Riprendiamo qui l’intervista di Niccolò Cuppini a Toni Negri sulla Comune di Parigi. Pubblicata per Planetary Commune, può essere scaricata in formato pdf qui. L’intervista è stata tradotta in spagnolo e in francese.

Di NICCOLÒ CUPPINI e TONI NEGRI

La Comune come evento storico

Partiamo dalla Comune di Parigi come evento storico. Qual è la tua elaborazione rispetto a cosa significò la Comune in quel momento storico, come evento di quell’epoca, come Marx lesse la Comune e che tipo di trasformazioni produsse nel pensiero politico ma anche nel movimento operaio?

È un evento talmente formidabile da un lato e complesso dall’altro che è sempre difficile definirlo. Ci sono due punti estremi per parlarne: da un lato il vecchio libro di Prosper-Olivier Lissagaray (Histoire de la Commune de 1871), che è la cosa più importante, più oggettiva mai stata scritta sulla Comune con la freschezza di un combattente e la verità di un profugo della Comune stessa; dall’altra parte il nuovo libro di Kristin Ross, che è la cosa più recente. Il libro di Ross, Lusso comune, nasce da una tesi accademica su Arthur Rimbaud, il poeta – a partire da quel poema formidabile (L’orgie parisienne ou Paris se repeuple) scritto durante la semaine sanglante, la settimana in cui la Comune viene massacrata dai versagliesi vincitori.

C’è una strofa bellissima, che qui ricordo:

Quand tes pieds ont dansé si fort dans les colères

Paris ! Quand tu reçus tant de coups de couteau,

Quand tu gis, retenant dans tes prunelles claires

Un peu de la bonté du fauve renouveau.

Quale più potente ricordo di quella rivolta comunista! Sono versi ai quali sono davvero legato, li avevo messi a suo tempo in exergue ne Il dominio e il sabotaggio. Lì Parigi è la follia rivoluzionaria, Parigi la pazza, Parigi martire – sotto i coltelli versagliesi – di un rinnovamento matto e selvaggio. Fauve è tutto questo.

La Comune è l’evento per eccellenza, in tutti i sensi. Da un lato perché attorno all’insurrezione si accumula il massimo delle forze che si erano organizzate nel cinquantennio precedente. A partire dagli anni Trenta, quelli descritti dai Miserabili di Victor Hugo. E quindi dal sorgere del “liberalismo sovversivo” contro la Restaurazione. E dall’altra parte la Comune è il prodotto dell’affermarsi e del consolidarsi delle corporazioni degli operai in lotta – quelle stesse che nel giugno del 1848 avevano fatto una prima apparizione organizzata di lotta rivoluzionaria e armata. La costruzione delle barricate, nuovo esperimento di architettura cittadina – che è appunto raccontata tra l’altro ne I miserabili (libro che ho riletto recentemente, non so nemmeno perché – non avevo più voglia di studiare e mi sono messo a rileggere queste mille pagine e le ho lette tutte, anche le parti più noiose – tra queste ci sono quelle sulle tecniche della costruzione delle barricate – che non sono le cose più semplici da fare) – il proletariato parigino dunque si barrica, questo terrorizza i padroni.

Ecco lì, nella Comune, l’espandersi del socialismo del movimento operaio in termini democratico-radicali. E accanto a questo un’altra linea, che è il condensarsi delle energie intellettuali e proletarie in lotta – un fondamento del comunismo per i secoli a venire. Con le conseguenze che sappiamo per l’importanza che quest’esperienza assumerà nella sua forma più rivoluzionaria quando viene recuperata nella riflessione che da Marx in poi si farà di questa esperienza comunarda. Un’esperienza che si organizza attorno ai due elementi sempre presenti e ormai classici nell’azione dei comunisti: da un lato la richiesta di democrazia progressiva, che salta al di là della rappresentanza, e si definisce come democrazia dei consigli, democrazia diretta, democrazia dell’immediata partecipazione. Questo è il primo elemento. E come conseguenza di questa radicalità: la revocabilità dei mandati, il pagamento di un salario per la funzione, semplicemente un salario medio, si dirà quello del lavoro sociale necessario – quindi il rappresentante diventa semplicemente un mandatario, controllato nel tempo della sua funzione ed eguale ai suoi mandatari – ecco la democrazia diretta. E dall’altro lato il tema del salario, su produzione e riproduzione (dove la partecipazione politica deve svelare il suo presupposto astratto che è la cooperazione produttiva e restituirla in concreto attraverso una redistribuzione del profitto) – anche se nella dinamica legislativa della Comune lo si vede in maniera assai ridotta (perché in realtà c’è semplicemente la riduzione dell’orario di lavoro dei panettieri: prima lavoravano l’intera notte, qui viene applicato un orario ridotto. Segna però, questa riforma, l’attenzione che c’è durante tutto – anche se brevissimo – il periodo comunardo alla condizione del lavoro, e al salario, e al reddito).

