Presentiamo qui gli articoli che compongono il Quaderno di EuroNomade dedicato al Contropotere. Il Quaderno può essere scaricato cliccando qui o sull’immagine di copertina in calce.


Di ROBERTA POMPILI

L’obiettivo di questo articolo è ripercorrere alcune tematiche e questioni principali che hanno fatto emergere aspetti cruciali nella produzione del discorso e delle pratiche del movimento femminista e che hanno posto le basi per la costituzione di un altro potere, o meglio di un contropotere. Mi concentrerò per questo motivo sinteticamente per prima cosa nel delineare alcuni nodi del dibattito sulla riproduzione, offrirò in seguito alcune suggestioni della valenza/potenza affermativa del pensiero e della pratica femminista e concluderò con alcune note sullo sciopero femminista transnazionale.

Gli studi sulla riproduzione. Appunti dentro una genealogia

La riproduzione. Nel primo libro del Il capitale Marx[1] osserva come nel sistema di produzione capitalistico la forza-lavoro sia l’unica merce che si distingue dalle altre merci per il fatto che crea valore e valore maggiore di quanto essa costi. Per essere scambiata con il salario la merce deve presentarsi sul mercato al massimo delle sue potenzialità, in altri termini un “uomo” deve essere nutrito, lavato, vestito…  Ma nel rapporto di produzione capitalistico la tendenza è quella di ridurre le spese legate alla riproduzione della forza-lavoro. Per tenere ragionevolmente basso il salario il lavoro domestico non viene retribuito. Si deduce che il lavoro riproduttivo, meglio ancora quello domestico il cui compito è storicamente legato alle donne, è legato alla produzione e riproduzione della forza-lavoro e partecipa al processo di valorizzazione della merce forza-lavoro e alla creazione di plusvalore. Negli anni ’70 in Italia si sviluppa un intenso dibattito che vede protagoniste le donne, le stesse che in quegli anni stanno dando vita ad un movimento autonomo di lotta che vedrà al centro delle proprie rivendicazioni il cambiamento dei rapporti personali dentro e fuori la famiglia. Un breve motto sintetizza la portata rivoluzionaria di quelle istanze. “Il personale è politico”. Le teorie marxiste e la sinistra tutta avevano dedicato fino ad allora scarsa attenzione alle dinamiche di sfruttamento e di oppressione dentro la dimensione del genere. Il lavoro domestico e riproduttivo diventa centrale nel dibattito del femminismo: viene restituita una valenza economica, politica e sociale forte a ciò che per i più era sempre stato considerato un non lavoro, per la sinistra una mera produzione di valori di uso risalente a forme pre-capitaliste.

Divisione e gerarchizzazione del capitale. Uno dei primi testi importanti è quello di Maria Rosa dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale (1972)[2]. In questo testo si mette in discussione per la prima volta la classica posizione marxista secondo cui il lavoro domestico non sarebbe “produttivo”. Dalla Costa sottolinea che ciò che produce la casalinga nella famiglia non sono semplicemente “valori di uso”, bensì è la merce forza –lavoro che poi il marito può vendere come libero lavoratore salariato, sul mercato del lavoro: la produttività della donna è quindi premessa per la produttività del lavoratore salariato (maschile). Con il concorso dello stato e del suo apparato legislativo, le donne sono state rinchiuse nelle famiglie nucleari, isolate le une dalle altre: il loro lavoro in questo ambito è stato reso socialmente invisibile e definito non produttivo. Esso appare sotto le forme dell’amore, dell’assistenza, della dedizione, della maternità e della coppia. Dalla Costa respinge la divisione artificiale e la gerarchizzazione che il capitale ha creato tra i lavoratori salariati da un lato e chi non lo è dall’altro evidenziando come tradizionalmente su questa linea si sono inserite le analisi che hanno svalorizzato contemporaneamente le capacità di coloro che non percepiscono salario di produrre potenza e conflitto. Sulle basi di questa Dalla Costa critica l’idea che le donne siano solo oppresse: poiché il capitale è nella condizione di disporre del lavoro non pagato della casalinga, cosi come del lavoro retribuito del lavoratore salariato, la schiavitù domestica delle donne viene chiamata sfruttamento. Non si può comprendere lo sfruttamento de lavoro salariato senza tenere conto dello sfruttamento del lavoro non salariato: in quegli anni esce in Inghilterra il saggio di Selma James come strategia la campagna del salario al lavoro domestico e in Italia uscì Contropiano dalle cucine di Silvia Federici[3].

