Di SANDRO MEZZADRA e FRANCESCO RAPARELLI

1. La pandemia e noi

Mentre scriviamo, il virus continua la sua corsa in molte parti del mondo. In Italia, il ritmo dei contagi è tornato ad aumentare, all’interno di una dinamica che, sia pure in modo differenziato, sta interessando buona parte d’Europa. Nuove restrizioni vengono adottate, l’incubo del lockdown viene continuamente esorcizzato nel dibattito pubblico ma è tornato a essere presente. Sappiamo quanto potenti siano gli interessi che a questa misura estrema si oppongono, in particolare quelli di chi, come Confindustria, già a marzo ha mostrato con quale cinismo anteponga la ragione del profitto alla salute dei lavoratori e delle lavoratrici. Per “convivere con il virus” non facciamo certo conto su questi interessi. Sono piuttosto le reti sociali, la cooperazione che si svolge attorno a istituzioni come le scuole e gli ospedali, le forme di organizzazione e tutela sui posti di lavoro che possono per noi assicurare un’efficace convivenza con il virus, capace di tenere aperti quanti più spazi di libertà possibile. Occorrerà dunque nei prossimi mesi avere cura di queste reti e di queste forme, consolidarle ed estenderle. E sarà altrettanto importante intensificare la riflessione sulle modalità e sugli strumenti necessari per consentire lotte e mobilitazioni in questa congiuntura, in cui non può in alcun modo essere data per scontata l’efficacia delle forme tradizionali.

La congiuntura, intanto, deve essere analizzata non solo in termini epidemiologici, ma anche in termini politici. Occorrerebbe farlo nella stessa prospettiva globale in cui si manifesta la pandemia. A nessuno sfugge, infatti, che la posta in gioco nella gestione del Covid-19 riguarda anche il futuro assetto del disordine e dell’ordine mondiale, come ad esempio chiarisce la competizione per il vaccino. Lo spettro delle reazioni alla pandemia è del resto molto ampio e profondamente eterogeneo, e va dagli schemi governamentali in buona sostanza “neo-malthusiani” adottati da Paesi come India, Brasile e Stati Uniti a misure che puntano a “difendere la società” con una geometria variabile di autoritarismo e impiego di tecnologie digitali (si pensi a Cina a Corea del Sud). Tenendo presente questo sfondo globale, vogliamo intanto concentrarci sull’Europa, che costituisce per noi la scala più prossima per l’azione politica. Non mancano qui, del resto, gli elementi che si sono sommariamente richiamati (e il “neo-malthusianesimo” è in particolare ben presente all’interno delle élite europee). Ci pare tuttavia che nell’insieme delle società e nelle stesse istituzioni europee prevalga un diverso atteggiamento, che si può misurare attraverso la differenza tra la reazione alla crisi finanziaria del 2007-2008 (e poi alla “crisi dei debiti sovrani”) e quella alla profonda crisi economica e sociale determinata dal coronavirus.

Semplifichiamo: nei primi anni Dieci, il “management europeo della crisi” si organizzò attorno alla logica punitiva e disciplinare dell’austerity, in perfetta continuità con l’ortodossia “ordoliberale”. Oggi le cose stanno diversamente, e alcuni caposaldi del neoliberalismo in salsa europea (il Patto di stabilità, il pareggio di bilancio, l’attacco allo Stato sociale) sono apertamente in discussione tanto sul piano delle politiche monetarie quanto su quello degli investimenti e della spesa pubblica. Occorre intendersi: si tratta di un passaggio politico contestato e reversibile, che avviene per altro all’interno delle classi dominanti, nella prospettiva di definire scenari di stabilizzazione capitalistica della crisi. È tuttavia un passaggio cruciale anche per noi, perché indica un cambiamento significativo del terreno stesso su cui si gioca il conflitto sociale e politico. Semplifichiamo nuovamente: nei prossimi mesi non saremo chiamati a batterci contro “tagli” alla spesa sociale ma per indirizzare risorse e stabilire il modo in cui verranno utilizzate. All’ordine del giorno non sarà dunque la “resistenza”, ma una battaglia offensiva per la riappropriazione di quote significative di ricchezza sociale.

Non c’è ottimismo in questa diagnosi. Né pensiamo che la crisi, o l’indebolimento, della cornice macroeconomica del neoliberalismo significhi necessariamente l’eclissi di quest’ultimo. Non ripeteremo l’errore dei governi “progressisti” latinoamericani del primo decennio di questo secolo. Abbiamo imparato a sufficienza che il neoliberalismo non è soltanto un insieme di politiche macroeconomiche, è anche una forma di “governamentalità” che è penetrata a fondo negli ultimi decenni nelle nostre società, disseminandovi la razionalità della “concorrenza”, del “capitale umano” e della “meritocrazia”. Questi aspetti del neoliberalismo resteranno a lungo con noi, e si tratta di affrontarli in tutti i luoghi in cui agiscono. La stessa logica di erogazione delle risorse del Recovery Fund (o Next Generation EU) ne porta segni cospicui, e certo le cose non staranno diversamente per i programmi nazionali di investimento che sono in corso di preparazione. È un punto fondamentale da tenere presente all’interno del nuovo terreno di conflitto che si è oggettivamente aperto.

2. Welfare come campo di lotta

Enunciamo chiaramente la nostra tesi: nella congiuntura europea e italiana che abbiamo sommariamente descritto, il welfare si presenta come terreno privilegiato di lotta. È la stessa composizione del lavoro vivo contemporaneo a giustificare questa tesi. Dire welfare significa dire riproduzione sociale, e abbiamo imparato dal movimento femminista ad assumere quest’ultima come prisma essenziale per leggere lo stesso universo della produzione. Riproduzione sociale, ovvero quell’insieme di lavori che va dalle attività di cura all’interno dei nuclei familiari fino a quelle a elevata complessità nei settori antropogenici per eccellenza, istruzione e sanità in primo luogo; un reticolo di attività e lavori troppo spesso mal pagati o resi invisibili, e comunque sempre attribuiti in modo sproporzionato alle donne, attraverso cui la società si riproduce. C’è qui una chiave per ripensare la cooperazione sociale nel suo complesso, ponendo politicamente in rilievo la miriade di conflitti e lotte che ruotano attorno al lavoro di cura ma anche valorizzando il principio della reciprocità e della condivisione che lo innerva. Questi conflitti e questo principio ci offrono lenti fondamentali per accostarci alla questione del welfare nei suoi termini più generali. E definiscono un primo criterio attorno a cui elaborare elementi programmatici non solo per il rifinanziamento del welfare ma anche per una sua profonda riorganizzazione.

C’è bisogno tuttavia, nel momento in cui identifichiamo la centralità del welfare come campo di lotta, di qualche preliminare precisazione sulle diverse valenze che questo termine assume. Welfare significa “benessere”. La lotta sul welfare è dunque in primo luogo lotta sul significato del benessere (nonché della salute e della cultura che viene trasmessa con l’istruzione). Ma occorre subito aggiungere che il benessere può essere inteso in molti modi, ad esempio secondo una logica patriarcale di amministrazione e gestione dall’alto, mentre welfare si è coniugato storicamente ad esempio con workfare (nella prospettiva di un uso del lavoro come strumento di disciplinamento di soggetti a cui è negato di poter decidere sul proprio benessere) e con warfare (con riferimento all’intreccio tra Stato sociale e “complesso militare industriale” in particolare negli Stati Uniti).

