzate/i e “mostrizzate/” in quanto portatori di una intrinseca pericolosità, in altri infantilizzate/i o spinte/i a vestire le tristi vesti della “vittima perfetta” (vedi il richiedente asilo e il suo rapporto con i lavori socialmente utili).

Anche su questo terreno simbolico-percettivo delle narrazioni e rappresentazioni sociali non sembra quella della semplice “esclusione” ad interessare il potere, ma la produzione di soggetti funzionalmente definiti da stereotipi e luoghi comuni. Quello che da tempo avviene non è in verità altro che la trasposizione pubblico-mediatica di quell’osceno dell’inclusione di cui ci parla Nicholas De Genova.  

Ecco però che arriva un blackout, entra in scena il Covid19, nemico invisibile e onnipresente che occupa i palinsesti di tutto il pianeta, che accentra su di sé l’idea, la cognizione stessa della paura, della vita, della morte, del bene e del male. Le migrazioni tutto d’un tratto spariscono perché, probabilmente, due nemici insieme non può funzionare. Sarebbe una fenomenale quadratura del cerchio, dal punto di vista dei dispositivi di controllo, poterli collegare, ma non c’è modo e allora il nemico pubblico per eccellenza della nostra epoca contemporanea da un giorno all’altro si eclissa, su di lui cala il sipario e si passa il testimone al Covid19.

Il racconto pubblico-mediatico di questo nuovo fenomeno plana fin da subito su un tessuto percettivo ampiamente modellato per ottenere reazioni adeguate, dove paure e ansie, emergenze e crisi, stereotipi e mistificazioni si accavallano da tempo le une sulle altre su varie tematiche investendo radicalmente un gran numero di individui ad alta “manipolabilità”. A scanso di equivoci, ci sono un sacco di malpensanti in giro ultimamente, non s’intende qui presentare ipotesi negazioniste, complottiste e via dicendo, del tipo che hanno creato l’allarme, anche mediatico, o addirittura ne hanno sostituito uno con uno nuovo, per neutralizzarci definitivamente dentro lo stato di eccezione ecc, posture che ho sempre osteggiato. Siamo stati e siamo di fronte a un’emergenza sanitaria che non poteva che monopolizzare le agende a livello globale, non è questo il punto, casomai sarebbe da vedere con riflessione critica il genere di narrazione sul Covid19 messo in atto dai media mainstream di mezzo mondo.

Ad ogni modo la “rimozione” di cui stiamo parlando colpisce fortemente, soprattutto per la rapidità e radicalità con cui è stata attivata. Ciò che maggiormente interessa di questo avvenimento sono gli “effetti di potere” che ciò produce molecolarmente nei territori, sulle condizioni delle/i migranti e sul piano più generale delle percezioni e della produzione di senso comune e interessa soprattutto perché dentro le ambivalenze di tali “effetti di potere” dobbiamo cercare nuovi punti di appoggio per farci strada e dare battaglia.

Questo “allentamento” pubblico-mediatico rispetto alla stigmatizzazione delle/dei migranti può essere innanzitutto una buona condizione/occasione per tentare di recuperare terreno sul piano dei processi di de-soggetttivazione e de-politicizzazione che reggono buona parte della retorica populista, sovranista e razzista. Non intendo per questo che dovremmo muoverci per “dare parola” alle/ai migranti rischiando paternalismo e nuove infantilizzazioni oppure, cosa ancor più nefasta, contrastare stereotipi e luoghi comuni di cui sono oggetto con messaggi di mera “re-umanizzazione”, che inevitabilmente sarebbero pericolosa linfa per essenzializzarne le soggettività e spoliticizzarne ulteriormente i profili.  Si tratta del fatto di intensificare e moltiplicare, proprio ora e con il maggior sforzo possibile, saperi critici e messaggi di denuncia contro la sistematica violazione dei diritti e restrizione della libertà che segnano strutturalmente questo campo, e di farlo spingendoci ancora più in là nella sperimentazione di nuovi linguaggi e metodi comunicativi perché non è agli addetti ai lavori che dobbiamo parlare ma a un pubblico molto più vasto, un pubblico forse oggi più predisposto a guardare la luna e non il dito.