Questi due elementi – democrazia diretta e reddito per tutti – si combineranno, nella storia della Comune, in forme singolari, che soprattutto Kristin Ross ha messo in luce. Essa non nasce semplicemente dalla confluenza nella Comune proletaria, nella sua gestione, di un ceto intellettuale, quello più democratico, ma passa dall’investimento che la Comune opera sulla vita quotidiana: qui riconosciamo oggi il suo carattere biopolitico. Questo mi sembra fondamentale. Ci si chiede là, in termini molto progressivi, da parte dei cittadini lavoratori: come si fa a vivere insieme? Come si fa a vivere come se si facesse festa? Essere insieme significa avere la possibilità di esserlo, liberamente e in maniera eguale, ed anche in forma esuberante, con le medesime possibilità, e così di formare le nostre passioni comuni nel segno della felicità. Ecco, questa mi sembra la forma storicamente eccezionale ed unica della Comune.

Ritorniamo dunque a cosa è stata propriamente la Comune nell’epoca. Il 1871 parigino è anche un momento di resistenza, non dimentichiamo mai che c’è ancora l’armata prussiana intorno alla città, che i prussiani hanno fatto la pace coi versagliesi, che sono sotto le mura… ma dietro, à côté, c’è ancora l’armata prussiana. Non ci si doveva dunque semplicemente battere per la Comune ma anche contro i prussiani. Non a caso nel 1871, contro i prussiani sono andati a combattere anche i garibaldini. Attorno a Belfort, nelle terre di confine tra la Svizzera e la Francia, nella bassa Renania, le bande garibaldine sono le uniche che tengono botta ai tedeschi, portando anche qui la voce della Comune. Contro i versagliesi e i prussiani, per la Comune, ci sono un po’ tutti, dai garibaldini agli anarchici – che ne hanno poi assunto facilmente il modello – fino ai marxisti. Io credo comunque che ci volesse il movimento operaio così come è venuto costituendosi attraverso l’azione teorica di Marx, perché la Comune risaltasse con il fulgore che ha avuto. Ma davvero questi ultimi hanno preso questo evento in maniera tutta diversa dagli anarchici, o forse no? O forse la Comune funziona come matrice di tutte le stirpi, di tutte le razze, di tutti i generi? La Comune, lo dico spinozianamente, è come la sostanza da cui saltano fuori tutti i modi di essere comunisti. Per me è questo.

La Comune nel tempo

Andiamo avanti nella storia. Come si è riverberato l’evento-Comune all’interno del movimento operaio e dell’altro movimento operaio? C’è un aneddoto di Lenin che balla nella piazza innevata quando la rivoluzione supera in durata i giorni della Comune, ma pensiamo anche all’immaginario politico del ’68 francese e agli scritti di Lefebvre, o ti chiederei anche nella tua esperienza del ’77 italiano se c’erano dei riferimenti, degli ancoramenti alla Comune, e più in generale come ha funzionato la Comune come teoria politica e come immaginario che la Comune ha sedimentato.