È del resto ben noto che la storia moderna delle politiche di welfare, quella che possiamo chiamare l’archeologia dello Stato sociale, prende avvio con leggi sulla povertà il cui carattere duramente disciplinare e spesso violentemente punitivo è stato illustrato da autori classici, come Marx e Polanyi, e poi da un’infinità di studi. Lo spettro del “cattivo povero”, stigmatizzato per la sua propensione all’ozio e alla promiscuità, circola in tutta la letteratura sul “pauperismo” che in Europa accompagna la formazione della società industriale. Interventi assistenziali si accompagnano a interventi di polizia fino a risultare indistinguibili da questi ultimi, mentre l’“igiene” è un terreno chiave per lo sviluppo di politiche di disciplinamento di masse riottose di poveri e subalterni. La “questione sociale”, poi, si intreccia con la minaccia costante posta da una povertà di tipo nuovo, installata al cuore della produzione di ricchezza, rivelandosi con sempre maggiore chiarezza nel corso dell’Ottocento “questione operaia”. Ed è l’insubordinazione operaia, che tra il Quarantotto e la Comune di Parigi si traduce in vere e proprie insurrezioni, ad aprire spazi di tipo nuovo nelle politiche sociali, a partire dalla legislazione sulle fabbriche in Inghilterra e dalla lotta per la riduzione della giornata lavorativa. Prende forma qui una diversa logica, quella dei diritti sociali di cittadinanza, che fino a oggi convive in modo conflittuale – all’interno delle politiche sociali e del Welfare State – con la più antica logica patriarcale, disciplinare, punitiva, o meramente assistenziale.

Lo Stato sociale che abbiamo conosciuto in Europa occidentale nel secondo dopoguerra, con la grande anticipazione del New Deal rooseveltiano, ricombina quelle logiche sotto la pressione combinata delle nuove esigenze collegate alla produzione di massa e della continuità delle lotte operaie. La centralità della classe operaia nei nuovi equilibri viene da una parte riconosciuta, dall’altra mistificata, nella misura in cui il salario operaio è posto come variabile interna allo sviluppo del capitale – in particolare attraverso l’espansione dei consumi. La “rivoluzione keynesiana” interpreta e sostiene con precisione questo passaggio. Va detto con chiarezza: non c’è possibilità di ritorno a questa peculiare forma di Welfare State. Ne sono venute meno tutte le condizioni, sia dal punto di vista della composizione della classe operaia sia da quello dell’organizzazione del capitale e della cornice internazionale in cui quell’esperienza è maturata. Non possiamo dimenticare, del resto, che i movimenti degli anni Sessanta e Settanta ne hanno attaccato alcuni elementi costitutivi – i processi di burocratizzazione legati a un welfare interamente centrato sullo Stato, la posizione subalterna delle donne e il familismo di fondo, l’esclusione di minoranze e migranti.

Quando diciamo dunque che il welfare è oggi un decisivo terreno di lotta, siamo consapevoli del fatto che le logiche disciplinari che ne hanno a lungo caratterizzato la storia sono ben presenti anche oggi. E sappiamo di non avere un “modello” a cui riferirci, di essere costretti a sperimentare e inventare. Ma sappiamo anche che in questi anni c’è stata una grande ricchezza di lotte e di pratiche, che hanno spesso alluso con forza anche alla formazione di nuove istituzioni, capaci potenzialmente di iscrivere all’interno del welfare il principio dell’auto-organizzazione sociale, di negoziare e contestare continuamente le politiche pubbliche ponendosi come vere e proprie istanze di contropotere. Per fare un unico esempio, i Centri antiviolenza, che si ricollegano a una lunga storia di iniziativa femminista cominciata almeno con i consultori degli anni Settanta, ci sembrano particolarmente significativi. Da qui pensiamo che possa ripartire il dibattito su quelle che in questi anni abbiamo chiamato “istituzioni del comune”.

Sappiamo che la battaglia sarà lunga e che dovremo batterci su molti fronti. Come abbiamo detto, il neoliberalismo è ben lungi dall’essere sconfitto, e sul terreno del welfare sarebbe un errore ridurlo semplicemente allo smantellamento dello Stato sociale. Se i tagli a sanità e istruzione sono stati una costante negli ultimi decenni, soprattutto in Italia, il neoliberalismo ha anche elaborato una serie di principi di riorganizzazione delle politiche sociali, che si sono ad esempio espressi nelle “riforme” attuate dal New Labor di Blair in Inghilterra alla fine degli anni Novanta. “New Public Management”, “Private Finance Initiative”, partenariati tra il pubblico e attori capitalistici privati, aumento dei finanziamenti per sicurezza e forze di polizia hanno definito una cornice che non ci stupiremmo di vedere riproposta oggi da qualcuno in Italia – non necessariamente di “destra”. Si tratta di esserne consapevoli e di mettere in campo con forza altri progetti sostenuti dalla materialità delle lotte. Ma ancora più in generale, è alle questioni del reddito e del salario che occorre guardare se vogliamo che gli investimenti nel welfare non seguano logiche puramente assistenziali ma incontrino piuttosto una composizione del lavoro vivo capace di imporre il riconoscimento, almeno parziale, della propria potenza.

3. Reddito e salario: due facce della stessa medaglia

C’è da dire che in Italia abbiamo, da qualche mese, un privilegio non piccolo: c’è un nemico. Senz’altro state pensando a Salvini, ma sarebbe troppo poco, considerando quanto politicamente avviene negli Stati Uniti o in India. Ci riferiamo piuttosto a Confindustria e al suo nuovo leader. Ascoltandolo con attenzione, leggendo le sue interviste, inseguendo le sue dichiarazioni, la posta in palio della grande frattura nella quale siamo immersi risulta evidente, inequivocabile. L’offensiva di Bonomi è costante e articolata.

In primo luogo la contesa sulle risorse europee. La polemica contro i sussidi ha una finalità precisa: distribuire alle imprese, colpire i poveri affinché si attivino, invece di oziare sul divano coccolati da Mamma-Stato – ovviamente lo Stato non è materno se garantisce denaro a fondo perduto alle grandi imprese. In secondo luogo, dunque, bersaglio di Bonomi è il Reddito di Cittadinanza. Come sempre, si scarica la colpa della disoccupazione sui disoccupati, sull’offerta inadeguata e lazy di forza-lavoro, senza nulla dire del disastro del tessuto produttivo italico, che per anni ha scambiato moderazione salariale con investimenti in innovazione e ricerca nulli, competendo nel mercato europeo e globale attraverso l’abbassamento oltre misura del costo del lavoro. Non stupisce allora che – in terzo luogo – Confindustria con violenza rara si stia scagliando contro i salari. Il tema riguarda la contrattazione collettiva, con i rinnovi che rendono l’autunno affollato, non si sa ancora se di inquietudini marginali o di lotte. Ma riguarda anche il salario più in generale, per esempio quello minimo per legge, che in Italia ancora non c’è.

Risorse e ammortizzatori sociali, Reddito di Cittadinanza, salario: oltre alla contesa sul welfare (e a essa strettamente collegata), sono questi i nodi dello scontro, dei prossimi mesi e anche dei prossimi anni. Vale la pena approfondire, anche a costo di risultare spigolosi.

