Di TONI NEGRI

C’è, nell’esperienza operaista, un punto dolente: ed è, dall’inizio, una certa disattenzione a proposito della questione ecologica. Inutile girarci attorno: è una mancanza che non solo si sente superficialmente (rivelata dall’assenza del tema negli scritti e nel lavoro politico degli operaisti) ma che sta nel profondo, spesso presentandosi come ostruttiva di ogni interesse o apertura sulla condizione ecologica. Riconosciuto tutto questo ed assumendolo come dato storico non cancellabile, chiediamoci tuttavia da cosa sia dipesa questa chiusura, se sia trattato di qualcosa che davvero non poteva in alcun modo svilupparsi nel quadro dell’operaismo, o se invece quell’esclusione non dipendesse dall’eredità nascosta di un certo materialismo ottocentesco e dalla pesante destinazione darwinista del naturalismo engelsiano, nonché da una universale cecità a proposito dell’ecologia (colpevolmente assorbita dal Movimento Operaio), più che dalle nuove originali acquisizioni epistemologiche e politiche dell’operaismo stesso. Ci sembra che sia possibile avanzare su questa seconda ipotesi prendendo in considerazione un tipico pensatore di questa congiuntura – André Gorz – che si muove fra questi due campi e, pur dentro la pratica teorica di un basilare marxismo operaista, sposa un programma ecologico. Che questo programma riesca poi a realizzarsi, o no, è problema susseguente all’ampio tentativo di rifondazione in questa occasione sperimentato: solo quando avremmo ripercorso il cammino di Gorz potremo dare una risposta decisiva.

Mi permetto dunque di cogliere l’occasione della lettura di un’antologia di scritti di ecologia politica di André Gorz (Leur écologie et la nôtre. Anthologie d’écologie politique, textes rassemblés et présentés par Françoise Gollain et Willy Gianinazzi, Éditions du Seuil, Paris, 2020) per tentare di sbrogliare questo problema e per cercare un approccio a quel che si potrebbe definire un “operaismo ecologico”. Non che André Gorz sia un “operaista” – pur avendo conosciuto ed apprezzato (nonché pesantemente criticato, come vedremo) l’operaismo italiano negli anni ’60-’70 del secolo scorso. È tuttavia un marxista critico che, rifiutandosi all’umanesimo moralizzante (tanto importante nella recezione ed insieme nella ideologizzazione mistificata del marxismo uscita dalla seconda grande guerra), impianta il suo approccio allo studio del capitalismo nella prospettiva critica del “lavoro vivo”. In questo modo, il marxismo di Gorz si colloca in quella grande corrente che, nella seconda metà del secolo XX (in fecondo dialogo con le lotte operaie) assume “dal basso” il punto di vista della critica del lavoro produttivo, attraverso l’esperienza delle trasformazioni dei modi di produrre e della composizione tecnica della forza-lavoro – approfondendo l’apprendimento e la critica di questi processi materiali nella Umwelt complessiva (più tardi si dirà “biopolitica”) dello sviluppo capitalistico – misurandone così, da un lato, la potenza; dall’altro, la forza distruttiva. Muovendosi sul primo terreno, Gorz si avvicina fortemente agli operaisti; avanzando sul secondo, mostra – a chi voglia seguirlo – una via per integrare all’operaismo una sensibilità e strumenti di analisi ecologisti.

