Di ROBERTA POMPILI

Dentro la banalità del male

Dopo più di due anni di pandemia, nel mezzo di una devastante crisi ecologica e climatica, crisi economica e crisi sociale, mentre non ci siamo ancora minimamente ripresi dallo shock politico-psicologico-affettivo degli isolamenti da quarantena, degli aumenti delle bollette, dell’inflazione con i salari al chiodo ecco che la guerra in Europa ci viene servita su un piatto d’argento. Abbiamo abbastanza chiaro che la guerra sia la continuazione della politica capitalista nelle nostre vite, eppure abbiamo bisogno di intersecare i mille piani che la attraversano, la producono e che la rendono di nuovo oggi un oggetto di riflessione etico-politica e di azione impegnata.

Possiamo iniziare mappando i punti di vista, di partenza e di arrivo, di ciascuno singolo o gruppo sul tema della guerra. Quando è iniziata la guerra? Di chi sono le responsabilità iniziali, secondarie etc. per quale guerra poi ci mobilitiamo poi? Perché una guerra è più accettabile di un’altra? Possiamo immaginare la guerra come un evento inatteso, che emerge improvvisamente con la sua violenza più feroce. Ma è evidente che ciò non corrisponda al vero. La guerra capitalista è la manifestazione più brutale di un stato/nazione con velleità di purezza identitaria (nazionalismo) e/o con ambizioni di potere e/o di controllo imperiale, ma anche una intensificazione di scala di una serie di eventi anche essi violenti e drammatici che la precedono. Mentre i confini di genere sono in stretta connessione con i confini nazionali e imperiali, il vuoto, ci dice la fisica quantistica, semplicemente non esiste.

“Conta il fatto che il vuoto non sia vuoto, mera mancanza o assenza. La questione dell’assenza è certamente politica quanto quella della presenza. Quando mai l’assenza è stata una donazione assoluta? Non si tratta sempre di cosa si vede, si riconosce e si conta come presente, e per chi? Il vuoto – un apparato del colonialismo molto apprezzato, un immaginario astuto e insidioso, un modo per giustificare le pretese di proprietà nella “scoperta” del territorio “vergine” – la nozione particolare che “non curato”, “non coltivato”, “incivile”. “Gli spazi sono vuoti piuttosto che abbondanti, è stato uno strumento ben utilizzato al servizio del colonialismo, del razzismo, del capitalismo, del militarismo, dell’imperialismo, del nazionalismo e dello scientismo.” (Barad, traduzione mia)

Ora di quanti pieni è fatto questo “vuoto” che da tempo ha annunciato e prodotto la guerra e l’invasione di Putin in Ucraina e che la proiettano nel futuro? Innumerevoli. Sono giorni che assistiamo a tanti interventi nei nostri media, di intellettuali e giornalisti più o meno impegnati e di posizionamenti vari (e in realtà nel mainstream prevale l’arruolamento del pensiero unico: Occidente versus Oriente), esperti di geopolitica etc. che ci aiutano a comprendere la quantità dei diversi piani materiali, sociali e politici, i concatenamenti e le responsabilità implicate nella guerra in corso (le tensioni tra le superpotenze in primis Russia e Usa e sullo sfondo la Cina, la guerra in Crimea, violenza e guerra nel Donbass, arrivando fino all’Europa della svolta guerresca e autoritaria).