Per troppi anni, l’insistenza fondamentale sul reddito di base ha rimosso la questione salariale. Certo, si trattava di farla finita con la cultura del lavoro, rossa o bianca che fosse. Insistendo dunque sull’allargamento a dismisura della cooperazione produttiva, innervata dalle tecnologie della comunicazione e favorita da soggetti produttivi via via più ricchi di formazione, competenze, relazioni. Con l’ambizione di ricomporre figure del lavoro assai eterogenee, comunque ostili alle identità collettive di un tempo. Giustamente convinti che, attraverso il reddito di base, si potesse anche combattere l’assalto al salario che, sul finire degli anni Novanta, si presentava attraverso la breccia del lavoro precario di giovani e donne, oltre che con l’inizio del massiccio uso della forza-lavoro migrante, nelle campagne e nel lavoro di cura, nella ristorazione e, a seguire, nella logistica. Tutto giusto o comunque quasi niente sbagliato.

Ma oggi, anche in Italia, il “Reddito di Cittadinanza” c’è, con risorse pochissime e con la condizione di accettare un lavoro purché sia. La pandemia ha fatto saltare le condizioni e, al Reddito di Cittadinanza, ha accompagnato quello di emergenza, ma la novità è data. L’attacco di Bonomi anche in questo caso chiarisce la posta in palio: farne uno strumento residuale di sostegno alla povertà assoluta, magari accentuando le politiche attive del lavoro di marca privata, con grandi affari per le agenzie interinali e gli enti che speculano sulla formazione professionale. Soprattutto, la vigenza della misura non ha in alcun modo rallentato l’attacco ai salari, nella forma ultima imposta nel dibattito da Confindustria: il salario a cottimo. E sì, perché sganciare il salario dall’orario, per combinarlo con la produttività, significa tornare indietro nel tempo, nel senso della reazione più retriva.

Ora più che mai, alla luce del dibattito politico europeo oltre che nazionale, la battaglia sul salario e quella sul reddito devono andare di pari passo. Senz’altro non si vince la prima senza la seconda, ma vale anche il contrario. Solo un salario minimo europeo adeguatamente parametrato – con riferimento ai Paesi Bassi o alla Germania e non alle zone speciali polacche – può far saltare in aria il dumping salariale che, oltre quello fiscale, favorisce capitalisti europei ed extra-continentali. Salario minimo per legge, perché la ritrovata concertazione tra le parti sociali non è una garanzia. Non lo è per i contratti gialli, come indica quello di UGL con le multinazionali del Food Delivery, non lo è in generale. Che la CGIL alzi la voce sui rinnovi contrattuali è un buon segno, ma la strada sembra già segnata: invece di aumentare le retribuzioni, e in sostituzione degli aumenti, si introduce o si rafforza il welfare aziendale (in prevalenza sanità integrativa), come d’altronde già accaduto con l’ultimo rinnovo – quello del 2016 – dei metalmeccanici. E la frammentazione corporativa del welfare va esattamente nella direzione opposta a quella, universalistica e del tutto strategica, fin qui delineata.

Aumentare le risorse e dunque la platea del Reddito di Cittadinanza esistente, facendo saltare in aria i vincoli e favorendo processi pubblici – e non necessariamente statali – di formazione e riqualificazione professionale: questa, in Italia, è battaglia fondamentale. E lo sarà ancora di più quando verrà eliminato, come richiede Confindustria da settimane, il blocco dei licenziamenti. L’incrocio della domanda e dell’offerta non funziona per colpa della domanda di forza-lavoro da parte delle imprese, e non solo per l’incapacità – che pure è sostanziosa – di chi oggi governa le politiche attive del lavoro. Ma se si rafforza il Reddito di Cittadinanza e nulla si fa per ridurre l’orario di lavoro, il problema rimane. Salario minimo legale (europeo) e riduzione dell’orario sono l’altra faccia della lotta per il welfare universale e per il reddito di base. Anche perché è attraverso la pressione sul salario, diretto e indiretto, che le resistenze del lavoro vivo per ora frammentate e molecolari possono ambire a una necessaria, quanto urgente, massificazione.

4. Rompere negoziando, negoziare rompendo

Il compito è più grande delle forze sociali in campo, non c’è dubbio. Le lotte del lavoro vivo sono effettivamente frammentate e molecolari, soprattutto quelle del lavoro precario e senza diritti. Pare una condizione ontologica, una invariante contro la quale può poco la paziente sfida del sindacalismo sociale. Eppure non esistono scorciatoie. Non esistono a maggior ragione se rivolgiamo l’attenzione a quanto sta accadendo in Europa. Il Recovery Fund, per la prima volta dalla nascita della UE, distribuisce una robusta quantità di risorse che, necessariamente, dovranno rilanciare la spesa e l’impiego pubblici. Già lo abbiamo detto: le forme della distribuzione continueranno a essere quelle proprie dell’Europa neoliberale, ma le quantità sono inedite, hanno la consistenza di un Piano Marshall continentale.

La novità impone un cambio di passo. Anche perché indebolisce i populismi nazionalisti e sembra consolidare le tante varianti della Grosse Koalition. Certo l’Europa non sarà immune dal risultato elettorale americano, dove invece persiste una guerra civile (neanche troppo) strisciante. Ma senz’altro ha per il momento imboccato un’altra via. E il trattamento europeo della crisi nella quale siamo immersi, che si somma e approfondisce quella esplosa tra il 2008 e il 2012, non assicura alcun happy end, anzi. Ciò è esibito dalla violenza disumana che l’Europa sta spargendo ai suoi confini, in gran parte esternalizzati alla Turchia e al Nord Africa, con le macellerie libiche e del Mediterraneo, arrivando fino a Lesbo. Semplicemente, lo ripetiamo, è un altro terreno, fatto di politiche monetarie e fiscali espansive, neanche troppo velatamente keynesiane.

Sarà, questo nuovo terreno, permeabile alle spinte from below? Come sempre non si tratta di buona volontà, ma di rapporti di forza. E la domanda dunque diventa: di che cosa deve essere composta, la forza, per essere efficace? Non basta riaffermare ciò che già sappiamo, ovvero che senza lotte non c’è riformismo del capitale. La rottura, e solo la rottura, può riaprire i giochi. Ma quest’ultima non si produce con l’evocazione ripetuta, che semmai assomiglia sempre più a un genere letterario utile a sfogare frustrazioni e, nello stesso tempo, a darsi delle arie. Sarà il clinamen a decidere, come sempre, la capacità di cogliere l’occasione. E l’attesa messianica, però, non brilla più dell’estremismo parolaio. Il problema che conta, per noi, è capire che cosa significa politica sovversiva oggi, nella grande frattura imposta dalla pandemia, nel “cataclisma occupazionale” che muove l’Europa verso un riformismo timido.

Servono lotte sociali esemplari che sappiano durare nel tempo, capaci di combinare rottura e negoziazione. Contropoteri o istituzioni autonome: chiamatele come meglio credete. Basta che ci si intenda: si tratta di un potere diffusivo, fondato sulla molteplicità, che non può eludere il nodo della convergenza; ambisce a consolidare una normatività altra, ma non disdegna una riforma legislativa conquistata sul campo; ha le gambe ben piantate nella scena extra-parlamentare, ma ritiene giusto, tatticamente, condizionare con le lotte gli ambiti istituzionali di prossimità, come quelli nazionali e continentali. Andiamo al sodo: un contropotere che non dura nel tempo, e che non è capace di negoziare, non è davvero tale. Semmai ambisce, senza dirlo più, alla “presa del potere” – pur senza realismo politico alcuno.