Ma osserviamo il cammino di Gorz più da vicino. Fino agli anni ’70, egli si muove come marxista sartriano. In questo quadro, la sua attenzione al mondo del lavoro va dove lo portano le correnti più aperte del marxismo d’epoca. La critica dell’alienazione, la denuncia del divenire “pratico-inerte” della mercificazione capitalista ed il tentativo di leggere e smacchiare la traccia che lo sfruttamento universalmente determina sui modi di vita – tale sembra essere la sua preoccupazione fondamentale. L’opera di Lefebvre gli è, per esempio, teoricamente e politicamente vicina – fermo restando che per André Gorz è il mondo del lavoro, la crisi della fabbrica sociale fordista ad essere al centro della sua indagine. È solo con il 1973 e quel che segue alla domanda di restaurazione politica da parte  della Trilaterale occidentale, nonché (cosa decisiva) alle politiche di Nixon-Kissinger di liquidazione neoliberale del riformismo keynesiano – è solo dunque in quel momento che a Gorz appare la dimensione globale della crisi ecologica come aspetto della distruzione capitalista del pianeta. L’Antrapocene come agonia del capitale? Le nuove politiche sembrano a Gorz approfondire la crisi del modo capitalista di produzione e sviluppare conseguenze disastrose per gli strati del lavoro dipendente nella divisione del lavoro su dimensioni globali – conseguenze non solo economiche ma “vitali” (nel senso che le forme di vita sono poste in pericolo e la sopravvivenza non è più garantita). Ecco qui il Gorz operaista. La sua analisi passa dai temi legati alla critica della divisione del lavoro ai temi di Adieux au prolétariat (1980), lucidissima liquidazione dell’assorbimento/disfacimento delle politiche sociali del Movimento operaio (= l’insieme delle forze socialiste e comuniste, legittimate dal riferimento al Movimento operaio) all’interno delle politiche distruttive di un capitalismo in crisi. Poi, man mano, negli anni ’90 e seguenti, l’analisi gorziana approfondisce il rapporto critico fra capitale e lavoro – laddove l’emancipazione del lavoro si sposa alla conquista della sua propria autonomia quando il “lavoro immateriale” sarà infine capace di costruire un’altra società, l’“altra civiltà del non-lavoro”. L’avanzamento di Gorz su questo terreno è determinato dalla sensibilità alla trasformazione del modo di produrre attraverso automazione e reti informatiche – sicché il capitale fisso è sì accumulato dal capitale complessivo ma, al momento stesso, il lavoro vivo si appropria di un ampio spazio di autonomia all’interno del rapporto produttivo socializzato. È dentro questa scissione, quando (nella rivoluzione del modo di produrre) l’uno si è diviso in due, che la critica va reimpostata. Spingere verso la rottura con il comando di capitale, sviluppare un’autonoma società del non-lavoro: possibilità o utopia?

La prossimità delle tesi di André Gorz e di quelle operaiste non si palesa solamente in questo parallelismo delle istanze utopico-politiche nella forma dell’emancipazione incarnata dall’autonomia produttiva. Si insinua anche e soprattutto nell’analisi del valore-lavoro, delle forme valorizzanti del lavoro vivo e (conseguenze di una concezione non individuale della valorizzazione) nell’analisi della socializzazione della forza-lavoro e dei processi di estrazione del profitto. E, come gli operaisti, Gorz proporrà a partire dal primo decennio 2000 la generalizzazione di un “reddito di cittadinanza” come strumento economico che permetta la riproduzione della vita nell’esodo dalla società del lavoro e della merce.

Quanto è complicato tuttavia questo cammino! E quanto ridonda quest’ambiguità quando si approssimino o addirittura si sovrappongano (come talora sembra) il percorso gorziano e quello operaista: dobbiamo riconoscerlo. Entriamo però in questo intreccio, nella speranza di chiarirlo. I curatori dell’Antologia dopo aver definito i caratteri generalissimi dell’Antropocene gorziano ci offrono la possibilità di questo confronto attorno a tre gruppi tematici dei suoi testi: il primo raccoglie la definizione di ecosocialismo, il secondo la critica della tecnica e della scienza, il terzo i problemi della liberazione dal dominio del lavoro (inteso come dominio dell’uomo sull’uomo, dentro la temporalità della riproduzione del mondo). Ora, nel primo capitolo, ritroviamo un punto d’incontro, tra Gorz e gli operaisti, assai lineare per entrambi: il modo di produzione capitalista non può esser visto né come soddisfacimento di bisogni collettivi né come produttivo di beni comuni riappropriabili dalla comunità. Sottoposta nell’Antropocene a queste condizioni produttive, l’intera Umwelt umana, e tanto più la sua sempre connessa materialità naturale, vengono man mano distrutte o sconvolte dal flusso produttivo di merci che le assale, per la ricchezza dei pochi e la miseria della moltitudine. La Umwelt naturale è investita dalla follia capitalista che impone criteri di valore superflui quando non assassini, e toglie consistenza ad ogni ricerca del normale, del giusto, del semplicemente necessario. In che cosa consiste la contestazione di questo destino? Qui nasce il problema, e qui insorgono le ambiguità che abbiamo lamentato.