Il salario come mezzo del comando. Un contributo molto importante su questo tema sempre in quegli anni, è quello di Alisa del Re[4]. Alisa del Re è interessata a stabilire quanto del lavoro domestico è strutturale quindi non è mutato nei vari sistemi economici e quanto invece è funzionale al modo di produzione capitalistico. La forza lavoro, la capacità dell’individuo sia fisica che intellettuale, che gli permette di produrre valori d’uso è una merce che viene scambiato con il salario, ma questo scambio è possibile solo se questa forza lavoro è continuamente riprodotta, cioè se continuamente sono riprodotte le attitudini che permettono all’individuo di reintrodursi nel processo produttivo. Ed è proprio per questo aspetto che la forza-lavoro è merce speciale, perché ha dietro qualcuno che la riproduce in continuazione: le donne. A questo proposito si pone il problema fondamentale, cioè di stabilire quali sono i punti di interazione tra il rapporto capitalistico del lavoro salariato e il rapporto di riproduzione della forza-lavoro. Il lavoro di riproduzione viene svolto dalle donne in un rapporto particolare all’interno del rapporto di produzione dominante, anche se per come si manifesta e si struttura nel lavoro domestico pare sia determinato più da fattori naturali, biologici che situazioni storicamente determinate. Alisa del Re attraverso l’analisi del salario del lavoratore indica la stretta dipendenza del lavoro produttivo dalla riproduzione. Apparentemente nello scambio tra forza lavoro e salario il lavoro della riproduzione pare non venga preso in considerazione, ma ad un’analisi più precisa della struttura salariale risulta invece che la riproduzione è considerata in qualche modo e questo denota la prima interazione con il rapporto di produzione dominante. Innanzitutto parlare di salario significa indicare le forme con cui viene erogato: il salario diretto cioè una quantità di denaro data direttamente al lavoratore e che non corrisponde a tutto il valore prodotto con la vendita della forza lavoro, il salario indiretto cioè la parte corrispondente alle merci-servizio, e il salario differito corrispondenti alle merci-servizio differite nel tempo. Il salario indiretto si manifesta sotto forma di servizi come scuole, ospedali trasporti che sono utilizzati non solo dai lavoratori coinvolti nel rapporto capitalistico di produzione ma anche dalle loro famiglie e questa forma di salario se è indiretta per il lavoratore è diretta per coloro che svolgono il lavoro legato alla riproduzione come l’allevamento dei figli, l’assistenza agli anziani, l’assistenza ai lavoratori dopo ore di lavoro e tutti i compiti connessi alla cura e alla vita della famiglia. Quindi esiste una fatica legata alla riproduzione ed il fatto che questa sia indirettamente riconosciuta è evidente dopo avere individuato queste precise quote di salario.

