Luigi De Michele*

Nella mia esperienza di medico ospedaliero in Italia, prima, e in UK, poi, ho maturato la convinzione che la drammatica pandemia da COVID-19 che stiamo vivendo da ormai quasi un anno richieda, per poter essere fronteggiata con qualche speranza di successo, un’analisi della complessità delle cause che la determinano e degli effetti che genera. Conosciamo l’agente patogeno e la sua fisiopatologia, ossia le complicanze respiratorie,  cardiovascolari, emboliche ecc., ma le conseguenze della malattia vanno ben oltre la medicina. Esse, come noto, investono l’economia e l’intero tessuto sociale, mettendo in crisi la razionalità neoliberale che ha portato alla disintegrazione dei servizi pubblici e creato enormi diseguaglianze sociali. Vorrei quindi suggerire un approccio allo studio del fenomeno che assuma la complessità come metodo. Non sono un esperto di economia né tantomeno di politica. Sono un medico specialista in medicina interna ed ho lavorato per anni in reparti di emergenza, soprattutto nel Pronto Soccorso, di grandi ospedali romani, condividendo con colleghi e pazienti i drammi generati da un servizio sanitario in grossa crisi già da tempo.

L’analisi della pandemia prevede ovviamente una conoscenza dell’agente patogeno, il SARS-CoV-2, la sua virulenza, la capacità di diffusione, e lo stato di benessere dell’ospite. Sappiamo bene che gli anziani, i pazienti immunodeficienti e quelli con fattori di rischio cardiovascolare e metabolico sono soggetti più di altri a complicanze, con conseguente incremento della mortalità. Ma sappiamo anche che le persone appartenenti alle comunità asiatiche e black sono più esposte al rischio di sviluppare complicanze respiratorie. La genetica in questi casi non aiuta. È invece noto che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna queste fasce di popolazione vivono condizioni di vita più disagiate e sono maggiormente esposte al virus. I fattori culturali hanno la loro influenza, ma in medicina è ben noto che le diseguaglianze economiche impattano drammaticamente sulla qualità e sull’aspettativa di vita. Per esempio, gli effetti benefici della dieta mediterranea sull’apparato cardiovascolare sono assai minori nelle fasce sociali più povere, probabilmente per la minore qualità degli alimenti. D’altra parte, le persone a rischio di esclusione sociale e soprattutto le giovani donne, molto più di altre classi sociali e occupazionali, evidenziano una minore adesione alla dieta mediterranea. Più in generale, nelle ultime decadi, nonostante che i vantaggi per la salute di questo regime alimentare siano ampiamente documentati, il suo rapido declino è stato chiaramente determinato da fattori socioeconomici.

L’accesso alle cure sanitarie è chiaramente più difficile per i meno fortunati dal punto di vista economico e questa è una realtà crescente e preoccupante. Com’è ovvio, la sanità privata non è un bene accessibile a tutti. Negli ultimi decenni è documentata una drammatica riduzione degli investimenti nella sanità pubblica che, in particolare negli ultimi dieci anni, ha subito la scure dei tagli ed ha pagato un prezzo salato alle misure di austerità imposte dal modello neoliberista e da una finanziarizzazione senza regole, in un contesto di globalizzazione dominato da  oligarchie internazionali monopolistiche assai aggressive. Tanto ha colpito pesantemente non soltanto le strutture ospedaliere, ma anche e in maniera altrettanto grave le strutture di prevenzione sul territorio. In Inghilterra, dove attualmente lavoro, i tagli hanno coinvolto, fra gli altri, i servizi di supporto per la dipendenza da fumo che sono notoriamente efficienti e di successo.

Sappiamo che la prevenzione ha un’importanza decisiva rispetto al rischio di sviluppare complicanze una volta contratto il virus. Il benessere psicofisico, l’accesso ai servizi di prevenzione e sanitari, in genere, influenzano il decorso della malattia. In Italia le strutture ospedaliere versano in condizioni disperate e sono incapaci a tutt’oggi di sostenere la pandemia. Ma il sovraffollamento dei reparti di emergenza non è cosa nuova. Ho vissuto in prima linea il dramma dei giovani medici costretti a barcamenarsi fra pazienti con manifestazioni acute o instabili, bisognosi di valutazione medica immediata, barellati nei corridoi del pronto soccorso per mancanza di spazi medici adeguati. Anch’io all’epoca ho dovuto confrontarmi con pazienti e parenti giustamente esasperati. Ho visto posti letto tagliati e ridotti ad ogni finanziaria del governo di turno in alcuni degli ospedali romani d’eccellenza, come il Policlinico Umberto I e il Sant’Eugenio. La privatizzazione dei servizi ha comportato l’ingresso nel SSN delle cliniche convenzionate, che, va detto, offrono servizi scadenti in medicina generale, e dissanguano l’erario, approfittandosi della negligenza della politica e dichiarando prestazioni non effettivamente erogate. Il personale medico e sanitario, vittima di nepotismi e di frustrazioni generate dalle scarse possibilità di carriera, è stato prostrato da queste politiche aberranti. Molti colleghi, me compreso, sono emigrati all’estero esasperati da condizioni di lavoro anche contrattualmente umilianti. Di fatto viviamo a tutt’oggi gravi carenze di personale sanitario, attualmente incolmabili.