Istituzione autonoma oggi è sempre più democrazia di nuova natura. Non solo perché la democratizzazione del welfare, come sopra abbiamo indicato e come il movimento femminista ha chiarito una volta per tutte, è un passaggio obbligato affinché il welfare abbia un futuro. Ma anche e soprattutto perché il neoliberalismo, ormai cotto, ha comunque in quarant’anni distrutto la democrazia liberale, con essa i dispositivi socialdemocratici di governo della forza-lavoro e del conflitto sociale. Consolidare mutualismo e solidarietà nei territori urbani, reinventare – combattendo senza sosta – il diritto del lavoro e sindacale, moltiplicare esperimenti di formazione autogestita: non è la rottura che serve, ma il milieu affinché la rottura sia meno improbabile, affinché questa, una volta esplosa, non sia evanescente e dunque inefficace. Una “lunga marcia”, certo non progressiva, sempre esposta alla contingenza e quindi capace di fare i conti con la congiuntura, ma lunga e accidentata.

5. L’Europa per noi  

Che l’Europa sia o meno lo spazio politico in cui dare battaglia, è ormai problema del tutto fuori discussione. Lo abbiamo sin qui chiarito, il Recovery Fund volta pagina, alla moneta unica si accompagnano la mutualizzazione del debito e in prospettiva una effettiva politica fiscale, ammortizzatori sociali e welfare dei diversi Stati membri si fanno tendenzialmente più omogenei. E abbiamo presentato il nostro modo di intendere le istituzioni autonome, avendo tra l’altro la fortuna di praticarle, quotidianamente, con tante e tanti. Queste istituzioni autonome offrono un primo criterio per pensare la stessa azione politica nello spazio europeo. Quali possano essere, però, forme di organizzazione e di lotta adeguate allo spazio politico europeo, è questione di cui si fatica a scrivere. Si fatica in generale, figurarsi in epoca di pandemia, con la seconda ondata che sta già colpendo duro e che renderà non poco faticosa la mobilità. Eppure non vogliamo esimerci, perché la teoria politica, anche se sempre prevede spazi bianchi che solo la prassi può riempire, è comunque una prassi anch’essa. Timorosa e inoffensiva, se incapace di azzardare – procedendo ovviamente per prova ed errore. Concludiamo dunque questo intervento con qualche considerazione sui temi dell’organizzazione e delle forme di lotta.

Organizzazione. Ribadiamo quanto già detto e scritto negli scorsi mesi: le piattaforme che hanno accompagnato la nostra vita distanziata sono spesso un incubo, se pensiamo allo Smart Working senza diritti o alla continua estrazione di dati che esse rendono possibile, ma sono senz’altro uno strumento utile per rilanciare la discussione europea. Serve uno sforzo corale, fin dall’inizio: non basta l’indizione da parte di questo o di quel nodo territoriale, necessario è piuttosto un appello da subito transnazionale. È evidente che non esistono basi d’appoggio solide, ma ci sono certamente relazioni maturate nell’arco degli anni; senz’altro, poi, è condivisa l’urgenza di un nuovo inizio dei movimenti europei. Quest’ultimo non sarà un prodotto di laboratorio, pretende mescolanze vivaci, esempi e fatti concreti. Indubbiamente il movimento femminista e quello ecologista hanno già esibito una straordinaria forza connettiva, capace di convergere nel discorso e nelle pratiche di lotta, con una rapidità mimetica potente. I movimenti e le lotte dei e delle migranti, poi, si distendono spesso in uno spazio ricco di connessioni transnazionali. La formazione di una civil fleet per il soccorso in mare costituisce un esempio di cooperazione europea dal basso, tanto più importante in un momento in cui riprende l’iniziativa della Commissione europea nel Mediterraneo, nel segno dell’intensificazione delle espulsioni e dell’ulteriore esternalizzazione dei controlli di confine. Non partiamo da zero, insomma.Recovery Fund for the People potrebbe essere lo slogan per mettere in campo mobilitazioni decentrate con livelli quanto meno simili e convergenti di coordinamento.

Forme di lotta. C’è poi un punto su cui occorre essere chiari. Agire nello spazio politico europeo non significa necessariamente manifestare a Bruxelles o lanciare campagne europee. Entrambe le cose possono essere utili e a volte necessarie, ma forse perfino più importante in questo momento è comprendere che singole lotte in contesti locali e nazionali possono avere carattere immediatamente europeo. Una battaglia vincente per orientare l’uso delle risorse del Recovery Fund in un Paese come l’Italia avrebbe echi in tutto il continente, rafforzando analoghe mobilitazioni altrove. Un movimento come quello dei Gilet gialli in Francia, che ha posto tra l’altro il problema della dimensione sociale della lotta sul salario, ha prodotto risonanze ben al di fuori dei confini nazionali (oltre ad aprire una contesa sulle politiche di bilancio i cui effetti non possono che ripercuotersi sulle stesse politiche europee). Un’azione per cogliere ed esaltare la dimensione europea di singole lotte, campagne e movimenti deve insomma affiancarsi all’impegno per costruire e rafforzare processi di coordinamento a livello transnazionale.

Non mancheranno nei prossimi mesi, in Italia come altrove in Europa, occasioni di conflitto e mobilitazione sui diversi fronti che abbiamo qui indicato – dalla questione del reddito e del salario alle decisioni sulla destinazione dei fondi europei. Tutto questo avverrà in una situazione fortemente condizionata dalla pandemia, in cui si registra una sostanziale difficoltà a praticare le forme di lotta tradizionali, in particolare per quel che riguarda l’azione di massa nello spazio pubblico. Certo, il formidabile ciclo di mobilitazioni attorno allo slogan Black Lives Matter negli Stati Uniti mostra che questa difficoltà può essere superata in condizioni eccezionali. Ma ci sembra che intanto la si debba assumere realisticamente. Lo abbiamo detto all’inizio: dobbiamo inventare e sperimentare forme di lotta e di mobilitazione adeguate al momento che stiamo vivendo. Occorre riscoprire il gusto della provocazione creativa, rimettere a tema l’azione diretta e la disobbedienza incardinandole all’interno delle nuove condizioni di vita e di sfruttamento. I flashmob di Non Una di Meno, che cantavano Un violador en tu camino, ci offrono un esempio di come appropriarsi dello spazio pubblico e trasformarlo nella scena “teatrale” di una rappresentazione politicamente potente ed efficace. Più in generale, azioni creative e mirate possono oggi produrre una molteplicità di risonanze e innescare più larghi processi di mobilitazione quando non sono semplicemente espressione del nostro attivismo ma includono fin da principio il protagonismo dei soggetti sociali colpiti dalla crisi. Costruire minoranze attive capaci di mettere in campo azioni di questo tipo ci sembra un compito fondamentale in questa fase.

Questo articolo è stato pubblicato anche su DinamoPress il 14 ottobre 2020.

En la gran fractura, seguir combatiendo

Por SANDRO MEZZADRA y FRANCESCO RAPARELLI

1. La pandemia y nosotr@s

Al escribir estas líneas, el virus sigue su curso en muchas partes del mundo. El ritmo de los contagios en Italia se ha acelerado de nuevo, en una dinámica que, aunque en diferentes formas, afecta a gran parte de Europa. Se adoptan nuevas restricciones, la pesadilla del confinamiento es constantemente exorcizada en el debate público pero retorna una y otra vez al escenario.

Sabemos cuán poderosos son los intereses que se oponen a esta medida extrema, en particular los de quienes, como la confederación patronal Confindustria, ya habían demostrado en marzo con qué cinismo anteponían la razón de la ganancia sobre la de trabajadoras y trabajadores.

