Di MARCO BASCETTA

Comunque vada a finire questo vertice più penoso che “storico” ne emerge la durezza del blocco che impedisce ogni decisivo approfondimento del processo di integrazione europea. Certo, in conseguenza di un’emergenza generale, questa sì davvero “storica”, si è accettato di contrarre un debito comune per fronteggiare le conseguenze di una crisi dalla quale nessuno uscirà indenne. E, tuttavia, il “freno di emergenza” offerto al quartetto degli “avari” guidati dall’olandese Rutte, è il dispositivo che massimamente rappresenta l’impasse, teorica e pratica, dell’Unione europea. Un singolo stato potrà rinviare il piano di spesa di un altro paese al giudizio di Ecofin (il club dei ministri delle finanze) e al Consiglio europeo (l’assemblea dei governi) affinché ne esamini ed eventualmente ne bocci l’attuazione ritardandone l’iter.

Non appena la macchina comunitaria si mette in moto, quel che più conta sono i “freni”. Che si tratti di princìpi generali di politica fiscale comune, di flussi migratori o di standard democratici minimi, l’interesse nazionale stabilito dai poteri dominanti impone l’alt. Questi “freni” altro non sono che il potere riconosciuto alle sovranità nazionali di paralizzare lo sviluppo dell’Unione esercitando un potere di veto. Che questo sia dettato il più delle volte dalle meschine contingenze di cui si nutrono le classi politiche nazionali è una realtà evidente alla quale però le medesime restano stolidamente avvinghiate.

Arrischiamo un paio di ipotesi assolutamente paradossali. Supponiamo che la Val d’Aosta disponesse della prerogativa di bloccare la legge finanziaria perché un qualche intervento dello stato nel meridione d’Italia non è di suo gusto. Avremmo così il modello europeo gradito a Mark Rutte. Supponiamo ancora che in un piccolo Land della Germania governato dall’estrema destra si promulgassero leggi di stampo come ad esempio l’esclusione dei “non ariani” dall’insegnamento, senza che il governo federale potesse mettervi bocca. Avremmo allora il modello di Europa preferito da Victor Orban. Fatto sta che Italia e Germania hanno una Costituzione che pone simili eventualità fuori dalla sfera del possibile, mentre l’Europa ha perso l’occasione di dotarsene ed ora chiunque può apprezzare le conseguenze di quel fallimento. Le sovranità statali spadroneggiano, ricattano e controricattano, svuotano e immiseriscono ogni dimensione politica comune. E i cittadini europei si vorrebbero spettatori muti di una partita giocata tra governi.

La Commissione europea ha innumerevoli difetti, pensiero tecnocratico e astrattezza burocratica la attraversano. Ma ha un indubbio pregio: rappresenta un principio di superamento delle sovranità nazionali e il compito (certo nell’ambito dei principi economici liberali da tempo dominanti) di orientarsi sulla base di una visione generale e comune. Questa diversità di piani e di percezione si è manifestata nella reazione all’emergenza pandemica e all’intreccio indissolubile dei danni subiti dall’Europa in ogni suo componente. Sensibilità del tutto mancata a diversi governi nazionali, fatto salvo il dovuto e ipocrita richiamo alla “solidarietà”.

Qualunque passaggio di competenze dalla Commissione al Consiglio rappresenta dunque un passo indietro nel processo di integrazione. Un “freno” appunto e un indebolimento della capacità dell’Unione di affrontare l’eccezionale violenza della crisi che oggi la investe e di quelle che verranno. Nell’Unione europea la democrazia, filtrata attraverso una selva di mediazioni, norme, condizioni e passaggi “tecnici” resta un lontano orizzonte. Ma certo non può essere spacciato per democrazia il potere di governi che rappresentano una piccola minoranza della popolazione europea, di bloccare misure e interventi destinati a influire sulla vita di gran parte dei cittadini dell’Unione. È un problema questo che fino a quando l’architettura europea poggerà sull’arbitrio dei governi non potrà neanche essere affrontato.

Quest’architettura, la stessa Angela Merkel lo aveva recentemente accennato, non è più all’altezza dei tempi. Che vi si debba cominciare a metter mano, a modificare i trattati, riscrivere regole e abbandonare dogmi malefici e invecchiati è una necessità che la crisi ha drammaticamente accentuato ma, nell’urgenza del momento, anche messo da parte. Nondimeno, di fronte alla partita di risiko cui abbiamo assistito in questi giorni, una domanda si impone: dobbiamo starci tutti e a tutti i costi nell’Europa della Next generation? La Gran Bretagna, nonostante i tanti vantaggi e i modesti obblighi se ne è andata per la sua incerta strada. Forse per conservare quelli che ritiene privilegi non negoziabili altri potrebbero ispirarsi all’esempio di Londra. Il principio che il massimo allargamento coincidesse con la massima forza dell’Unione è stato probabilmente un credo ingenuo. Ma più probabilmente si trattava della cattiva utopia di un mercato protetto che lasciasse fuori dalla porta la politica e i bisogni della società.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 21 luglio 2020.

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