In Inghilterra lavoro da anni in reparti di geriatria. Sebbene le specialità siano simili, esiste una grossa discrepanza culturale fra medicina interna e geriatria nell’approccio al malato, discrepanza fonte anche di sarcastiche diatribe fra gli addetti ai lavori. Per semplificare, la medicina interna si occupa di diagnosi e la geriatria del paziente anziano nel suo complesso. Per me l’approdo nei reparti geriatrici ha rappresentato un avanzamento professionale notevole in particolare in virtù dell’attuale diffusione delle malattie croniche non trasmissibili e della necessità di un approccio olistico al paziente con comorbilità. La geriatria infatti, una volta fatta la diagnosi, si occupa dell’aspetto funzionale del paziente nelle sue complesse sfaccettature, di identificarne le disabilità, le fragilità, intervenendo sistematicamente sui fattori che ne compromettono la qualità della vita. Il geriatra identifica come fattori di disabilità condizioni comuni nell’anziano come il deterioramento cognitivo, la depressione o altre malattie psichiche, la inabilità ad espletare in modo autonomo le funzioni quotidiane, la percezione di un deterioramento della propria salute o della qualità della vita dovuto a malattie o fragilità in genere, la difficoltà nella deambulazione, il rischio di cadere, l’incontinenza urinaria, la scarsa qualità dell’alimentazione o una vera e propria malnutrizione. L’intervento geriatrico per essere efficace richiede infine un approccio multidisciplinare. Questo approccio richiede quindi, accanto ad una valutazione dell’eziopatogenesi della malattia, una valutazione dei fattori di rischio e delle variabili che potrebbero impattare sulla prognosi.

Potrebbe sembrare superficiale traslare questo approccio alle politiche che sono richieste per una corretta azione di controllo della pandemia. Ma quello che chiaramente manca nell’analisi della corrente situazione è un approccio scientifico sistematico alle condizioni che complessivamente predispongono al dispiegarsi della pandemia e dei fattori di rischio. Quindi manca una presa di coscienza delle trasformazioni che necessariamente la società dovrà affrontare. Come osservato in linea generale, abbiamo attualmente una popolazione complessivamente fragile e soggetta a complicanze: è quella vittima di disparità economiche che incidono sull’accesso alla sanità e, in ultima analisi, sulla qualità dell’esistenza e sull’aspettativa di vita. Accanto alle politiche di distanziamento sociale e, in generale, di controllo della diffusione del Coronavirus è necessario, a mio avviso, analizzare ed affrontare i fattori di rischio nella popolazione, in particolare i fattori prognostici.

Sappiamo che l’obesità e l’ipertensione arteriosa predispongono ad un decorso sfavorevole dell’infezione, ma sappiamo anche che queste condizioni sono drammaticamente cresciute nella popolazione negli ultimi anni, in particolare in quella giovanile. Quello che purtroppo non conosciamo con precisione è l’impatto dei fattori ambientali sulla diffusione globale della pandemia. Si pensa che le particelle sottili possano veicolare il virus (il caso di Bergamo sembra dimostrarlo) e sembra che le misure di lockdown abbiano ridotto con l’inquinamento la propagazione del virus stesso. Sappiamo però, ad esempio, che l’inquinamento atmosferico, a partire da quello delle polveri sottili nelle grandi metropoli, incrementa le riacutizzazioni bronchiali dell’asma e della bronchite cronica. E studi suggeriscono che l’inquinamento può indurre un incremento di nuovi casi di asma. Si delinea così la necessità di un approccio politico complessivo alla pandemia che ovviamente richiede un supporto scientifico più robusto.

L‘ultimo profilo che voglio toccare riguarda l’impatto disarmante della pandemia sulle malattie mentali. In Gran Bretagna, in particolare, sono aumentate esponenzialmente le violenze domestiche, le riacutizzazioni psichiatriche e le richieste di consulenza psicologica. In Italia sono in aumento i suicidi ed i tentativi di suicidio fra i più giovani. È noto, d’altro canto, che la malattia mentale in genere predispone a malattie cardiovascolari influenzando l’attività motoria fisica, il peso e l’esposizione a fattori nocivi come il fumo, l’alcol, le droghe in genere. I pazienti con malattie psichiche spesso trascurano la loro salute fisica, tormentati dalle loro preoccupazioni. La diagnosi clinica è dirimente per evitare confusioni. Condizioni depressive reattive sono purtroppo da attendersi. Tuttavia, un approccio organicista e l’impiego di farmaci antidepressivi su larga scala sarebbe  metodologicamente sbagliato. A mio avviso, è necessario un ripensamento o meglio un’analisi complessa della qualità del benessere psichico in una società aggressiva e alienante come quella capitalista, ora anche ipertecnologica. Ben venga il lavoro della psicoterapia con approccio psicodinamico, ma ben venga soprattutto un lavoro politico sul tessuto sociale, ed interventi che supportino le esigenze esistenziali, dei giovani, in particolare, oltre i bisogni materiali.

L’impatto dell’epidemia sulla vita psichica delle persone dimostra quanto sia importante, accanto alla soddisfazione dei bisogni materiali, l’attenzione alle esigenze esistenziali in tutte le complesse sfaccettature che caratterizzano la vita nelle società contemporanee. La crescita della partecipazione alla sfera pubblica e della coscienza politica degli individui si riflette positivamente sull’intera collettività anche in tempi di pandemia: la stessa implementazione di misure di protezione sociale come l’adesione spontanea al lockdown (come i casi del Giappone e del Sud Corea dimostrano) è agevolata da una visione più inclusiva e solidale della vita sociale. L’accoglienza, una maggiore integrazione sociale, contribuiscono quanto se non più della medicina, ad affrontare crisi come quella indotta dalla diffusione del COVID-19.


* Medico internista, attualmente Clinical lead della Rapid Access Diagnostic Clinic, Guy’s Hospital, London


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