Para “convivir con el virus” no podemos contar con esos intereses. A nuestro juicio, lo que puede garantizar una convivencia eficaz con el virus, capaz de mantener abiertos tantos espacios de libertad como sea posible, son, más bien, las redes sociales, la cooperación que se desarrolla en torno a instituciones como escuelas y hospitales, las formas de organización y de protección de los empleos.

En los próximos meses, por tanto, tendremos que cuidar estas redes y estas formas, consolidarlas y ampliarlas. Y será igualmente importante intensificar la reflexión sobre las modalidades y los instrumentos necesarios para permitir luchas y movilizaciones en esta coyuntura, en la que no cabe presumir que se mantenga la eficacia de las formas tradicionales.

Mientras tanto, la coyuntura a debe analizarse no sólo en términos epidemiológicos sino también políticos, y desde una perspectiva global, como lo es la de la pandemia. A nadie se le escapa, de hecho, que lo que está en juego en la gestión de Covid-19 concierne también a la gestión futura del desorden y del orden mundial, como demuestra la carrera por obtener vacunas, por ejemplo.

El espectro de las reacciones a la pandemia es, además, muy amplio y profundamente heterogéneo, y va desde los esquemas gubernamentales esencialmente “neomaltusianos” adoptados por países como India, Brasil y EEUU hasta las medidas que pretenden “defender la sociedad” según una geometría variable recurriendo para ello al autoritarismo y al uso de tecnologías digitales (como China y Corea del Sur).

Sin dejar de tener en cuenta este trasfondo mundial, queremos centrarnos en Europa, la escala más cercana para nuestra acción política. Un espacio en el que, por otra parte, no están ausentes los elementos que acabamos de recordar (el “neomaltusianismo” está particularmente presente entre las élites europeas). Sin embargo, nos parece que, en el conjunto de la sociedad y dentro de las propias instituciones europeas, prevalece una actitud diferente, para la que puede usarse como vara de medida la diferencia entre la reacción ante la crisis financiera de 2007-2008 y a la “crisis de la deuda soberana”, por un lado, y la reacción a la profunda crisis económica y social actual provocada por el coronavirus.

Simplifiquemos: en la década anterior la “gestión europea de la crisis” se organizó en torno a la lógica punitiva y disciplinaria de la austeridad, en perfecta continuidad con la ortodoxia “ordoliberal”. Hoy la situación es diferente, y ciertos pilares del neoliberalismo “a la europea” (Pacto de Estabilidad, equilibrio financiero, ataques al modelo social) están abiertamente cuestionados tanto en términos de política monetaria como en términos de inversiones y gasto público.

Entiéndase bien: se trata de una transición política controvertida y reversible, que se desarrolla asimismo en el seno de las clases dominantes, con miras a definir escenarios para la estabilización capitalista de la crisis. Sin embargo, es una transición que también nos afecta de manera crucial, ya que indica un cambio significativo en el terreno mismo en el que se desarrolla el conflicto social y político.

Simplifiquemos una vez más: en los próximos meses no tendremos que luchar contra los “recortes presupuestarios” en el gasto social, sino que tendremos que hacerlo en torno a la definición de los presupuestos y a la manera en que serán utilizados. Por lo tanto, no se tratará de un agenda de “resistencia”, sino de una batalla ofensiva por la reapropiación de partes significativas de la riqueza social.

No hay ningún optimismo en este diagnóstico. Tampoco creemos que la crisis o el debilitamiento del marco macroeconómico del neoliberalismo signifique necesariamente el eclipse de este último. No repetiremos el error de los gobiernos latinoamericanos”progresistas” de la primera década de este siglo. Hemos aprendido suficientemente bien que el neoliberalismo no es sólo un conjunto de políticas macroeconómicas, sino que también es una forma de “gubernamentalidad” que ha penetrado profundamente en nuestras sociedades en las últimas décadas al difundir la racionalidad de la “competencia”, del “capital humano” y de la meritocracia. Estos aspectos del neoliberalismo nos acompañarán durante mucho tiempo y se trata de hacerles frente en todos los lugares donde actúan. La propia lógica de  distribución de los presupuestos del Fondo de Recuperación (o Next Generation EU [Próxima generación UE]) muestra signos notables de ello y ciertamente la situación será similar en lo que respecta a los programas nacionales de inversión que se están preparando. Este es un aspecto fundamental que debemos tener muy presente en el nuevo espacio de conflicto que objetivamente se ha abierto.

2. El welfare (bienestar) como campo de lucha

Plantearemos claramente nuestra tesis: en la situación europea e italiana que hemos descrito brevemente, el welfare se presenta como el terreno de lucha privilegiado.

La propia composición del trabajo vivo actual justifica esta tesis. Decir welfare significa decir reproducción social, y hemos aprendido del movimiento feminista que ésta es un prisma esencial para descifrar el universo mismo de la producción. Reproducción social, esto es, un conjunto de trabajos que van desde las actividades de cuidado en el hogar hasta las actividades mucho más complejas de los sectores antropogénicos por excelencia, la educación y la salud en primer lugar; una red de actividades y de empleos a través de los cuales se reproduce la sociedad, con demasiada frecuencia mal pagados e invisibles, y, en todo caso, asignados de forma desproporcionada a las mujeres. Reside en esto una de las claves para repensar la cooperación social en toda su complejidad, destacando la miríada de conflictos y luchas que giran en torno al trabajo de las personas cuidadoras, pero también dando valor al principio de reciprocidad y de compartición que lo impregna. Estos conflictos y este principio constituyen una lente fundamental a través de la cual abordar la cuestión del welfare en sus términos más generales. Definen un primer criterio en torno al cual desarrollar elementos programáticos no sólo para la refinanciación del welfare sino también para su profunda reorganización.

Sin embargo, desde el momento en que identificamos la centralidad del bienestar como terreno de lucha se hacen necesarias algunas precisiones preliminares sobre los diferentes valores que abarca este término. Welfare significa “bien-estar”. La lucha por el welfare es, por tanto, ante todo una lucha por el significado del bienestar (así como por la salud y por la cultura que se transmite a través de la educación). Pero debemos agregar de inmediato que el bienestar se puede entender de diferentes maneras, por ejemplo según una lógica patriarcal de administración y gestión desde arriba, mientras que el welfare se ha asociado históricamente, por ejemplo, al workfare [nt1],en la perspectiva de una utilización del trabajo como instrumento de disciplinamiento de sujetos a los que se niega la posibilidad de decidir sobre su propio bienestar, y al warfare, en referencia al vínculo profundo entre el Estado social y el “complejo militar-industrial”, especialmente en EEUU.

Es un hecho bien establecido, además, que la historia moderna de laspolíticas de welfare, aquellas que podemos definir como pertenecientes al Estado social, comienza con las leyes sobre la pobreza, cuyo carácter indudablemente disciplinario y a menudo violentamente punitivo ha sido ilustrado por autores clásicos, como Marx y Polanyi, y luego en una infinidad de obras.

El espectro del “pobre malo”, estigmatizado por su propensión a la holgazanería y la promiscuidad, circula en toda la literatura sobre el “pauperismo” que, en Europa, acompaña a la formación de la sociedad industrial. Las intervenciones de ayuda social van acompañadas de intervenciones policiales hasta un punto en que se hacen indisociables, mientras que la “higiene” se convierte en un ámbito clave para el desarrollo de políticas para “meter en cintura” a recalcitrantes masas de pobres y de población subalterna. A partir de ahí, la “cuestión social” permanece ligada a la amenaza constante constituida por una pobreza de nuevo tipo, instalada en el corazón de la producción de riqueza, lo que se revela a lo largo del siglo XIX y cada vez con mayor claridad a través de la “cuestión obrera”.