Lenin era ancora a Pietrogrado, gli restava da conquistare la Russia intera, quando festeggia per aver superato i giorni della Comune. Ed è indubbiamente la ripresa da parte di Lenìn (io continuo a dirlo Lenìn all’emiliana, come lo dicevano i miei vecchi) di quel che Marx aveva costruito: la Comune come esempio dell’estinzione dello Stato – e qui si fonda l’universalità di quella parola d’ordine. Lenìn (ma già forse Marx) stabilisce una continuità con l’anarchismo, assume la “presa dello Stato” come momento tattico rispetto alla strategia dei comunisti che è ancora quella dell’estinzione dello Stato. Per gli anarchici il momento tattico è invece un passaggio che non conta, alla presa dello Stato non segue un periodo di transizione: lo Stato lo si distrugge e basta. Per Lenìn (e anche per Marx) esiste invece un periodo di transizione, dove evidentemente si pongono dei problemi enormi – tanto più percepiti oggi dopo quanto è avvenuto nell’Unione sovietica, quando il cosiddetto periodo di estinzione dello Stato è diventato un terribile meccanismo staliniano di accentramento dello Stato stesso. Ha creato evidentemente qualche problema per la teoria marxiana dello Stato, per quanto riguarda appunto la sua estinzione, quel che è avvenuto! A me tuttavia interessa, lo dico in modo radicale, il tema comunardo dell’estinzione dello Stato. Non credo ci sia la possibilità di dirsi comunisti se si molla questo concetto. Certo, bisogna assumere questa proposta come un compito teorico e pratico. Quindi – diciamolo in maniera weberiana – senza alcuna svalutazione delle realtà istituzionali e delle funzioni di centralizzazione proprie della complessità dell’intreccio fra Stato e capitalismo, ma anche dei processi di eguagliamento, nelle grandi trasformazioni della vita sociale, economica e civile, laddove la cooperazione sociale si sia fatta più estesa ed intensa. Come appunto avviene oggi.

Ma nello stesso momento in cui si tengono presenti queste necessità, queste urgenze, si pone anche, come dovere di un’etica radicale, l’impegno a dover distruggere ogni idea di “monopolio” della violenza legittima da parte dello Stato. Diciamolo chiaramente: a distruggere lo stesso concetto di legittimità del potere, e a introdurre l’idea della possibilità di un dispositivo plurale di poteri, di consigli, di articolazioni che mettano in atto la dissoluzione della complessità capitalista e di tenere il comando su questa dissoluzione. È questa la scommessa alla quale tutte le tematiche comuniste devono piegarsi – e con la quale giocare. Tanto più oggi, quando il discorso sulla lotta di classe e sullo Stato si concentra sempre più espressamente su un’ipotesi e una teoria di contropotere (in atto). Un contropotere capace di produrre l’estinzione del momento centrale del potere, quello raggrumato nello Stato.

Resta il problema di cosa debba essere una transizione: da A a… cosa? Probabilmente sarà la formula stessa della transizione che costituirà la forma sociale dell’organizzazione comunista, e cioè la forma di quell’attività di costruzione di un intreccio di poteri coi quali, attraverso i quali, si potrà affermare il massimo della libertà e il massimo dell’eguaglianza. E naturalmente anche il massimo della produttività nel suo adeguamento alle condizioni generali (fisiche ed ecologiche) di sopravvivenza della comunità umana.

Detto questo, tornando alla Comune, le due dinamiche che dicevo sopra, la tematica consigliare e la tematica salariale-egalitaria, vivono interamente in tutta l’esperienza comunista. Vivono in Lenìn. Prima di tutto. A me piace scavare in quel che dice Lenìn – e mi sembra chiaro che quando dice: “Soviet + elettricità”, dice esattamente questo: Soviet come distruzione dello Stato e sostituzione delle sue funzioni attraverso il regime dei consigli. E dall’altra parte l’elettricità, che in quella fase è il modo per produrre le condizioni del salariato; il modo per produrre ricchezza; il modo per dare vita a chi deve partecipare al potere e alla sopravvivenza di tutti. Nella vita in comune, la vita precede sempre il potere, sempre, in ogni caso. Per questa indicazione, la Comune è centrale.