La critica femminista al welfare. Il lungo lavoro di ricerca iniziato negli anni ’70 è stato importante e conserva elementi significativi per la critica del presente. Per Laura Balbo, per esempio, l’attività delle donne è intesa come produzione di servizi per soddisfare i bisogni della famiglia. In Stato di famiglia (1976)[5] viene messo in evidenza il ruolo importante delle donne nella famiglia in quanto mediazione tra le risorse disponibili e i bisogni espressi dagli individui. Balbo elabora alcune specificazioni storiche evidenziando come il lavoro domestico è sempre stato legato ai bisogni da soddisfare all’interno della famiglia, ma che solo nella società contemporanea a capitalismo avanzato la questione dei bisogni ha assunto una valenza politica. I mutamenti del sistema familiare, infatti, sono mutamenti paralleli del sistema produttivo. Con il capitalismo si opera una scissione tra il lavoro produttivo e improduttivo, pubblico e privato e da quel momento per individuare come si sono strutturati il maschile e il femminile diventa importante la struttura familiare, non solo perché in essa si ha la prima adesione al modello di genere/sesso, ma perché è al suo interno che la figura femminile opera la grande mediazioni tra dentro e fuori. È opportuno a questo proposito indagare sul modo in cui si organizzano la vita, i rapporti e soprattutto il lavoro all’interno della nella famiglia nella fase di capitalismo avanzato. Per Balbo innanzitutto la mutazione del lavoro in fabbrica ha portato il lavoratore a richiedere non solo la riproduzione della sua forza lavoro, ma anche favorevoli condizioni psicologiche. E se le domande all’organizzazione familiare sono aumentate, oltre che qualitativamente mutate, ciò non dipende solo dalle mutazioni del sistema produttivo. Per prima cosa le lotte per migliori condizioni di lavoro e per interventi di carattere assistenziale e legislativo, intorno alla prima metà del XX secolo hanno dato l’avvio ad un lento miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne. Parallelamente l’elaborazione dei nuovi e diversi bisogni, fenomeno caratteristico delle società industriali, ha portato una diffusione tendenzialmente omogenea di nuovi e sempre più avanzati modelli di vita. Ne consegue un alto livello di conflittualità. Il desiderio di adeguarsi a questi modelli attraversa infatti tutte le classi sociali indipendentemente dalla possibilità di soddisfare i propri bisogni, con la definizione di una forte discrepanza tra l’accesso alle risorse e le proprie necessità. Non solo quindi si richiedono migliori condizioni di lavoro, ma devono essere garantite anche le possibilità di usufruire delle strutture sanitarie o scolastiche, di avere più tempo per vivere i propri affetti. Da qui l’intervento statale secondo le norme del Welfare State, che tuttavia non ha mai garantito una piena ed equa soddisfazione dei bisogni, perché si è continuato a vedere la famiglia e il lavoro gratuito delle donne come ambito privilegiato di cura e assistenza alla persona e contemporaneamente il lavoro di mediazione tra la struttura familiare e l’istituzione statale.

Genere, Corpo, biopolitica. Nel 1975 il testo di Gayle Rubin[6], sul sex gender system introduce negli studi della riproduzione/produzione l’approccio di genere che consente a Chiara Saraceno[7] ad esempio si riflettere sulla diversità di allocazione del tempo da parte delle donne che comporta per loro una doppia presenza nell’ambito della sfera produttiva e riproduttiva. In altri termini il lavoro familiare è frammentato e continuo e si caratterizza come tempo di lavoro “psichico”, continua organizzazione e riorganizzazione della vita familiare e dei suoi bisogni che non è misurabile al pari del tempo del lavoro remunerato. Nella fase attuale di accumulazione capitalista il lavoro della riproduzione è tracimato nella produzione e assunto una nuova centralità: la femminilizzazione del lavoro ha a che fare con i dispositivi di invisibilizzazione, precarietà (assenza di salario), differenziali di sfruttamento che ormai occupano la scena del lavoro nella sua complessità (Morini)[8]. Nel suo recente lavoro Veronica Gago[9] teorica e animatrice dei movimenti femministi latinoamericani di Non Una di Meno, evidenzia come oggi la forma del comando del denaro – come cattura del potere e appropriazione di ciò che i corpi possono- abbia raggiunto la deriva più astratta, quella espressa nei dispositivi finanziari/estrattivisti che producono condizioni di assoggettamento attraverso l’indebitamento della filiera riproduttiva.