La insubordinación obrera, que entre 1848 y la Comuna de París desemboca en verdaderas insurrecciones, abre espacios de nuevo tipo en las políticas sociales, a partir de la legislación fabril en Inglaterra y la lucha por la reducción de la jornada laboral. Así se gestó una lógica diferente, la de los derechos sociales de ciudadanía que, hasta hoy, convive de manera conflictiva -dentro de las políticas sociales y del Estado de Bienestar- con la lógica más antigua, que sigue siendo patriarcal, disciplinaria, punitiva o meramente existencial.

El Estado social que conocimos en la Europa Occidental de la posguerra, fuertemente anticipado por el New Deal rooseveltiano, recombina estas lógicas bajo la presión conjunta de nuevas exigencias ligadas a la producción en masa y de la continuidad de las luchas obreras. La centralidad de la clase obrera en los nuevos equilibrios es, por un lado, reconocida y, por otro, mistificada, en la medida en que los salarios de los trabajadores se plantean como una variable interna al desarrollo del capital, en particular a través de la expansión del consumo.

La “revolución keynesiana” interpreta y sostiene con precisión esta transición. Hay que decirlo claramente: no es posible volver a esta forma particular de Estado de Bienestar. Ya no se cumplen todas las condiciones, ya sea desde el punto de vista de la composición de la clase obrera o desde el de la organización del capital y el marco internacional en el que se ha desarrollado esta experiencia. No podemos olvidar, además, que los movimientos de los años sesenta y setenta atacaron algunos de sus elementos constitutivos, como los procesos de burocratización ligados a un welfaretotalmente centrado en el Estado, la posición subordinada de la mujer y el familiarismo subyacente o la exclusión de minorías y migrantes.

Entonces, cuando decimos que el welfarerepresenta en la actualidad un campo de lucha decisivo somos conscientes de que las lógicas disciplinarias que han caracterizado durante mucho tiempo su historia siguen presentes en la actualidad. Y sabemos que no tenemos un “modelo” al que referirnos, que nos vemos obligados a experimentar e inventar,

Pero también sabemos que durante estos años se ha desarrollado una gran riqueza de luchas y prácticas que, a menudo, se han referido con especial intensidad a la formación de nuevas instituciones, potencialmente capaces de inscribir dentro del welfareel principio de auto-organización social, y de negociar y desafiar continuamente las políticas públicas imponiéndose como instancias reales de contrapoder. Por citar solo un ejemplo, los Centros Antiviolencia, que están vinculados a una larga trayectoria de iniciativas feministas que se iniciaron al menos con los consultorios de los años sesenta, nos parecen especialmente significativos. Creemos que a partir de este punto puede reanudarse el debate sobre lo que en los últimos años hemos llamado las “instituciones de lo común”.

Sabemos que la batalla será larga y que tendremos que luchar en muchos frentes. Como hemos dicho, el neoliberalismo está muy lejos de haber sido derrotado y, en el ámbito del welfare,sería un error reducirlo simplemente al desmantelamiento del Estado social Si los recortes presupuestarios en salud y educación han sido una constante en los últimos años, especialmente en Italia, el neoliberalismo también ha desarrollado una serie de principios para la reorganización de las políticas sociales, que, por ejemplo, se expresaron en las “reformas” aplicadas por el New Labor deBlair en Inglaterra a fines de la década de 1990.

La “Nueva Gestión Pública”, la “Iniciativa de Financiación Privada”, la colaboración entre el sector público y los agentes capitalistas privados, el aumento de la financiación para las fuerzas de seguridad y policiales, han ido definiendo un marco que no nos sorprendería fuera propuesto hoy por algunas personas en Italia, no necesariamente de la “derecha”. Se trata de tomar conciencia de ello y de desplegar con fuerza otros proyectos apoyados en la materialidad de las luchas. Pero de una manera aún más general, tenemos que mirar hacia las rentas y los salarios si queremos que las inversiones en el welfareno sigan lógicas puramente asistenciales, sino que se orienten hacia una composición de un trabajo vivo capaz de imponer el reconocimiento, al menos parcial, de su propia potencia.

3. Renta y salario: dos caras de la misma moneda

En Italia tenemos, desde hace unos meses, un privilegio, que no es uno de los menos importantes: existe un enemigo. Naturalmente, pensaréis en Salvini, pero eso sería demasiado poco, a la vista de la actualidad política en EEUU o la India. En realidad, nos referimos a la organización patronal Confindustria y su nuevo líder, Carlo Bonomi. Escuchándolo con atención, leyendo sus entrevistas, siguiendo sus declaraciones, se hace evidente, inequívocamente, lo que está en juego en la gran fractura en la que estamos sumidos. La ofensiva de Bonomi es constante y articulada.

En primer lugar, la disputa sobre los presupuestos europeos. La polémica contra las subvenciones tiene un propósito específico: repartir entre las empresas, golpear a los pobres para que “se activen” en vez de sentarse en su sofá sin hacer nada, mecidos por Mamá-Estado; naturalmente, no se tilda al Estado de maternal cuando garantiza dinero a fondo perdido a las grandes empresas.

En segundo lugar, la presa a abatir para Bonomi es la Renta de ciudadanía. Como siempre, se culpa a los desempleados por estar desempleados, la responsabilidad recae en una oferta de mano de obra inadaptada y perezosa; por descontado, nada se dice sobre el desastre que afecta al tejido de la producción italiana, tras años en los que se ha negociado moderación salarial a cambio de nulas inversiones en innovación e investigación, compitiendo en el mercado europeo y mundial por medio de una desmesurada reducción de los costes laborales.

No es de extrañar, por tanto, que, en tercer lugar, Confindustria ataque los salarios con una violencia poco habitual. Esto concierne a la negociación colectiva, con las renovaciones de los convenios que van a dar lugar a un otoño muy cargado, aunque aún no sabemos si cargado de inquietudes marginales o cargado de luchas. Pero también concierne a los salarios en general, por ejemplo, al salario mínimo legal, que en Italia aún no existe.

Presupuestos y amortiguadores sociales, Renta de ciudadanía, salario: más allá de la disputa en torno al welfare(aunque estrechamente relacionado con ella) estos son los elementos decisivos del enfrentamiento que tendrá lugar en los próximos meses y años. Es necesario profundizar en esto, aunque suene un tanto áspero.

Durante demasiados años, la insistencia fundamental en la renta básica ha dejado de lado la cuestión salarial. Por supuesto, se trataba de acabar con la cultura del trabajo, sea roja o blanca. Enfatizando la expansión desproporcionada de la cooperación productiva, estimulada por las tecnologías de la comunicación y favorecida por sujetos productivos cada vez más provistos de formación, de habilidades y de relaciones. Con la ambición de recomponer figuras del trabajo muy heterogéneas, pero hostiles a las identidades colectivas de otra época. Con la muy justa convicción de que a través de una renta básica también podríamos frenar el ataque a los salarios que, a finales de los años 90, se perfilaba a través de la brecha del trabajo precario de jóvenes y mujeres, junto al inicio del uso masivo de mano de obra migrante, en el campo, en los cuidados a las personas, en la restauración y, posteriormente, en la logística. Todo era correcto, o al menos con pocos errores.

Pero hoy en Italia existe [desde marzo de 2019] la Renta de ciudadanía, a condición de disponer de muy pocos recursos y de aceptar los empleos que pudieran ofrecerse. La pandemia desbordó estas condiciones y se ha creado una temporal Renta de emergencia dirigida a otra parte de la población, pero en todo caso la Renta de ciudadanía sigue vigente.