Su Lefebvre… è un autore assai importante, anche se per giudicarlo a mio avviso bisogna entrare un po’ meglio dentro le grandi polemiche del dopoguerra – in quelle sull’umanesimo marxiano in particolare – nelle quali è stato incastrato dal PCF e fatto fuori da Althusser. Ecco, bisogna entrarci un po’, perché per me recuperare – probabilmente con Lefebvre – una certa versione dell’umanesimo comunista, resta qualcosa di centrale. Il libro di Kristin Ross, dietro tutte le sue eleganze post-moderne, in realtà tira fuori da ottuse e antiche polemiche proprio questo elemento lefebvriano, l’umanesimo della Comune così come l’umanesimo del primo Marx. Ecco, qui bisogna stare un po’ attenti, perché quando Lefebvre si era occupato del primo Marx, lo aveva fatto con un po’ troppo di connivenza (bisogna riconoscerlo!) con quella che era stata una moda reazionaria dell’inizio del secondo dopoguerra. In questo quadro, l’umanesimo degli scritti di Marx del ’44 viene alzato polemicamente contro il Marx del Capitale. In Italia è Norberto Bobbio che diventa l’eroe del Marx del ’44, civettando naturalmente con Roderigo di Castiglia (pseudonimo di Togliatti su Rinascita). In Germania c’è Iring Feschter che è un colossale revisionista, ben sorretto dall’anima reazionaria dell’intera Scuola di Francoforte. Lefebvre rimane incastrato in questo gioco, e dato che il Partito comunista francese non era così gentile come il Partito comunista italiano, invece di essere trattato con i guanti – come è avvenuto a Bobbio – viene isolato ed espulso dal partito, in maniera infame. Di contro, Althusser interpreta il “puro Marx” contro il Marx giovanile, il logico contro l’umanista, e dà spazio alla cesura per cui Marx diventerebbe solo dopo il ’48 un marxista materialista. Non sono vere né l’una né l’altra cosa: lo sappiamo bene. Ma la politica è al di sopra della verità! Lefebvre aveva a metà ragione, si è fatto prendere in un gioco più grande e ha pagato, perché malgrado fosse indubbiamente il più intelligente del Partito comunista francese, malgrado avesse aperto a un umanesimo biopolitico, all’analisi dei modi di vita e all’invenzione di una nuova fenomenologia materialista del vivere in comune, dando su tutto ciò uno dei più importanti contributi a tutta la nostra esperienza e capacità di analisi di comunisti – malgrado tutto questo, è stato isolato dal milieu che più lo interessava.

E che dire della Comune e del ’77 italiano? Il ’77, se vuoi, ci sta dentro alla tradizione della Comune. Ma il ’77 era molto ignorante, era proprio bieco, le sue fonti erano i fumetti. Comunque è fuori di dubbio che il ’77 nelle sue espressioni ludiche e politiche e nell’organizzazione dei suoi spazi – altra tematica molto recente, la spazialità dei movimenti – è dentro questa tradizione. Anche lo spazio della Comune era per certi versi lo spazio della piazza, della barricata, ecc., lo spazio cui risponderà Haussmann con la sua riforma urbana… per ritagliare questo spazio e per renderlo orizzontale, come il tiro delle mitragliatrici, e farlo, per ciò, impraticabile da parte proletaria. E però lo spazio della Comune è anche e ancora lo spazio delle corporazioni operaie, dei bottegai, uno spazio precostituito. Siccome mi sembra che la ricerca e la polemica tra pensatori dell’urbano si siano recentemente concentrate attorno allo spazio precostituito o allo spazio nuovamente costituito, neocostituito, io sono completamente d’accordo che il tema dello spazio neocostituito sia fondamentale nel pensare lotte e movimenti, ma ho difficoltà a ritrovarlo nel passato antico – probabilmente giungendo fino al ’77. Di spazi comunardi a Milano, nella mia esperienza, c’era solamente il quartiere Ticinese, che poteva tenere un po’ questa qualificazione. O probabilmente qualche volta Quarto Oggiaro o il Giambellino, e a Roma molto di rado si è raggiunto questo livello (penso a Trastevere, agli attacchi al corteo di Nixon per esempio). Ma non si andava al di là. Mentre invece la cosa diventa diversa più tardi – comincia ad essere pensata a Seattle nel ’99 e ad apparire in maniera assolutamente evidente con le grandi lotte del ciclo 2011, con le rivolte arabe e in Spagna con Puerta del Sol. Questa idea della spazialità dei movimenti pone evidentemente dei problemi di organizzazione importanti. Ho provato a studiarli assieme a Michael Hardt in Assembly, ma non credo che siamo riusciti a dare l’idea di cosa significhi fino in fondo. Abbiamo assunto questo leit motiv, questo ritornello del “Go…”, del “Call and respond”, che era il ritornello nel canto degli schiavi neri quando andavano al lavoro. Uno lanciava la domanda, e l’altro motivava la risposta: bene, ecco qualcosa che poteva in qualche modo fissare nel movimento, nella marcia un meccanismo di organizzazione del discorso. Ma neppure questo corrisponde all’esperienza di piazza che ho imparato a conoscere con il 2011. Ho partecipato un po’ in Spagna ai movimenti spagnoli, ho studiato bene il 2013 brasiliano (che è stato un movimento di straordinaria importanza), mi resta il dubbio di non saper bene come si possa definire la nuova spazialità dei movimenti da un punto di vista politico. Ma sicuramente, a partire da allora, la spazialità è diventata centrale. Black Lives Matter, Gilets Jaunes, e oggi i movimenti femminili in Bielorussia – ecco tre esempi fortissimi. Probabilmente, val la pena allora di mantenere la metafora, e dire che vogliamo ripetere la Comune, per tenere in piedi un rapporto tra consiglio e movimento.