Una internazionale per la pace

Non è mia intenzione inoltrarmi in una disamina dello scacchiere geopolitico, piuttosto preferisco surfare su soggettività e immaginari, violenza e guerra. Ho fatto un focus a scuola con studentə sulla guerra. Moltə ragazzə sono refrattari a parlarne e non si capacitano del perché mentre sia pieno di guerre e violenze in giro nel mondo solo la guerra in Ucraina desti così tanta preoccupazione. D’altra parte sono stati, per anni, spettatorə impotenti dell’ecatombe di migranti e profughi nel Mediterraneo, della terribile guerra in Siria e delle tragedie terroristiche dell’Isis. Ho cercato di dare loro delle spiegazioni sulle implicazioni legate al contesto europeo e ragionare sul rapporto di interdipendenza in termini geopolitici: “Sapete che adesso alzano i costi del gas e dipendiamo molto dal gas russo, e poi l’Ucraina è in Europa potrebbe innescarsi una escalation del conflitto che coinvolgerebbe ancora di più i paesi che ne fanno parte.” Di fatto, non mi sembra che la gran parte di loro si sia fatta catturare dalla militarizzazione dei media che ogni giorno bersaglia con immagini da pornografia del dolore che documentano l’invasione russa, tra conflitti a fuoco, bombardamenti e esodi. Sono andata cosi a rileggere il testo di Judith Butler: La forza della non violenza. Butler di recente si è interrogata sulla necessità di pensare la dipendenza politica e l’impegno in uno scenario che va oltre lo stato –nazione, a partire da riflessioni sulla guerra Stati Uniti- Afghanistan dopo i drammatici fatti dell’11 settembre. Nel riflettere sulla violenza (e la guerra) sulla sua mistificazione linguistica e la strumentalizzazione del potere, Butler ci invita a ragionare su come spesso ci dimentichiamo che il nostro orrore morale è condizionato a tal punto che dividiamo implicitamente l’umanità in due, “coloro per i quali proviamo una sollecitudine pressante e non ragionata, e coloro le cui vite e morti semplicemente non ci toccano o addirittura non ci appaiono affatto delle vite”. Il mondo si presenta come un campo di forza determinato dalla violenza e il compito della non violenza è quello di trovare modi di vivere ed agire in modo che tale violenza sia trasformata positivamente. Anche l’autodifesa per Butler appare problematica perché è incentrata su un sé: ma chi conta come sé? E in che modo è inclusivo questo sé che si autodifende (include la famiglia, la comunità i connazionali, i conterranei, coloro che condividono la stessa fede religiosa?) La studiosa si interroga sui limiti del sé, i suoi confini territoriali e i suoi legami costitutivi. Per Butler il corpo è al centro del campo di forza, il modo in cui viene sostenuto, guardato e trattato dipende da reti sociali e politiche, che sono imbrigliate in normative di genere (di razza e classe). Queste determinano la precarietà delle vite: quali vite siano più o meno agevoli, visibili e rappresentabili, quali vite meritino di essere protette, quali di avere un riparo, quali morti possono essere compiante. In questo contesto di violenza strutturale, la presenza di una guerra intensifica le modalità selettive in atto sulle vite e funziona, ad esempio, rendendoci propensi a provare shock e sdegno di fronte ad una forma di violenza e giustificata freddezza di fronte ad un’altra.  La guerra, dunque, ha luogo e sostiene le sue regole agendo sui sensi, piegandoli a percepire il mondo in modo selettivo, “una percezione ammortizzata come reazione a determinate immagini e suoni, e una reazione ravvivata ed emozionale agli altri”.  Agisce un potere regolatore che crea questo differenziale a livello della capacità di reazione morale e emozionale: le logiche belliche operano distinzioni tra vite che vale la pena di preservare e vite considerate invece dispensabili. Pensiamo in questi giorni, ad esempio, ai trattamenti differenziali subiti al confine con la Polonia da profughi neri, studenti africani in fuga dalla guerra, respinti in Ucraina e in qualche caso picchiati. Seguendo la proposta etico-politica di Butler occorre ripensare la vulnerabilità umana nella relazione di interdipendenza costitutiva, una interdipendenza egualitaria. Il dettame etico della non violenza ci svincola dall’individualismo, ma anche dalle connessioni del sé sovrano e delle sue estensioni (famiglia, nazione, razza, religione). La forza della non violenza è determinata e può essere anche aggressiva, ma è altro dalla violenza e dalla guerra: Non una di Meno, BLM, ma anche scioperi e rivoluzioni agiscono su questo altro registro.

La lezione di Butler mi pare, in questo contesto, fortemente evocativa. In questi giorni abbiamo assistito alla crescita delle mobilitazioni contro la guerra in molti paesi dell’Unione Europea e dell’est Europa, cosi come alla forte mobilitazione nelle città russe e ai tantissimi appelli per la pace. È tempo di fare spazio di nuovo all’immaginazione per una nuova una nuova internazionale della pace, nel riconoscimento della interdipendenza tra essere umani (e non), l’uguaglianza e la giustizia sociale, oltre ogni frontiera e ogni confine.

Foto di copertina di NUDM – Milano.

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