In questo breve excursus abbiamo potuto esaminare il lavoro delle teoriche femministe che hanno, dunque, evidenziato la rottura della legge del valore nel rapporto produzione e riproduzione e l’emergere del tema dei corpi messi al lavoro: il salario si pone come elemento del comando – l’astrazione della moneta del capitale – sul lavoro salariato e su quello gratuito riproduttivo delle donne (il salario patriarcale del breadwinner vedi anche Federici). La lotta e la critica femminista sono riusciti a fare emergere una condizione comune delle donne evidenziando le situazioni di sfruttamento e oppressione, oltre la misura remunerativa del salario, oltre il terreno privilegiato della fabbrica. La stagione di lotte che si è aperta si è posta nella direzione di rompere il confinamento delle donne nelle case, mettere in discussione la famiglia patriarcale eterosessuale, restituire potenza ai corpi e ai loro desideri. In altri termini rivendicare e praticare autonomia del sé dentro la relazione con le altre donne e in aperta opposizione contro tutte le forme di gerarchizzazione/oppressione/sfruttamento del capitale. La trasversalità del femminismo è stata la chiave che ha messo in discussione i meccanismi con cui si produceva (e si produce) la segmentazione del lavoro vivo: unire ciò che il capitale divide, uno strumento importante che costruisce un dualismo di potere, mentre trasforma l’idea stessa potere.

Femminismo e spiritualità politica. Potenza versus potere

Sul tema della riproduzione è esistita negli anni ‘70 un’ampia e feconda trattazione negli studi antropologi ed etnologici (Meillassoux[10], Godelier[11] per esempio, ma anche e soprattutto le antropologhe femministe vedi Tabet[12]). L’aspetto che ci interessa osservare in questo momento è il lavoro riproduttivo dentro la costruzione di immaginari. Soffermandoci con l’analisi dei saggi qui di seguito, non vogliamo suggerire la persistenza di un eterno femminino legato alla maternità, piuttosto essi ci servono per interrogarci sul rapporto che esiste tra produzione di immaginari, corporeità ed esperienza incarnata.

Tilde Gianni Gallino nel suo saggio Le grandi madri dalla raccolta omonima da lei curata[13], ci illustra la figura di questa divinità suprema, detentrice del segreto della vita e della fertilità. Il mito si sviluppa in un contesto culturale in cui solo la donna sembra mostrare in maniera concreta ed evidente le sue capacità riproduttive – si ingravida, partorisce e allatta – capacità che l’uomo sembra non possedere. Basti ricordare che il ruolo maschile della procreazione è stato messo in luce solo alla fine del diciannovesimo secolo. Sono molti gli autori e le autrici che pensano che le donne abbiano avuto un ruolo importante nella agricoltura. Questo perché provvedendo alle operazioni di raccolta di radici e piante, acquisirono una conoscenza del territorio, un vasto sapere utile a far crescere con successo i primi cereali. Anche i miti dell’antichità attribuiscono alle grandi madri la nascita dell’agricoltura, e accanto ad essa l’arte della medicina (della repressione di questa potenza nella prima fase di accumulazione del capitale si è occupata Silvia Federici nel Il Grande Calibano e la strega[14]). Gallino sostiene che in questo senso la presenza di tali divinità testimoni un’epoca influenzata culturalmente dalla poliedrica fenomenologia del femminile, ispirata alla creatività della donna, senza che si debba parlare di potere ginocentrato. Anzi si spinge oltre ipotizzando che l’idea stessa di potere come lo conosciamo con le caratteristiche di competitività e aggressività si sia originato piuttosto dentro un’idea maschile. Sempre nell’ambito della fenomenologia e della psicologia religiosa Ida Magli[15], scrivendo in un periodo molto lontano da quello in cui avrebbe assunto le posizioni che purtroppo l’hanno fatta conoscere ad un vasto pubblico, propone una lettura del significato e del valore del lavoro femminile, individuando nelle diverse civiltà un aspetto comune che riguarda la donna: il senso di potenza femminile nel quale un elemento fondamentale è costituito dalla maternità. Per Magli la maternità, intesa sacralmente come possibilità di realizzazione di potenza, può diventare per le donne lo scopo ultimo della vita, quello per il quale si accettano tutte le limitazioni, tutti i tabù, l’impotenza in tutte le forme. Il lavoro, dunque, rappresenta un momento centrale della vita umana, in esso si dispiega la sua potenzialità. Ma mentre per le sue caratteristiche intrinseche la donna può assumere il lavoro come conferma delle sue potenzialità interne, al contrario l’uomo lo assume come scoperta di possibilità fuori di sé. Secondo l’autrice la donna quindi è legata a una concezione sacrale che ha di sé stessa nella relazione di responsabilità con il mondo e la vita, in questo senso si può dire che la donna possiede una pertinenza religiosa maggiore dell’uomo. Lungi dal volere dare un’idea cristallizzata o essenzializzata del femminile o vagliare un qualche “impero del ventre”, abbiamo cercato di introdurre qualche suggestione – seppure legata ad una vecchia e in parte discutibile letteratura – e fare emergere la tematica della dimensione simbolico/sacra nel lavoro domestico e riproduttivo, con la consapevolezza della sua estrema variabilità e differenza con cui questo si produce nel processo storico e nelle diverse latitudini del mondo.