Queste difficoltà non tolgono nulla all’immaginario della Comune – anche se, ritornando sulle lotte sociali, negli spazi che occupano, e a Rimbaud, alla poesia che leggevo prima, pur concedendo tutti gli onori a Kristin Ross, bisogna ben ricordare che la lotta di classe è anche una lotta di lutti, di rotture, di perdite, di morte. Non so se sei mai stato a Père-Lachaise, al cimitero della Comune, dove c’è il muro dei fucilati e le fosse comuni. È una cosa che ti viene da piangere quando vai lì, e però bisogna ricordare anche questo: la lotta di classe è bella, ma anche una questione di vita e di morte, e per la Comune è stato anche questo – Lissagaray lo racconta bene.

La Comune planetaria

Proviamo a inquadrare la Comune come forma politica, pensando ad altre geografie e tempi in cui la Comune è stata richiamata – penso in particolare alla Comune di Shangai o a quella di Oaxaca. Anche stando dentro la Comune di Parigi studi recenti tendono a tracciarne una genealogia che non è ascrivibile al semplice perimetro cittadino di Parigi ma che la allarga dentro quella dimensione costitutivamente transnazionale dentro la quale avvengono i fenomeni politici, e dunque guarda anche all’evento parigino dentro una dimensione anche coloniale/decoloniale di lotte che si allargano al di là del momento specifico. Ma appunto, la Comune diventa anche una dimensione politica che non tanto si riproduce ma si propone come una forma politica. Cosa ci dice questo suo ripresentarsi, pur nelle ovvie differenze contestuali?

La Comune ha avuto un enorme significato nel pensiero politico in quanto appunto è stata trattata come forma politica. Ogni esperienza politica, reale, nella quale abitiamo, la ricorda invece come un evento, e spesso come evento sconfitto. Quindi abbiamo da un lato il modello politico della Comune, come modello consigliare, come democrazia diretta. E dell’altro abbiamo l’esperienza di una forma politica reale, di un evento politico reale, che è un evento di sconfitta, di cruda repressione.