Prima di cercare soluzione a questo problema, guardiamo agli altri due punti della critica ecologica di Gorz. Anche sulla critica della scienza e della tecnologia, la vicinanza di Gorz alle posizioni operaiste è profonda. Il sistema tecnico-scientifico va preso nel suo complesso e criticato non in quanto tale (in Gorz non v’è nulla che richiami a Heidegger o al mainstream della sua recezione volgare) ma piuttosto in quanto incapace di liberarsi dalla logica del profitto e dai disastrosi effetti di un eccessivo investimento della natura – ingordo e criminale. L’esempio più chiaro a questo proposito – a suo modo eccessivo – è quello offerto dalla espropriazione capitalista di un bene comune quale è l’atomo (nell’industria nucleare) – con questa espropriazione il capitalismo determina un regime di eccezione non solo antidemocratico ma di devastazione del cosmo. Quando poi l’energia nucleare sia sviluppata a fini bellici, non è la morte tout court che investe il mondo intero, l’ambiente, la vita, imponendogli un’ombra devastatrice? Fin qui operaisti e gorziani vanno ancora d’accordo. E tanto più lo sono quando, a fronte del terzo blocco di questioni (a proposito del dominio capitalista sul lavoro), André Gorz spinge per una definizione alternativa del lavoro che insorge contro l’organizzazione capitalista e in questo senso pone il “rifiuto del lavoro”, la fuoriuscita dalla società del lavoro come progetto centrale. Qui Gorz si riferisce ad altri autori marxisti come Kurz e Postone per avanzare su questa linea. Si badi bene: quando Gorz parla di “rifiuto del lavoro” non si riferisce semplicemente al rifiuto operaio della mansione produttiva, non ripete semplicemente il “grido di battaglia” dell’operaio fordista – si riferisce piuttosto, in maniera positiva, all’“autonoma autovalorizzazione” che ogni lavoratore, ogni cittadino può conquistare rompendo il nesso di sfruttamento, rifiutandosi all’estrazione di valore (da parte del capitale) dalle sue mani o dal suo cervello. Che dire? Riconosciamo che a questo punto della partita Gorz ha ben giocato una mossa di cavallo, ponendosi definitivamente dentro al confronto diretto con l’operaismo e portandovi la presa di coscienza che in quel gesto di rifiuto l’intera Umwelt umana, la natura e la storia, sono implicate.

Torniamo così al punto che avevamo tralasciato, alla contestazione portata dall’ecosocialismo contro la crisi della società del lavoro: qui sorge infatti il tema della “decrescita”. In che cosa consiste? In un progetto anticapitalista fondato sulla limitazione dei consumi e legato alla capacità di autodeterminazione dei soggetti. Va qui notato che la critica della progressiva mercificazione di tutti gli spazi della nostra esistenza e dell’induzione massificata di nuovi bisogni artificiali, si era installata fin dagli anni ’70 nei linguaggi della sinistra sovversiva – Marcuse docet. Ciò concesso, è accettabile questo punto di vista? È utile affrontare il tema dello sviluppo capitalista (e la sua critica) non più dal punto di vista della produzione (e del rifiuto del lavoro) ma da quello del consumo, dal rifiuto delle merci? Questo non ci sembra in nessun modo ammissibile. Riconosciamo ad André Gorz il fatto che questa scelta non è in lui definitiva – ci permettiamo tuttavia qui di criticare gli autori di quest’Antologia per aver sospinto un po’ troppo la loro interpretazione in questo senso (e cioè verso un’attribuzione a Gorz della qualifica di “autore della decrescita”). In effetti, Gorz non ha mai rifiutato la definizione marxiana del capitale come antagonismo di lavoro morto e di lavoro vivo, come campo di battaglia (e non di esclusione) tra capitale costante e capitale variabile, ma soprattutto ha per mille versi anticipato una visione socializzata, “biopolitica” di questo rapporto capitalista ed ha visto da principio il dualismo dello sfruttamento estendersi ed impiantarsi dalla fabbrica alla società.