E poi più che mai utile e strategico provare a riprenderci questi spazi temporaneamente vuoti per   ricostruire insieme istantanee e racconti capaci di configurare un nuovo regime di verità ricollocando rappresentazioni e narrazioni pubbliche in quel campo di tensioni  e conflitti che – dal Mediterraneo a Ventimiglia passando per i “campi” di sfruttamento, detenzione amministrativa e accoglienza – vede logiche strutturali di assoggettamento e inclusione differenziale intrecciarsi con ribellioni e resistenze molteplici di cui migranti e realtà solidali sono ogni giorno protagonisti.

Non bisogna allo stesso tempo sottovalutare che questo generale silenzio sul tema rischia di isolare ulteriormente soprattutto alcuni segmenti della popolazione migrante presente in Italia e allora riprendere parola a riguardo può essere direttamente utile come pressione sulle istituzioni locali e nazionali per rivolgere maggiori attenzioni a soggetti che per ora non sono considerati in nessuno dei comunque insufficienti ammortizzatori e strumenti di supporto socio-economico.

Alcuni responsabili e operatori sociali intervistati in questo periodo sottolineano come risulti particolarmente critica la situazione nelle strutture di accoglienza dei circa 100.000 richiedenti asilo presenti in Italia. Come succede in molte altre sfere, anche qui l’emergenza sanitaria ha acuito, in alcuni casi spinto all’esasperazione, problematiche di tipo strutturale già da tempo presenti. L’impossibilità di garantire alcuni standard minimi di sicurezza sanitaria (non c’è materialmente spazio nelle strutture per mettere in isolamento persone positive o che presentano sintomi), le conseguenze psicologiche della convivenza forzata e della quarantena vissuta con persone con cui i richiedenti non hanno “scelto” di abitare, ulteriori difficoltà per avere un già problematico accesso ai servizi socio-sanitari del territorio e molti limiti nella possibilità di utilizzare social network e reti, e dunque comunicazioni, telematiche sono solo alcune segnalazioni che sono pervenute.

A essere più volte richiamato è però il tema economico. Molti richiedenti infatti, anche in alcune zone del nord Italia, erano impegnati a svolgere lavori in nero nella logistica, nella ristorazione, nell’edilizia, in agricoltura e nei mercati ortofrutticoli. Ora si trovano senza reddito e privi di ogni tipo di supporto pubblico. Abbiamo verificato che in diversi casi non sono stati neppure destinatari dei buoni spesa la cui erogazione è vincolata alla residenza sul territorio.

Anche chi lavora in questo contesto esprime un forte disagio per un deterioramento delle proprie condizioni già estremamente precarie: in molti casi sono diminuite le ore di lavoro e dunque i redditi percepiti senza per ora alcuna forma specifica di supporto pubblico, ma si presentano anche criticità organizzative: ad esempio in molte Province del Veneto, come Padova, non sono stati comunicati dei protocolli standard per dare chiare indicazioni alle lavoratrici e ai lavoratori soprattutto per la gestione di situazioni di crisi.

Isolamento sociale, gestione emergenziale, abbandono istituzionale per ciò che riguarda i diritti e precarietà sono ingredienti strutturali del mondo dell’accoglienza, costanti che si ripresentano con ancor più forza d’urto in questo particolare momento storico. Contribuire a rendere visibile questo quadro e denunciarlo, come stanno facendo realtà come MSF, il NAGA e l’ASGI, e allo stesso tempo costruire nuove forme di cooperazione e mutualismo che – a partire dalle realtà autorganizzate dei territori e l’appoggio di Amministrazioni locali dove ciò risulta possibile – sappiano coinvolgere i molteplici soggetti che si muovono nell’ambito dell’accoglienza, diventa oggi ancor più urgente e necessario. Ne sono esempio concreto gli sportelli di supporto legale, le scuole di italiano, i progetti di supporto psicologico che in centinaia di contesti territoriali vedono associazioni e realtà autorganizzate impegnate a ri-declinare il concetto di solidarietà e inclusione intorno all’autonomia delle/dei migranti. Chiedere diritti certi e forme adeguate di welfare e dunque permettere un potenziamento di agency e autonomia diventano più che mai oggi condizioni, passaggi strategici, nella prospettiva di mettere in discussione il concetto stesso di accoglienza e l’esistenza stessa delle sue infrastrutture materiali, politiche e culturali.