Quando ero piccolo ricordo che quando parlavo della Comune coi vecchi quadri del Partito comunista – ed ovviamente lo facevo da entusiasta, come lo è un neofita – questi (prendendomi per il culo) mi ricordavano che la Comune era stata sconfitta, ma che la sua sconfitta era stata ampiamente riscattata dal trionfo della rivoluzione russa e dell’Armata Rossa nella difesa di Stalingrado e nella conquista di Berlino… cose tutt’altro che derisorie… e poi la Cina, ecc. Un terzo del mondo era compreso in questo riscatto. Questa teleologia trionfalista ben presto si rivelò falsa ai miei occhi. Sempre più dovetti tornare ai “principî”, e stare alle nuove esperienze di lotta. E qui il problema è coniugare l’ideale della Comune di Parigi con quella di Shangai o di Oaxaca con la realtà globale nella storia delle rivoluzioni proletarie. Penso che questo sarebbe stato uno dei grandi problemi di Marx, e in qualche modo lo è stato, come si può vedere dalla pubblicazione delle sue ricerche nella vecchiaia, soprattutto antropologiche – detto meglio, oltre Il Capitale. Quando inizia gli studi di antropologia e cerca una continuità delle forme di organizzazione comunitarie tra il passato ed il futuro. Non sono mai stato molto appassionato per questo tipo di avventure intellettuali, perché penso ci sia impossibilità logica nel connettere una forma dell’utopia, pur di un’utopia concreta, a un percorso storico. Posseggo questo scetticismo da vecchio materialista. Però Marx era pur un materialista e tuttavia ci provava, a trovare nell’obscina russa, come appare nelle lettere a Vera Zasulic, la possibilità di determinare una continuità storica del modello comunista. Quanto a Mao: egli fu contrario alla Comune di Shangai, però costruisce le comuni nelle montagne dello Henan – un doppio potere vivente per davvero e armato, con le sue fabbriche ma anche le sue scuole, in cui si producono i quadri comunisti trasformando dei contadini analfabeti nei futuri dirigenti dello Stato socialista cinese – comunque passando attraverso l’esercizio delle armi. Questa è un’esperienza straordinaria, una delle poche, avvenuta in stato di eccezione – non intendo l’eccezione costituzionale, ma l’eccezionale storia di due guerre maoiste, la guerra civile e la guerra anti-giapponese, che si legano l’una all’altra. E qui nel mezzo c’è una prima realizzazione di un contropotere.

Ora, queste grandi dimensioni sono quelle nelle quali, credo, il modello teorico della Comune vada riproposto e adeguato alla realtà. Diversamente, ho molto paura delle utopie, di tutte le utopie. Quando mi guardo intorno, vedo delle esperienze formidabili dal punto di vista etico e politico, le varie Zad, ed altre esperienze spazializzate del conflitto di classe. Non credo tuttavia che con ciò si sia su un terreno che si ponga a livello delle attuali necessità di un pensiero rivoluzionario. Che sono quelle di capire cosa significa determinare un doppio potere che non dissolva la complessità ma riesca a guadagnarla, che riesca a vincerla e a utilizzarla, e al tempo stesso distruggerla. Che non si accoccola dentro la complessità del potere, ma che diventa un virus, che attacca i gangli fondamentali.

Con questa questione è dunque posto il problema di come la Comune possa rappresentare un modello politico, e come esso possa esser valso per esempio nelle esperienze decoloniali, nelle grandi lotte contro il colonialismo. Quando leggi per esempio gli indiani dei subaltern studies, Renajit Guha in particolare, ci sono descritte esperienze formidabili di lotta di classe nelle guerre di liberazione contro il colonialismo inglese in India. Insorgono Stati interi, con milioni e milioni di persone in lotta, in forme che assomigliano molto a quelle della Comune.

Però stiamoci attenti. Siamo entrati oggi in un’età fortunatamente post-coloniale. E non ripeterei l’illusione che con ciò si determini un mondo unificato e liscio – illusione alla quale in Empire sono andato molto vicino – all’illusione che la globalizzazione abbia reso omogeneo questo mondo (il primo, il secondo, il terzo). Ci sono differenze enormi qua e là, c’è poco da fare, però l’ambito unificato globale, imperial-globale è lì. Se dunque queste differenze esistono, vanno intese all’interno di un piano unico. Ora, dentro questo interno, non è la scoperta o la riscoperta di vecchie formule né di vecchie esperienze che può valere – può valere solo un’immaginazione costituente, non piccole utopie. Il problema del potere va posto nella sua interezza. Così come ha fatto la Comune di Parigi.