Utilizzare d’altra parte questo piano di lettura ci proietta verso un nuovo approccio con cui leggiamo la cura nella relazione con la corporeità, un piano olistico che ci aiuta a comprendere il salto di soggettività (e la sua potenza) che si è espresso nel recente ciclo di mobilitazioni femministe transnazionali di Non Una di Meno, in cui il piano di costruzione e innovazione politica-immaginativa è stato importante.

La questione della spiritualità politica – un riferimento a questo tema è il lavoro incompiuto di Foucault del 1979[16] – è d’altra parte un piano su cui si sono concentrate molteplici riflessioni femministe: le stesse evidenziano l’emersione di una soggettività politica che si muove dentro la riproduzione affermando per le donne un senso di appartenenza al mondo e al divenire della vita fuori dalla logica delle pari opportunità che le imbriglia dentro una cittadinanza mai possibile a realizzarsi. D’altra parte, come le lotte delle femministe da Wollstonecraft in poi hanno denunciato, il processo di secolarizzazione introdotto dall’illuminismo non ha mai aperto ai diritti fondamentali e al riconoscimento dell’autonomia delle donne, né superato il contratto sociale/sessuale (Pateman, 1988)[17] su cui si fonda la società.

Rosi Braidotti nel suo articolo In spite of the times: the postsecular turn in feminism[18] si è soffermata ad indicare un filo rosso che collega i lavori di molte autrici a partire Audre Lorde, Alice Walker, Adrienn Rich, che conoscono l’importanza della dimensione spirituale delle donne nella lotta per l’eguaglianza e il riconoscimento simbolico. Non solo la letteratura afro-americana delle donne e gli studi postcoloniali non sono mai stati particolarmente secolari. Ed anche nel recente filone femminista che si innesta nella teoria poststrutturalita (Donna Haraway, Butler, ad esempio) leggiamo chiaramente tracce residue di spiritualità e l’ascesa contemporanea di un pensiero neo-vitalista ridefinito come filosofia dei flussi e dei flussi della vita, in cui è centrale per una visione materialista e non unitaria della soggettività, che valorizza la relazione come affermazione reciproca e creativa e non come riconoscimento dell’identità (pensiamo ad esempio alla co-responsability versus il binarismo paradigmatico amico-nemico).

Se il capitalismo contemporaneo è “biopolitico” in quanto mira a controllare tutto ciò che vive e mira a sfruttare i poteri generativi di donne, animali, piante, geni e cellule il femminismo contemporaneo (queer, antirazzista, ecologista) si muove nella direzione di nuove alleanze per futuri possibili. Un femminismo animato da un’etica trasformativa che assume il futuro in modo decisivo come immaginario condiviso collettivo, nelle diverse sperimentazioni ed innovazioni dell’io sessualizzato e che proietta nei processi di divenire, nelle molteplici modalità di interazione con altri eterogenei. Questo femminismo ha un progetto sociale, parafrasando Braidotti si tratta di un atto di “fede” nella possibilità di perseveranza della presenza, come durata, continuità e che si assume un compito verso le generazioni a venire.