Come sempre dobbiamo concentrarci prima di tutto su ciò che le/i migranti stesse/i esprimono, sulle tante resistenze che hanno reso negli anni il contesto dell’accoglienza uno spazio aperto di tensioni e negoziazioni, di avanzamenti e arretramenti, e dobbiamo cercare di farlo non soltanto per interpretarle e renderle strategicamente intellegibili in un quadro più ampio, ma per metterci a disposizione di esse, per immaginarle come matrici di relazioni e cooperazioni impreviste.

Senza scordarci di progetti come Mediterranea Saving Humans che insieme ad altre realtà soccorrono e supportano vite proprio nel momento e nel “campo” in cui, di nuovo in termini ambivalenti, s’intrecciano violenza e autonomia, determinazione e sofferenza, potenza soggettiva e morte. Realtà che hanno scelto, con un certo coraggio umano e politico, di stare proprio dove più visibilmente si esprimono le contraddizioni del contemporaneo governo dei movimenti migratori. Sostenere questi progetti è a mio avviso una priorità assoluta delle nostre future agende politiche.

“Il mondo che verrà” dovrà essere anche quello delle città solidali e di relazioni e lotte meticce che sappiano intrecciare opportunamente le linee del genere, della classe e del colore ponendo naturalmente al centro temi decisivi come quello dell’ecologia, della riproduzione sociale e del reddito. Come ci suggerisce Abdelmalek Sayad riprendendo una felice espressione di Marcel Mauss la migrazione si presenta come “fatto sociale totale”, e in quanto tale deve tornare a svolgere un ruolo centrale quando discutiamo e ci organizziamo per ribaltare l’ordine delle cose.  La crisi attuale da sempre più l’impressione di essere anche crisi di sistema, crisi di alcuni modelli di produzione, governance e sviluppo. È dentro le ambivalenze di questa crisi che sarebbe opportuno muoversi anche sul piano dei movimenti migratori.

Bisogna certamente ricordare come ha fatto Giulia Pozzi[3], in una breve ricognizione dei soggetti più a rischio in questa fase, che ai richiedenti asilo si devono aggiungere anche altre figure come le badanti, le/i migranti detenuti nei CPR, e i tanti irregolari sistematicamente utilizzati in nero dentro il quadro del caporalato, i quali vivono segregati in accampamenti informali che hanno le sembianze di baraccopoli e di veri e propri ghetti isolati in periferia e in zone rurali del meridione.

Tra metà e fine aprile, proprio intorno a questi ultimi succede qualcosa di particolarmente significativo che apre le porte per ulteriori riflessioni.

La tendenza alla “rimozione” politico-mediatica del tema si interrompe bruscamente in alcune occasioni e la Ministra Bellanova, appoggiata da individui come Minniti e da molti renziani, e osteggiata da un pezzo di 5 stelle e da Salvini, pone all’attenzione pubblica, fortemente ricambiata dai media, l’urgenza di regolarizzare decine di migliaia di migranti irregolari per compensare attraverso la loro forza lavoro la crisi che colpisce il settore agro-alimentare.

Con la stessa velocità di scomparsa, e aggiungo disinvoltura, le/i migranti tornano su tutte le pagine e i siti dei quotidiani. La Ministra e alcuni membri delle istituzioni politico-economiche non usano giri di parole e con stucchevole spudoratezza affermano che il settore della produzione è in grave crisi, che c’è l’urgenza di rintracciare braccia disponibili (leggi forza lavoro altamente ricattabile e a buon prezzo) e l’utilizzo di qualche centinaia di miglia di clandestini attraverso una temporanea regolarizzazione sarebbe una soluzione adatta.

Ecco allora manifestarsi quella che possiamo considerare la seconda ratio principale che anima il governo delle migrazioni e cioè l’uso funzionale della forza lavoro migrante. Rimanendo sul piano delle rappresentazioni pubbliche ecco che la/il migrante si trova mediaticamente visibilizzato soltanto in una duplice veste, dentro due opzioni caratterizzanti: socialmente ostracizzato, marchiato e costruito in quanto entità minacciosa che mette in pericolo la nostra sicurezza e, in taluni casi, si approfitta in termini parassitari della “nostra” bontà oppure, e talvolta simultaneamente, candidata/o ideale a “coprire” esigenze di manodopera, e più in generale di forza lavoro ad alto coefficiente di sfruttamento. Insomma, detta in altre parole, esisti come nemico e capro espiatorio oppure in quanto parte di una sorta di “esercito di riserva” più che mai in modalità “just in time”, in quanto carne da macello ad altissima ricattabilità che Confindustria, Confagricoltura, Confcommercio e compagna cantante tengono in grande considerazione sfregandosi le mani sporche. Eccola l’inclusione differenziale, nella sua semplice materialità.