Chiediamoci allora: come si costituisce un contropotere, o meglio, una pratica di rottura che attraversi e distrugga la complessità del potere capitalista? Non c’è più il solo prendere lo Stato, c’è la sovranità da distruggere, la sovranità capitalista. È purtroppo un altro paio di maniche. E questo passaggio è un qualcosa di maledettamente difficile, anche solo dal punto di vista dell’immaginarlo, ma è il terreno sul quale dobbiamo provare fino in fondo la nostra capacità di analisi e le nostre esperienze. Con la certezza poi che ogni volta che rompi su questo snodo, è una catena che si rompe; ogni volta che rompi quel passaggio, è quasi automatico che tutto il resto crolli, come sempre accade quando si rompe qualcosa di teso. Detto ciò, è chiaro che tutti i problemi singolari conglomerati nel potere (il problema ecologico è indubbiamente centrale oggi) vanno tutti collegati nella distruzione e nella trasformazione dentro una catena prospettica, dentro un solo dispositivo. Questo c’insegna la Comune.

Lo dico sempre ai compagni più cari: dobbiamo immaginare oggi una specie di Pinocchio, e costruirlo in maniera che man mano faccia proprio il senso della complessità. Un po’ come nelle favole del Sei-Settecento si metteva di fronte a un Pinocchietto un fiore per immaginare come l’odorato potesse dar vita agli altri sensi. Oggi non si tratta di fare esperienza di sensi, ma di passioni, di passioni del comune. Dobbiamo inventare il cyborg del comune. Si tratta di combinare il post-moderno (cioè l’economia, la tecnologia, i rapporti sociali e culturali e tutto quello che ci sta dentro) con la passione umanista della Comune, dello stare insieme, del costruire insieme, nella libertà e nell’eguaglianza.

La Comune oggi

Alcune battute finali. Cosa può significare pensare il presente e il futuro politico attraverso la Comune, in due sensi: cosa può voler dire oggi in termini politico-organizzativi la Comune come secessione, separazione di pezzi di metropoli, di territorio, di territorialità, pensare questa dimensione secessiva, di rottura, di parti… Prima richiamavi le Zad come esempi di micro-dinamiche non all’altezza, come pezzetti di territorio in secessione, ma possiamo pensare all’altezza metropolitana questa dinamica di separazione, di rottura? Come contro-costruzione di altri poteri? Questa intuizione della Comune può avere una sua pensabilità oggi? Sull’altro corno del problema, come l’area semantica della concatenazione tra Comune commons comunismo comunità comune può essere pensata in avanti anche alla luce di esperienze come quelle del 2011, del 2013, o le più recenti in Cile e negli Stati Uniti, o ancora guardando ai Gilet jaunes con la loro spazialità fatta di territorialità espansa e diffusa, le rotonde che diventano acampade molecolari nel territorio francese, e che poi si sono concentrate nell’intensività dei sabati, negli assalti alla metropoli…

Ci sono tre cose che in questi anni mi hanno colpito enormemente. Una è Black Lives Matter, la seconda i Gilets jaunes; la terza, che mi sta colpendo in maniera formidabile (anche perché ho avuto la fortuna di costruire un contatto diretto), sono le donne in Bielorussia. Quello che sta avvenendo lì è incredibile: sono donne, solo donne, che manifestano ogni domenica riempendo le piazze a centinaia di migliaia. Donne che hanno prodotto un movimento politico irresistibile – i poliziotti del potere invece sono solo maschi. Questo movimento di donne si presenta in un paese tutt’altro che miserabile, che è riuscito a mantenere un notevole livello di industria pesante e leggera, legata alla Russia ma sufficientemente autonoma da poter essere, per esempio – e questo spiega anche molte delle ansie dell’Ovest –, impiegata alla cinese, come forza lavoro subordinata, dai grandi pool occidentali. Queste donne manifestano per chiedere una trasformazione dell’ordine politico in senso democratico dentro una società con un tradizionale buon livello di welfare e ovviamente già mettendo dentro la lotta la difesa e lo sviluppo di tutti i loro bisogni di donne. È una cosa formidabile: è la prima volta che si dà un movimento politico interamente fatto da donne. Non voglio farmi fare del male dalle mie compagne, che giustamente osserveranno che ogni movimento delle donne (in particolare quelli che abbiamo visto ultimamente da noi e in America latina) è politico, ma qui si tratta proprio di un politico che guarda direttamente al comune e allo Stato, e alla sua radicale trasformazione.

