Di SANDRO MEZZADRA

È tempo di essere ambiziosi. Il percorso che abbiamo lanciato con l’assemblea del 9 aprile (#ilmondocheverrà), che celebrerà il 21 maggio il suo quarto atto, ha raccolto un grande interesse in Italia e sull’Italia si è in buona misura concentrato. Fin dall’inizio, tuttavia, ha guardato oltre i confini nazionali – e ha in particolare cercato di collocarsi nello spazio europeo. Da qui occorre ripartire, ragionando su una proposta che possa dare consistenza politica a questa dimensione europea della nostra iniziativa.

La pandemia, lo abbiamo detto in molti e molte, segna una profonda cesura dal punto di vista economico, politico, sociale, perfino culturale. Questa cesura investe violentemente l’Europa. Ciò avviene da una parte dal punto di vista geopolitico e geoeconomico. Dietro la retorica corrente della “de-globalizzazione” agiscono tendenze potenti, già in atto da anni, verso un drastico ridimensionamento del potere globale degli USA e verso quella che potremmo chiamare una regionalizzazione dei processi globali – non certo un loro arresto, ma una loro riorganizzazione all’interno di grandi spazi regionali. La cesura prodotta dalla pandemia investe tuttavia l’Europa anche dal punto di vista del suo ordine interno, dei rapporti tra le diverse aree geografiche e tra le forze sociali ed economiche che la compongono. L’Europa è stata tagliata in due dal coronavirus, secondo una progressione geometrica che ricorda quella della crisi finanziaria del 2008 ma che in modo più marcato di allora riproduce la spaccatura all’interno di ciascuno dei Paesi membri coinvolti. Il rifiuto di ogni mediazione sociale sembra oggi accomunare il padronato italiano con quello francese e con quello tedesco, per tacere degli altri.

Nella crisi determinata dal covid-19 l’Europa è apparsa una volta di più come necessaria ed evanescente. Tanto più nella prospettiva di una regionalizzazione dei processi globali a cui si è accennato, è difficile pensare un futuro per gli Stati nazionali europei al di fuori del processo di integrazione su scala continentale. Questo vale certamente per gli attori capitalistici, ma dovrebbe essere chiaro che anche i movimenti degli sfruttati hanno oggettivamente un interesse all’Europa, intesa come spazio in cui l’accumulazione e la circolazione delle risorse configurano una situazione più favorevole per la lotta di classe e per la sperimentazione di politiche sociali ed economiche che si pongano in contraddizione con il dominio del capitale. La stessa gestione della violenta crisi economica conseguente alla pandemia, in particolare nei Paesi più colpiti (come Italia e Spagna), è poi del tutto irrealistica in assenza di un intervento europeo. Mai come oggi l’Europa appare dunque necessaria. E tuttavia, come si diceva, essa è apparsa in questi mesi anche evanescente, con l’incapacità di dare un profilo unitario, politico, alle pur ingenti risorse mobilitate, con l’incertezza sulla composizione e sulle modalità di impiego di queste risorse, con il continuo presentarsi di elementi di blocco a partire dall’iniziativa di Paesi come Olanda e Finlandia, Austria, Danimarca e Svezia. E con la posizione paradossalmente sempre più fragile della Germania nel tentativo di operare una sintesi.

E tuttavia è evidente come a livello europeo si giochi oggi uno scontro durissimo, in fondo non dissimile da quello che caratterizza una situazione come quella italiana. La crisi, con la sua violenza, semplifica gli schieramenti e affina le alternative. Da una parte, c’è la linea del padronato, che punta a usare la crisi per determinare un ulteriore approfondimento delle logiche neo e ordoliberali. La centralità dell’impresa deve essere riaffermata a tutti i costi, stabilendo una volta per tutte la sua primazia sul Welfare dei cittadini e delle cittadine – il che significa, molto concretamente: sulla salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Le politiche sociali devono essere separate dal terreno del salario e del reddito, da quel terreno su cui è possibile strappare riconoscimento e potere. L’impoverimento che già stiamo vivendo e che è destinato ad aumentare in misura drammatica nei prossimi mesi è assunto come occasione per un’ulteriore “liberalizzazione” e riscrittura del diritto del lavoro. Dall’altra parte, ci sono movimenti e comportamenti sociali che, a volte trovando una sponda a livello politico e perfino in strutture dello Stato, spingono per rovesciare l’ordine di priorità delle forze padronali, per imporre la centralità del Welfare come terreno di lotta e di nuova fondazione “costituzionale” dell’Europa. Il Welfare come terreno di lotta, appunto: non semplicemente come soluzione istituzionale data, considerato che esistono molte realizzazioni storiche del Welfare, in buona misura costruite a partire da basi materiali che non esistono più (il cosiddetto “fordismo”) e comunque tutte segnate da tendenze profondamente paternalistiche (e in un caso come quello italiano familistiche).