Lo sciopero femminista della riproduzione

«Se, quindi, la rivoluzione russa ci insegna qualcosa, insegna soprattutto che lo sciopero di massa non è artificialmente “fatto”, non “deciso” a caso, non “propagato”, ma che si tratta di un fenomeno storico, che, in un dato momento, risulta da condizioni sociali con inevitabilità storica. Non si tratta quindi di speculazioni astratte sulla possibilità o impossibilità, sull’utilità o sull’ingiustizia dello sciopero di massa, ma solo da un esame di quei fattori e condizioni sociali da cui lo sciopero di massa cresce nell’attuale fase della classe.» (R. Luxemburg, traduzione dell’autrice)[19]

Le mobilitazioni femministe moltitudinarie che si sono date negli ultimi anni a partire dalla lotta contro i femminicidi in latinoamerica hanno fatto emergere le innumerevoli violenze fisiche, psicologiche, materiali in cui sono immerse le donne e i soggetti femminilizzati. Le femministe latinoamericane hanno riletto la violenza sul corpo delle donne, come violenza predatoria del capitalismo contemporaneo sui corpi-territori, evidenziando l’inevitabile intreccio di potere e sfruttamento dell’uomo bianco borghese e coloniale, sulle donne e contemporaneamente sui territori. Nella fase del capitalismo estrattivo, ancora una volta le donne vengono rinvestite della violenza della accumulazione originaria, cosi come gli stessi territori-natura-ambiente. Il movimento femminista transnazionale è il prodotto di una intelligenza collettiva che si è mobilitata e rappresenta una straordinaria potenza e capacità strategica in grado di affermare con forza un materialismo che si oppone alle attuali forme di sfruttamento di tutto il lavoro vivo. Anche in Italia Non una di meno rappresenta uno spazio politico, un dispositivo aperto, un flusso di co-produzione del “noi”: strumento di inclusione affettiva e razionale. Questo incubatore di nuova soggettività opera per la costruzione di una potenza comune e non per la semplice giustapposizione della somma dei singoli e dei gruppi. La pratica femminista d’altra parte tende ad essere interattiva, flessibile ed empatica, si basa sul consenso e la fiducia reciproca, privilegia il lavoro di gruppo, la partecipazione e la condivisione. Fuori dalla dittatura identitaria, questo femminismo annuncia il soggetto donna in quanto “soggetto politico”, che come un caleidoscopio rompe con l’universale soggetto neutrale per aprire spazio alla molteplicità delle differenze subalternizzate, sfruttate, oppresse. Lo ribadisce non solo la presenza protagonista delle reti del transfemminismo queer, ma la stessa attenzione ai confini come dispositivi di razzializzazione, controllo, di assoggettamento e di cattura di valore. Le mobilitazioni si snodano lungo l’arco dell’anno e i nodi locali producono incontri, seminari, azioni, battaglie comunicative, alleanze trasversali in tutti i settori del lavoro e della vita. Un’eterogeneità di intrecci, di reti, di tessiture che fanno emergere una nuova soggettività che si misura nelle pratiche e nella produzione di discorsi dentro e fuori i network sociali. La politica affermativa del femminismo costruisce conflitto, ma è anche produttiva dentro la negoziazione. Uno dei nodi nella mappa del movimento femminista è la rete dei Centri antiviolenza nazionale (DIRE), risultato di un lungo lavoro di impresa, cooperazione e mutualismo dentro il crinale della relazione/tensione nei confronti delle istituzioni dello stato. Eterogenei, differenti tra loro i Centri antiviolenza, luoghi di donne e per donne hanno rappresentato per lungo tempo un terreno di frontiera in cui l’operatività del femminismo ha continuato a produrre pratiche di sostegno per donne e saperi situati, scontrandosi negli anni con le trasformazioni del sistema sociale economico e politico. I Centri antiviolenza hanno sempre rifiutato di “istituzionalizzarsi”, o meglio omologarsi nella rete dei servizi all’interno del welfare statale, rivendicando la propria parzialità, la propria autonomia, a sostegno della libertà e dell’autodeterminazione delle donne. L’orizzonte dello sciopero biopolitico dell’8 marzo apre ad una cartografia di intrecci, connessioni, combinazioni in un divenire processuale che si catalizza nella sua materialità ed efficacia intorno all’evento-simbolo, che nella sua ritualità si ripete ogni anno e in cui convergono e si amplificano in potenza innumerevoli assemblaggi di gruppi, singoli e insieme saperi critici. Le nuove soggettività femministe del capitalismo cognitivo hanno riattualizzato l’inchiesta operaia e femminista degli anni ’70, sperimentando insieme a esperienze di mutualismo laboratori di inchiesta e auto-inchiesta. E d’altra parte il metodo dell’inchiesta femminista, come ci ricorda Alisa del Re[20], è un sempre un partire da sé, frutto della produzione di soggettività delle lotte femministe dentro le responsabilità della riproduzione e la cura, ma fuori dalle imposizioni di “ruoli naturali”, della famiglia, del “privato”, dell’amore e della felicità domestica. Per Rosa Luxemburg ogni sciopero contiene un pensiero politico, come ricorda anche Veronica Gago, esso è un processo e non un evento isolato che intreccia molteplici fattori economico, politico, materiale e psichico e ha il ritmo della moltiplicazione di elementi, una composizione di ritmi, affluenti, velocità e flussi. Come si fa uno sciopero della cura? Come si fa uno sciopero del genere e dal genere? Le assemblee diventano insieme invenzione ed assemblaggio, produzione e ricombinazione di immaginari. La costruzione di questo piano di lavoro risponde all’esigenza di costruire una durata: è in questo che gli assemblaggi si rivelano una costruzione di contropotere, o almeno vi accennano e contemporaneamente modificano la grammatica delle soggettività di cui il contropotere è costruito.