La lunga sospensione nei contesti di irregolarizzazione e iper-marginalizzazione non avviene certo con l’obiettivo di cacciare le/i migranti, di escluderli dal gioco o escluderli socialmente nel senso di eliminarli. Il capitale, come non smettono di ricordarci i contributi pubblicati su questo sito, preferisce sussumere, produrre funzionalità a geometrie variabili, estrarre valore come un parassita, integrare creando gerarchie e violente asimmetrie di potere e status. E allora non deve più di tanto sorprendere che 300.000 e più migranti irregolari con ogni probabilità si addormenteranno come pericolosi invasori e si sveglieranno come utile manodopera per tenere in vita un intero settore economico. Gli “utili invasori” gli aveva nominati anni fa Maurizio Ambrosini, un’espressione piuttosto efficace e tuttora valida come chiave interpretativa.

I numerosi scioperi e le proteste che si sono organizzate negli anni e la reazione di molte/i migranti alle parole della Bellanova e della Lamorgese sintetizzate nello slogan “non siamo solo braccia” mostrano come gli “utili invasori” non siano nuda e inerme vita su cui i padroni creano i propri profitti.  Sono certamente voci e pratiche che faticano tuttora a contare nei rapporti di forza e incidere materialmente su scelte e decisioni, ma costituiscono esattamente il piano di riferimento da cui ripartire per connettere i tasselli di un programma politico comune in questa lunga transizione.

Ci sono a proposito altri segnali importanti come la campagna per le regolarizzazioni promossa dall’Asgi e quella per l’attuazione di una sanatoria promossa da LasciateCIEntrare e Meltingpot, due percorsi che pongono l’accento sulla necessità di attuare una misura universale per l’implementazione dei loro diritti e della loro autodeterminazione e non facendo selezioni in base alle esigenze del mercato del lavoro. E allora può diventare un nostro obiettivo politico-programmatico immediato quello dell’allargamento delle maglie di tali regolarizzazioni. Prendere parola e agire su questo tema si presenta così uno strumento per ripensare radicalmente concetti complicati come quello di “cittadinanza” e “inclusione” che troppo spesso prestano il fianco a processi di gerarchizzazione e inferiorizzazione di alcuni soggetti.

Come sostiene in un bell’intervento Federica Passarella[4] “Ci sono volute tonnellate di frutta e verdura a marcire nei campi e agricoltori e imprenditori sull’orlo della disperazione per la mancanza di manodopera perché si cominciasse a parlare di regolarizzazione dei braccianti stranieri”.

Questo uso manipolatorio della rappresentazione sociale della soggettività migrante tende non solo a de-umanizzare migliaia di donne e uomini spogliandole della loro dignità, ma anche a restituire un immagine distorta e mistificata della realtà sociale e delle sue ambivalenze e contraddizioni, presentata al netto della violenza di cui sono intrise le istituzioni e i dispositivi di controllo, ma soprattutto al netto delle resistenze individuali e collettive che la innervano illuminando così la tenacia, l’ostinazione e la potenza dei soggetti nel cercare e materializzare strade di libertà ed emancipazione. In tante e tanti stiamo ragionando insieme della transizione e del “mondo che verrà” provando come sempre a fare fuoco su pieghe, ambivalenze e contraddizioni da cui ripartire per tenere aperto il campo di battaglia. Credo sia importante aprire, all’interno del ricco dibattito in corso, un nuovo fronte di confronto, organizzazione e azione, largo ed eterogeneo, che sappia porre le tematiche qui affrontate al centro della nostra agenda politica.


[1] https://www.euronomade.info/?p=13085

[2] https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/03/24/coronavirus-e-panico-morale/

[3] https://www.lavocedinewyork.com/news/primo-piano/2020/04/04/coronavirus-migranti-e-richiedenti-asilo-dimenticati-su-di-loro-non-ci-sono-dati/

[4] https://thevision.com/attualita/braccianti-regolarizzati-coronavirus/?sez=all&ix=1&fbclid=IwAR30X9_IEaFRhTRiph4Rz4jWO0xc_4doBzxQs7OImP5s2U2xh9TIUcG7aUM

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