Il problema che, sullo sfondo di questo scontro, si pone alla nostra parte in Europa è certo in primo luogo quello di conquistare forza attraverso l’internità alle lotte che si determinano. Ma è anche un problema di innovazione politica e anche istituzionale. E decisivo risulta da questo punto di vista il nesso tra lotte sul Welfare e lotte sul salario e sul reddito, nella prospettiva di assumere – facendo tesoro della lezione femminista – la riproduzione sociale come chiave per ripensare la stessa produzione e la nozione di ricchezza. Il concetto di cura, messo alla prova nel contesto della pandemia, appare qui di decisiva importanza. In ogni caso, se la descrizione degli schieramenti in campo e dello scontro in atto in Europa ha una qualche plausibilità, è evidente l’urgenza di una chiamata a raccolta delle forze politiche, di movimento, intellettuali che – pur da posizioni diverse – si riconoscono in quello che potremmo definire, con formula cara a Étienne Balibar, un europeismo della libertà e dell’uguaglianza. Queste forze sono tutt’altro che residuali, presentano una grande articolazione e diffusione geografica nei principali Paesi membri dell’Unione europea. Mancano tuttavia oggi, più che in passato, di uno spazio di convergenza, che ne possa amplificare la voce e rendere politicamente efficaci le posizioni.

È alla costruzione di uno spazio di convergenza di questo tipo che dobbiamo lavorare. E in primo luogo occorre verificare la possibilità di comporre un “comitato promotore” fin da principio transnazionale, che convochi intanto una grande assemblea europea. L’obiettivo, è bene esplicitarlo, non dovrebbe essere quello di costruire l’ennesimo coordinamento dei movimenti europei (già ne esistono diversi, che lavorano spesso con grande efficacia su singoli temi e campagne). In passato abbiamo spesso commesso l’errore di immaginare i coordinamenti europei dei movimenti sul modello dei coordinamenti nazionali: occorre prendere congedo da questo errore. La conquista della dimensione europea dell’azione politica dei movimenti non passa necessariamente attraverso la costruzione di mobilitazioni europee (che pure possono essere importanti in determinate occasioni). Ci sono certamente anche oggi grandi movimenti che si esprimono direttamente sul terreno transnazionale e che investono dunque anche lo spazio europeo: basti pensare al movimento femminista e al movimento ecologista. Questi movimenti sono ovviamente essenziali. Ma dobbiamo anche imparare a leggere la dimensione europea in lotte locali e nazionali, dotandoci degli strumenti che ci consentano di amplificare questa dimensione attraverso la moltiplicazione di incontri e confronti europei. Parlare di uno spazio di convergenza significa questo, significa immaginare la costituzione di un foro europeo aperto all’attraversamento da parte di lotte e movimenti, forze politiche e intellettuali. Con l’obiettivo di formulare elementi di programma che possano essere appropriati e tradotti in pratica in circostanze eterogenee quali sono quelle che compongono l’Europa.

È possibile cominciare a immaginare gli assi fondamentali attorno a cui potrebbe essere convocata l’assemblea europea (e attorno a cui potrebbe lavorare il foro europeo). Diamo di seguito qualche esemplificazione, per aprire la discussione.

i. Un’analisi critica dell’assetto delle istituzioni europee (comprendendo tra esse naturalmente la Banca Centrale Europea) si presenta come particolarmente urgente. È possibile (e auspicabile) immaginare e praticare una forzatura federalista in questo assetto? Quel che appare evidente è in ogni caso che senza rimuovere gli elementi di blocco, le condizionalità, i parametri che orientano le politiche europee, da quelle monetarie a quelle fiscali, non sarà possibile liberare le risorse necessarie per una nuova fondazione dell’Europa attorno alla priorità di un Welfare da reinventare. Ed è in questo senso che va affrontata anche la grande questione dei processi di finanziarizzazione e della possibilità di “regolare” i movimenti del capitale finanziario.