El ataque de Bonomi a la Renta de ciudadanía desvela sus propósitos: convertir esa Renta en un instrumento residual dirigido sólo a quienes están en la pobreza absoluta, quizás acentuando las políticas activas de empleo en las empresas privadas, con grandes negocios para las agencias de trabajo temporal y para las organizaciones que especulan con la formación profesional. Sobre todo, la aplicación de esta medida no ha frenado en modo alguno el ataque a los salarios, bajo la última formulación que Confindustria ha impuesto en el debate: el salario a destajo. Separar el salario de la duración de la jornada laboral, para combinarlo con la productividad, significa retroceder en el tiempo, en el sentido de la reacción más conservadora.

Hoy más que nunca, a la luz del debate político europeo y nacional, la batalla por los salarios y la batalla por la renta deben librarse conjuntamente. No se puede ganar la primera sin la segunda, pero lo contrario también es cierto.

Sólo un salario mínimo europeo basado en parámetros adecuados (alineados con los Países Bajos y Alemania y no con las Zonas Económicas Especiales polacas) puede anular el dumping salarial que, más aún que el dumping fiscal, favorece a los capitalistas europeos y extra-continentales. Salario mínimo legal, porque la recuperada concertación entre agentes sociales no es garantía de nada. No lo es cuando se trata de convenios amarillos, como el firmado por la Unione Generale del Lavoro con las multinacionales de la entrega de alimentos a domicilio, ni lo es en general.

Que la Confederazione Generale Italiana del Lavoro esté alzando su voz en torno a las renovaciones de los convenios es una buena señal, pero la ruta ya está trazada: en vez de aumentar los salarios, sustituirlos por la introducción o reforzamiento de elementos de welfare en la empresa, principalmente la denominada assistenza sanitaria integrativa [a través de sistemas de sanidad privada], como ya ocurrió en 2016 con la última renovación del convenio de la industria siderometalúrgica.

Esa fragmentación empresarial del welfareva exactamente en sentido contrario a lo que hemos sostenido hasta ahora: un welfare universalista y absolutamente estratégico.

En Italia, la batalla fundamental actual es aumentar los presupuestos de la Renta de ciudadanía existente y la población acogida a ella, reduciendo a nada su exigente condicionalidad y favoreciendo los procesos públicos, aunque no necesariamente estatales, de formación y recualificación profesional. Y será aún más importante cuando desaparezca el bloqueo de los despidos, como viene reclamando Confindustria desde hace varias semanas.

Si no se produce la confluencia entre la oferta y la demanda de mano de obra, eso se debe principalmente a la escasez de la demanda hecha por las empresas, y no sólo por la muy considerable incapacidad de quienes hoy están a cargo de las políticas activas de empleo. Pero si fortalecemos la Renta de ciudadanía y no hacemos nada para reducir las jornadas de trabajo, el problema permanece. El salario mínimo legal (europeo) y la reducción de la jornada laboral son la otra cara de la lucha por el welfare universal y la renta básica. La resistencia del trabajo vivo, por el momento fragmentada y molecular, puede aspirar a una necesaria y muy urgente masificación a través de la presión sobre el salario, directo e indirecto.

4. Romper negociando, negociar rompiendo

No cabe duda de que la tarea es mayor que las fuerzas sociales para abordarla. Las luchas del trabajo vivo están, en efecto, fragmentadas y son moleculares, especialmente las del trabajo precario carente de derechos. Parecería una condición ontológica, un invariante contra el cual el paciente desafío del sindicalismo social sigue siendo impotente. Y, sin embargo, no existen atajos. y no existen a mayor razón si prestamos atención a lo que está sucediendo en Europa. El Fondo de Recuperación, por primera vez desde el nacimiento de la UE, distribuye presupuestos sustanciales que, necesariamente, deberán reactivar el gasto y el empleo públicos. Ya lo hemos dicho: las formas de distribución seguirán siendo las propias de la Europa neoliberal, pero sus magnitudes no tienen precedentes, tienen la consistencia de un Plan Marshall continental.

Esta singularidad de la situación impone un cambio de ritmo. Porque también debilita a los populismos nacionalistas y parece consolidar las múltiples variantes de la Gran Coalición alemana [CDU+SPD o CDU/SPD + Verdes]. Ciertamente, Europa no saldrá ilesa del resultado de las elecciones estadounidenses, donde, en cambio, persiste una guerra civil (no tanto) larvada. Pero ciertamente ha tomado un nuevo camino por ahora. Y la gestión europea de la crisis en la que estamos inmersos, que se suma a la crisis que estalló entre 2008 y 2012 y que la agrava, no nos asegura ningún final feliz, todo lo contrario.

Vemos signos tangibles de ello en la violencia inhumana que Europa disemina en sus fronteras, en gran parte externalizadas a Turquía y en el norte de África, con las masacres en Libia y en el Mediterráneo, para llegar hasta Lesbos. Simplemente, repetimos, es otro terreno, conformado por políticas monetarias y fiscales que no esconden que son keynesianas.

¿Será este nuevo terreno permeable a los empujones dados desde abajo? Como siempre, no se trata de buena voluntad, sino de relaciones de fuerza Y la pregunta entonces es: ¿cómo debe componerse esa fuerza para que sea efectiva? No basta con reafirmar lo que ya sabemos, es decir, que sin lucha no hay reforma del capital.

La ruptura, y solo la ruptura, puede reabrir las oportunidades. Pero la ruptura no se conseguirá con evocaciones repetitivas, que a lo sumo empiezan a asemejarse cada vez más a un género literario, útil para liberar frustraciones y, al mismo tiempo, hacerse el importante. Será el clinamen [nt2]elque determinará, como siempre, la capacidad de aprovechar la oportunidad. La expectativa mesiánica ya no brilla con su extremismo charlatán. El problema importante para nosotros es entender qué significa hoy una política subversiva, en la gran fractura que impone la pandemia, en el “cataclismo del empleo” que está llevando a Europa hacia un reformismo tímido.

Necesitamos luchas sociales ejemplares que puedan perdurar en el tiempo, capaces de combinar ruptura y negociación. Dígase como se quiera, Contrapoderes o instituciones autónomas. Basta con que estemos de acuerdo en que se trata de un poder difusor, fundado en la multiplicidad, que no puede eludir el punto crucial de la convergencia. Pretende consolidar una normatividad diferente, pero no desdeña una reforma legislativa conquistada sobre el terreno. Tiene sus pies firmemente plantados en el escenario extraparlamentario, pero considera tácticamente correcto que las luchas condicionen los ámbitos institucionales de proximidad (nacional y continental).Yendo al grano: un contrapoder que no perdura en el tiempo y que no es capaz de negociar, no es realmente un poder. En todo caso, aunque sea sin decirlo, aspira a “tomar el poder”, sin ningún realismo político.

La institución autónoma de hoy en día se afirma cada vez más como democracia de distinta naturaleza. No sólo porque la democratización del welfare, como hemos indicado, y como ha aclarado de una vez por todas el movimiento feminista, es un paso necesario para que el welfare tenga futuro. Pero también y sobre todo porque el neoliberalismo, a estas alturas ya condenado, ha destruido la democracia liberal en cuarenta años y con ella ha destruido los mecanismos de un gobierno socialdemócrata en materia de fuerza de trabajo y de conflicto social. Consolidar el mutualismo y la solidaridad en las zonas urbanas, reinventar (luchando constantemente) los derechos laborales y sindicales, multiplicar las experiencias de formación autogestionada: no es la ruptura lo que hace falta, pero sí el medio para que la ruptura sea menos improbable y para que, si ésta explota, no se vuelva evanescente e ineficaz. Una “larga marcha”, ciertamente no linealmente evolutiva, una marcha siempre expuesta a la contingencia y en consecuencia capaz de afrontar la coyuntura, pero más bien larga y accidentada.