Note:

[1] K. Marx, Il capitale, Torino, Einaudi, 1975.

[2] M. R. Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale, Padova, Marsilio, 1972.

[3] S. Federici, Contropiano dalle cucine, Padova, Marsilio, 1978.

[4] A. Del Re, Struttura capitalistica del lavoro legato alla riproduzione, pp. 9-73, in AA. VV. Oltre il lavoro domestico, Milano, Feltrinelli, 1979.

[5] L. Balbo, Stato di famiglia. Bisogni, privato, collettivo, Milano, Etas, 1976.

[6] G. Rubin, Lo scambio delle donne. Una lettura di Marx, Engels, Lévi-Strauss e Freud, “Nuova Dwf”, 1976, n.1.

[7] C. Saraceno, Pluralità e mutamenti, Milano, Franco Angeli, 1986.

[8] C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Verona, Ombre Corte, 2010.

[9] V. Gago, La potencia feminista. O il deseo di cambiarlo todo, Buenos Aires, Tinta Limon Ediciones, 2019

[10] C. Meillassoux, Donne, granai e capitali, Bologna, Zanichelli, 1978.

[11] M. Godelier, Antropologia e marxismo, Roma, Editori Riuniti, 1977.

[12] P. Tabet, Le dita tagliate, Roma, Ediesse, 2014.

[13] T. Giani Gallino, Le grandi madri. Una introduzione a mito e all’archetipo, in AA. VV, Le Grandi Madri, a cura di T. Giani Gallino, Milano, Feltrinelli, 1989.

[14] S. Federici, Il calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano, Mimesis, 2015.

[15] I. Magli, Il lavoro della donna in una prospettiva sacrale, “Rivista di sociologia”, maggio 1965, n.7.

[16] Vedi M. Foucault, Dits et Écrits, III, Gallimard, Paris, 1994, n 259, p. 743-756: “L’esprit d’un monde sans esprit” (entretien avec Blanchet P. et Brière C.), in P. Blanchet P. et Brière C., Iran: La révolution au nom de Dieu, Paris, Seuil. Coll. “L’histoire immédiate”, 1979, pp 227-241.

[17] C. Pateman, Il contratto sessuale, Roma, Editori Riuniti, 1997.

[18] R. Braidotti, In spite of the times: the postsecular turn of feminism, in “Theory Culture & Society”, November 2008.

[19] H. Scott (edited by), The essential Rosa Luxemburg. Reform or revolution and the mass strike, Chicago, Haymarket Books, 2008, p.117.

[20] A. Del Re, Dall’inchiesta operaia all’inchiesta femminista: l’emergere del lavoro di riproduzione, in “Alternative per il socialismo”, n.51. Sullo sciopero femminista si veda anche M. Montanelli, M. Hardt, The unforoseen Subject of feminist strike, in “The South Atlantic Quartely”, 2018, 117 (3), pp 699-709.

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