Per quanto riguarda i movimenti americani nulla da dire che non sia già stato detto… mentre è fuori dubbio che il movimento dei Gilets jaunes, con tutte le ambiguità che ha rivelato man mano (e oggi con una purtroppo evidente incapacità di risorgere), ha mostrato comunque un livello altissimo di percezione e proposta del comune, non semplicemente un souvenir della Comune (che in Francia c’è sempre, in qualsiasi movimento sovversivo). Ma qui ci sono state proprio una percezione e una proposta del comune, in un momento strano –quando sembrava che le lotte fossero completamente bloccate, e la Repubblica macroniana ne avesse per così dire tolto la plausibilità – e invece eccoti i Gilets jaunes, e l’invenzione di uno spazio mobilizzato il sabato, nel giorno in cui la gente riposa. Una mobilitazione nel giorno di riposo… Mi chiedevo, le prime volte che li vedevo: “Cosa fanno questi, vanno alla Messa?”. Davano un po’ questa impressione. In breve, il movimento ha rivelato qualcosa che superava decisamente ogni pretesa e possibilità di essere ridotta a fatto liturgico, è diventato un’invenzione permanente, perché questo mettersi insieme si è rivelato (e questo penso valga per la Comune in generale) una vera forgia di potenze, un momento di espressione formidabile. Al mettersi insieme in una società in cui tutti dicevano che il politico era finito, che il politico era morto… col cavolo! Lì si è rivelata una politicizzazione dal basso eccezionale. È stato un mettersi insieme e marciare il sabato pomeriggio e ne è venuta fuori una tabella di marcia in cui tutta la complessità del dominio capitalista è stata, una foglia dopo l’altra, come con una margherita, sfogliata. Questo è il primo elemento comunardo. La Comune analitica.

Il secondo elemento comunardo è consistito, per i Gilets jaunes, nel determinare (in quanto motore parziale e aperto di sovversione) la convergenza di tutte le altre forze di movimento – anche quelle sindacali, tutto dire… sempre gelose del proprio assetto corporativo (ma oggi meno gelose di questo, quanto spesso in difesa della loro sopravvivenza, perché proprio quell’aspetto corporativo le ha ridotte ad essere semplice espressione o sotto-espressione del potere dello Stato). I Gilets jaunes hanno risvegliato anche le forze sindacali corporative, le hanno invitate a momenti di convergenza di lotta, ma soprattutto hanno prodotto una nuova scoperta del terreno di lotta, la lotta sul comune. Quali sono infatti le proposte dei Gilets jaunes? Sono: referendum – che non è a là 5 stelle, è “vogliamo intervenire nel processo legislativo in maniera diretta” – e, secondo: vogliamo decidere della spesa pubblica, del rapporto fisco-salario, della redistribuzione del reddito. Quest’ultimo, economico-salariale, è un elemento essenziale e combaciante con l’altro, democratico – non c’è l’uno senza l’altro. Non si può chiedere democrazia assoluta, diretta, se non si chiede salario uguale, reddito per tutti. Di nuovo la Comune?

Ultimo problema: viviamo in una società in cui il meccanismo produttivo determina una profonda cooperazione del lavoro vivo, e propone un’ontologia comune del lavoro. Si tratta di far parlare questa ontologia. Il modello politico che la Comune di Parigi ha prodotto veniva prima dell’emergenza del comune come potenza produttiva – noi siamo probabilmente invece in una situazione in cui quella potenza produttiva del comune ci precede, si è consolidata, è il nostro ambiente. Questo dovrebbe rappresentare un privilegio antropologico. Ma il capitale se ne è appropriato. E tuttavia il comune come privilegio antropologico è ormai impiantato nella nostra natura e può diventare esplosivo: è chiaro che, se riusciamo a esprimerlo, tutto salta per aria. E lì bisogna starci molto attenti, perché bisogna sempre ricordare quanto Lissagaray diceva della lotta di classe… anche di fronte a una sola rottura singolare, il capitale risponde con la totalità delle sue forze. Il capitale è carogna, e non lo dico in termini leggeri. Sa che bisogna distruggerne uno per impedire ai molti, ai troppi, di distruggerlo. E allora viva il comune e che ci porti bene!

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