ii. Attorno a questo Welfare da reinventare è urgente rilanciare la discussione. Il principio femminista della cura, si diceva poc’anzi, può essere assunto in termini molto generali come criterio fondamentale per immaginare in modo nuovo le politiche sull’istruzione, sulla sanità, sull’abitare. Una cura evidentemente non unilaterale (dall’alto verso il basso) ma piuttosto capace di mettere al centro l’elemento della reciprocità e della relazione. Parlare di Welfare significa in ogni caso parlare al tempo stesso di lavoro, di salario e di reddito. Il tempo della pandemia ha rivelato quanto composito sia quel lavoro “essenziale” senza il quale la riproduzione sociale si blocca: lavoratrici e lavoratori della sanità, certo, ma anche riders e operai di fabbrica, lavoratrici e lavoratori della logistica e braccianti migranti al lavoro nei campi. Dalle rivendicazioni e dalle lotte di queste figure occorre ripartire per definire un quadro della composizione del lavoro vivo contemporaneo. E per affermare il principio secondo cui non c’è nuovo Welfare senza conquiste al tempo stesso sul terreno del salario e del reddito.

iii. Il tema della riconversione ecologica non può che essere al centro della discussione europea. Attorno al Green New Deal si sono spese negli ultimi anni molte parole, ma siamo ben lungi dalla formulazione di un coerente progetto a livello europeo. I movimenti ecologisti degli ultimi anni hanno a questo proposito formulato una serie di proposte da cui è possibile partire per definire elementi di programma che combinino critica del capitalismo e ridefinizione complessiva del significato dello “sviluppo”. Lungi dall’incentivare atteggiamenti moralistici e austeri o dall’aprire nuovi spazi di investimento per un capitale green, il tema della riconversione ecologica va assunto come una straordinaria occasione per ripensare complessivamente il funzionamento dell’economia.

iv. La questione della migrazione e dei confini continua a essere fondamentale in Europa. Anche durante la pandemia, centinaia di migranti hanno continuato ad attraversare il Mediterraneo, e la “strage di pasquetta” (con la morte di 12 persone nel Mediterraneo centrale, con evidenti responsabilità tanto della autorità maltesi quanto di quelle europee) indica una sinistra continuità delle politiche europee sui confini. Sono per fortuna molte le reti che lavorano in Europa su questi temi (e fondamentale è a questo proposito il ruolo di “Mediterranea”). Si tratta di riprendere, rilanciare, potenziare il lavoro di queste reti, assumendo il tema delle migrazioni e dei confini come tema cruciale per cominciare a progettare un’Europa a venire. È il caso di ribadire che da una parte attorno ai confini si giocano partite decisive per il rapporto dell’Europa con gli spazi al suo esterno, mentre dall’altra i confini – con il loro portato di violenza – si re-inscrivono all’interno dell’Europa e della sua cittadinanza. I movimenti e le lotte dei migranti sono dunque fondamentali sia per immaginare una diversa politica dell’Europa nel mondo sia per intervenire sulla qualità della cittadinanza e della democrazia in Europa.

v. Un ultimo tema qui indicato (ne restano naturalmente moltissimi altri) è quello dei saperi. Certo, l’istruzione è una componente essenziale del Welfare, e di sapere si discuterà a quel proposito. La pandemia ha tuttavia evidenziato una rilevanza della questione del sapere (della scienza) che merita una attenzione specifica. Dobbiamo prendere sul serio la prospettiva che epidemie e pandemie possano ripetersi nei prossimi anni: viviamo pur sempre in un “pianeta infetto”, per riprendere Donna Haraway. Da questo punto di vista il problema della democratizzazione del sapere, di campagne di alfabetizzazione scientifica di massa che consentano ai cittadini e alle cittadine di non dipendere unilateralmente dagli “esperti” si pone con grande forza. Cruciale è qui evidentemente il coinvolgimento di scienziati e scienziate che vogliano mettersi in gioco in questo processo di democratizzazione della scienza e dei saperi, di cui non può sfuggire la rilevanza anche ad altri riguardi (si pensi al funzionamento delle piattaforme digitali e delle app, per fare un esempio ovvio).

Cinque assi per un’assemblea europea da convocare in una dimensione immediatamente transnazionale. Si tratta di costituire intanto un comitato promotore. E vale la pena ripetere che i cinque assi delineati sono meramente esemplificativi – per quanto certamente indichino temi cruciali per la discussione politica europea. Si potrà variare ampiamente sull’agenda proposta. L’importante è condividere l’urgenza e lo spirito dell’iniziativa. Sono note le parole di Jean Monnet, uno dei padri dell’integrazione europea: “l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi”. Bene, di fronte alla crisi più profonda della sua storia le soluzioni che si profilano in Europa sono diverse, ed esiste tra loro un essenziale antagonismo. Sappiamo da che parte stare – dalla parte dell’Europa della libertà e dell’uguaglianza, del comune e della cura.

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