5. Europa

¿Es Europa el espacio político en el que librar la batalla? Se trata hoy de un problema absolutamente indiscutible. Como hemos dicho antes, el Fondo de Recuperación ha pasado una página, la moneda única va acompañada de la mutualización de la deuda y, en la perspectiva de una política fiscal eficaz, los amortiguadores sociales y el welfarede los distintos Estados miembros tienden cada vez más a homogeneizarse.

En nuestro caso hemos presentado nuestra forma de ver las instituciones autónomas, y al mismo tiempo, como otras muchas personas, hemos tenido la oportunidad de practicarlas en el día a día. Estas instituciones autónomas dan un primer criterio para pensar la acción política como tal en el espacio europeo. Ahora bien, nos estamos esforzando en escribir sobre las formas de organización y lucha adaptadas al espacio político europeo. Y si eso es complicado en general, más aún lo es en un período de pandemia, con una segunda ola que nos golpea duramente y que hará muy difícil toda movilidad. Sin embargo, no queremos eludir nuestras responsabilidades, porque la teoría política, aunque siempre prevé espacios vacíos que solo la práctica pueden llenar, es también ella misma una práctica. Temerosa e inofensiva si no es capaz de asumir riesgos, y procediendo naturalmente según el método de prueba y error.

Por tanto, concluiremos esta intervención con algunas consideraciones sobre los temas de organización y de formas de lucha.

Organización. Reafirmamos lo dicho y escrito en los últimos meses: las plataformas que han acompañado nuestra vida en el distanciamiento social son muchas veces una pesadilla, si pensamos en el Smart Working desprotegido de todo derecho y en la extracción constante de datos que hace posible, pero, por supuesto, son un instrumento útil para relanzar la discusión europea. Es necesario un esfuerzo coral desde el principio: no basta con pregonar tal o cual nodo territorial, es necesario un llamamiento inmediatamente transnacional.

Evidentemente, aún no existe una base sólida de apoyo, pero ciertamente en los últimos años se han desarrollado algunas relaciones. Para empezar, se comparte la urgencia de un nuevo comienzo de los movimientos europeos. Este comienzo no será un producto de laboratorio, exige vivas hibridaciones, ejemplos y hechos concretos. Sin duda, el movimiento feminista y el ecologista ya han demostrado una extraordinaria fuerza de conexión, capaz de converger en el discurso y en las prácticas de lucha con una potente velocidad mimética. Los movimientos y las luchas de los migrantes a menudo se desarrollan en un espacio rico en conexiones transnacionales La formación de una flota civil para el rescate marítimo es un ejemplo de cooperación europea desde abajo, tanto más importante en un momento en el que se retoma la iniciativa de la Comisión Europea en el Mediterráneo, bajo el signo de la intensificación de las expulsiones y de la futura externalización de los controles fronterizos.

No partimos de cero, en definitiva. Fondo de Recuperación para el Pueblo podría ser el lema que posibilite la puesta en marcha de movilizaciones descentralizadas con niveles de coordinación al menos similares y convergentes.

Formas de lucha. Hay que tener claro que actuar en el espacio político europeo no significa necesariamente manifestarse en Bruselas o lanzar campañas europeas. Estas acciones pueden ser útiles y en ocasiones necesarias, pero quizás sea más importante en este momento entender que las luchas aisladas en un contexto local y nacional pueden tener un carácter inmediatamente europeo. Una batalla victoriosa por la orientación de los presupuestos del Fondo de Recuperación en un país como Italia tendría repercusiones en todo el continente, fortaleciendo movilizaciones similares en otros lugares. Un movimiento como el de los chalecos amarillos en Francia, que entre otras cosas planteó el problema de la lucha por el salario, tuvo resonancias mucho más allá de las fronteras nacionales y además abrió un frente sobre las políticas presupuestarias cuyos efectos no pueden dejar de repercutir en las propias políticas europeas. La acción para captar y exaltar la dimensión europea de las luchas, de las campañas y de los movimientos singulares debe, en definitiva, ir acompañada del compromiso de construir y fortalecer procesos de coordinación a nivel transnacional.

No faltarán en los próximos meses las ocasiones de conflicto y movilización en los diferentes frentes señalados, en Italia y en el resto de Europa: desde la cuestión de la renta y los salarios hasta las decisiones sobre el destino de los fondos europeos. Todo esto ocurrirá en una situación muy condicionada por la pandemia, en la que nos encontramos con una dificultad fundamental para practicar formas tradicionales de lucha, especialmente en lo que respecta a las acciones de masas en el espacio público. Por supuesto, el formidable ciclo de movilizaciones en torno al lema Black Lives Matter en Estados Unidos muestra que esta dificultad puede eludirse en condiciones excepcionales. Pero nos parece que, mientras tanto, debemos asumirlo con realismo. Lo hemos dicho desde el principio: debemos inventar y experimentar formas de lucha y movilización adaptadas al momento que vivimos. Debemos redescubrir el gusto por la provocación creativa, volver a poner la acción directa y la desobediencia en la agenda anclándolas en las nuevas condiciones de vida y explotación. Loslashmobs de Ni una menos, que cantaron Un violador en tu camino, nos ofrecen un ejemplo de cómo apropiarse del espacio público y transformarlo en el escenario “teatral” de una actuación políticamente poderosa y eficaz. De manera más general, las acciones creativas y focalizadas pueden hoy producir una multiplicidad de resonancias y desencadenar procesos de movilización más amplios cuando no son sólo la expresión de nuestro activismo sino que incluyen desde el inicio el protagonismo de los sujetos sociales afectados por la crisis. Construir minorías activas capaces de implementar acciones de este tipo nos parece una tarea fundamental en esta fase.

Traducido por Trasversales a partir de las versiones en italiano (euronomade.info/?p=13920) y en francés (euronomade.info/?p=13958) publicadas en euronomade.info

Incluye dos notas, nt1 y nt2, que son responsabilidad de la traducción, no de los autores.

Notas de traducción

1. En el término workfare se expresa, aunque de formas muy diferentes, la pretensión de que las prestaciones sociales se condicionen a un disciplinamiento de las personas receptoras, que puede ir desde formas laxas, como la obligación de ser demandante de empleo y presentar “X” currículos al mes (“políticas activas de empleo”), hasta formas de trabajo forzado gratuito o muy mal retribuido para entidades públicas o privadas o incluso para empresas capitalistas, lo que, por otra parte, “tira hacia abajo” de los salarios.

2. En Lucrecio “El clinamen es, pues, la espontánea desviación de la trayectoria de los átomos, que rompe la cadena causal, determinista, de su movimiento, introduciendo así un fundamento físico para justificar la acción libre, en los seres humanos, y el azar” (Glosario, webdianoia.com). Diversos autores adaptan ese concepto al ámbito de la acción humana. Boaventura de Sousa Santos, al desarrollar su concepto de Acciones-con-clinamen, se refiere a la creatividad y al movimiento espontáneo que perturba las relaciones de causa-efecto y el determinismo. En cierta forma, quizá podríamos decir que Lucrecio nos habla así de ese movimiento de libertad que no es reducible a necesidad ni a azar.

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