Ma allora, replicheranno i curatori dell’Antologia, voi pensate di poter recuperare interamente Gorz all’operaismo? Non vi sembra scorretto, se non altro dinnanzi alle esplicite denunce che Gorz eleva contro l’operaismo “consumista” nella sua opera? Replichiamo: è evidente che Gorz non si colloca nell’operaismo. Il fatto di porre il lavoro vivo alla base (dal basso) della critica del rapporto di capitale e di svolgere nella complessità “biopolitica” dell’Antropocene la sua analisi, non è sufficiente a sovrapporre la sua démarche a quella operaista. Perché quest’ultima mantiene sempre il rapporto fra la violenza del dominio capitalista e la potenza del lavoro vivo come presente e attivo. Gorz se ne dimentica talvolta e sdrucciola in derive sottoconsumiste… ma non si tratta di una deriva del suo pensiero, egli non oppone “decrescita” a “sciopero”, anzi mantiene viva la concezione del capitale come rapporto antagonista, pur non riuscendo sempre a coglierne il movimento, la vitalità e la sua verità come lotta di classe. Questo manca a Gorz. Non basta a farne un sottoconsumista come non basta a farne un operaista.

Gli operaisti possiedono dunque un’ecopolitica? Non l’hanno avuta, ma possono costruirla tenendo presente una serie di elementi che il loro pensiero e il loro lavoro ha fin qui incompiutamente sviluppato. Un lavoro che, nella loro storia, conosce una base larghissima – dalle lotte contro il nucleare a quelle contro la nocività industriale, dentro e fuori dalle fabbriche, dalle lotte sulla scuola a quelle accanto ai migranti, fino alla resistenza contro lo stato d’eccezione pandemica – e che essi hanno sempre sviluppato senza cadere nell’orrore di pensare che i bisogni siano infetti e che il capitale morto possa ridurci all’impotenza. Che significato può avere essere contro il consumo quando non si vive se non si consuma? La pretesa dei “sottoconsumisti” è altrettanto assurda quanto lo è quella degli “accelerazionisti” – che pensano si possa dar fine al modo capitalista di produzione solo dopo aver spinto all’assurdo la sua capacità di ricoprirci di merci. Al contrario, è rivendicando ed attualizzando il “rifiuto del lavoro” – come rifiuto del comando sul lavoro e costruendo un’alternativa autonoma che si opponga, ovunque e continuamente, al comando capitalista sulla riproduzione del mondo – è solo dunque in questo modo che nell’Antropocene possono essere stabilite nuove vie di liberazione. Perché il pensiero e le lotte dell’operaismo autonomo cooperano nel definire l’ostacolo che il bisogno può trovare ed il premio che la lotta può ottenere. Produzione e consumo sono due facce del comune che la disciplina del capitale impone in varie figure di separazione. Il rifiuto del lavoro attacca questa disciplina per annullarne gli effetti.

Per concludere, ricordiamo quello che nei medesimi anni nei quali si è svolto il lavoro di Gorz, scriveva Félix Guattari: “Quello che m’interessa e m’inquieta allo stesso tempo è lo sviluppo di un’ecologia interamente centrata sulla natura, sulla difesa della specie: dunque una sorta di visione identitaria che può sboccare su un conservatorismo, su un autoritarismo del tutto inquietanti. Per me, la difesa delle specie materiali, delle specie naturali, delle specie vegetali e animali è inseparabile da quella delle specie incorporali. Faccio sempre l’esempio del cinema d’autore, dei valori di solidarietà, degli universi di fraternità, di socialità e di vicinanza, del calore umano, dell’inventività. Anche queste sono specie in via d’estinzione che devono essere difese. Il problema dell’impegno soggettivo (agencement) diviene primo in rapporto all’oggetto considerato, all’oggetto ecologico.” Se le cose stanno così – e Gorz sarebbe probabilmente d’accordo –, gli operaisti possono offrire agli ecologisti una vasta scelta di “pratiche adeguate allo scopo”, vale a dire di esperienze di lotta contro i nemici della natura e dell’umanità. Nell’unione si vince. E daje!

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