Pubblichiamo qui la lectio magistralis di Christian Marazzi.

Di CHRISTIAN MARAZZI

Le trasformazioni del lavoro, la sua natura, la sua centralità nelle forme di vita, sono sempre stati al centro delle mie riflessioni e delle mie ricerche. E questo fin da giovane, fin dalle prime esperienze politiche nei movimenti di contestazione degli anni ’60 e ’70, quando per la mia generazione le lotte operaie sembravano incarnare l’istanza del cambiamento sociale e culturale. La fabbrica era vista come luogo di trasformazione sociale e politica, di solidarietà, di organizzazione dal basso, di produzione di valori che oltrepassavano i cancelli di quegli spazi di produzione della ricchezza. La fabbrica noi la vedevamo come laboratorio di cittadinanza.

L’interesse per i cambiamenti del lavoro, in particolare della sua natura, si sono in seguito per così dire professionalizzati a partire dagli studi sulle nuove forme di povertà che stavano emergendo nei primi anni ’80. Nella “nuova povertà” la cosa che più colpiva era il suo essere del tutto interna alle nostre società ricche, consustanziale alla crescita stessa, povertà come forma della ricchezza. In particolare, le ricerche sulla nuova povertà, oltre a mettere in evidenza nuovi soggetti fragilizzati dalla crescita economica, come le donne e le famiglie monoparentali, i giovani, le famiglie numerose, avevano individuato nella povertà laboriosa (i famosi working poor, la categoria sviluppata dal sociologo e militante politico americano Michael Harrington) qualcosa di inedito rispetto alla povertà classica, una sorta di indicatore di qualcosa di più vasto del mero rilievo sociologico. La povertà laboriosa, quell’essere poveri non perché esclusi, non perché emarginati, ma per la ragione esattamente opposta, poveri perché dentro i meccanismi accumulativi, nel cuore stesso dell’economia –  per i bassi salari o per le forme d’indebitamento privato che già allora si manifestavano come ricorrenti – quella povertà alludeva a una grande trasformazione sistemica, un cambiamento complessivo dell’economia che a metà degli anni ’80 ancora non si riusciva bene a mettere a fuoco.

Si trattava del cambiamento di paradigma del capitalismo, il passaggio dal capitalismo industriale fordista al nuovo capitalismo: il capitalismo digitale iscritto nei processi della globalizzazione e della finanziarizzazione. Le nuove forme della povertà erano insomma i segnali di questa transizione, di questa rivoluzione capitalistica dall’alto, avviata dalla Lady di ferro, Margaret Thatcher, e da Ronald Reagan, coloro che avviarono la rivoluzione neoliberista, in realtà una controrivoluzione nel senso che, come si è poi visto nei decenni che seguirono, della società e dell’economia novecentesca tutto fu preso di mira: il lavoro e le sue organizzazioni sindacali, lo Stato sociale, l’equità, la solidarietà. Tutto.

La crisi del modello industriale fordista si consuma nel corso degli anni ’70 sull’onda della crisi petrolifera del ’73, che combacia con la guerra arabo-israeliana del Kippur, alla quale seguì un lungo periodo di stagflazione, fase finale del capitalismo novecentesco. Le similitudini con il tempo presente sono fin troppo evidenti, purtroppo!

È all’interno di queste coordinate che prende avvio la ricerca sulle trasformazioni del lavoro, e questo in due direzioni parallele: la flessibilizzazione del lavoro e, per quanto mi riguardava, il divenire linguistico del lavoro, la svolta linguistica dell’economia, come l’avevamo chiamata prendendo in prestito un’espressione filosofica di allora (the linguistic turn di Richard Rorty)

Di nuovo, ma con modalità del tutto diverse, è la fabbrica che si presta all’analisi sociologica dei cambiamenti del lavoro, una fabbrica, quella postfordista, costretta sempre più a “respirare con il mercato”, a rivoluzionare la sua organizzazione, il suo modo di produrre e di lavorare ispirandosi ai modelli del just in time, della produzione snella, dello zero-stock, alla tecnica del kanban, primo vero sistema comunicativo orizzontale tra lavoratori. Si stava affermando un modello di organizzazione dell’impresa già sperimentato in Giappone negli stabilimenti della Toyota, addirittura alla fine degli anni ’40.  Anche i distretti industriali italiani, con le loro fabbriche diffuse sul territorio, il lavoro a domicilio e la dimensione locale/vernacolare dei rapporti di lavoro, furono d’ispirazione per l’elaborazione di strategie aziendali post-fordiste.

La globalizzazione, con l’entrata sul mercato globale dei paesi emergenti come nuovi concorrenti, impone di ridurre al minimo i costi – delle materie prime, della forza-lavoro, dello spazio, dei magazzini -, per essere competitivi occorre ridimensionare tutto, “minimizzarsi”, snellire la produzione, addirittura azzerare quella unità spazio-tempo che aveva caratterizzato la fabbrica fordista. Occorre produrre just in time, in tempo reale, all’interno di catene logistiche del valore (di approvvigionamento) globali per evitare di accumulare scorte invendute, un modello che nelle prime settimane della pandemia si è rivelato particolarmente fragile e inadeguato a far fronte a eventi imprevisti, in situazioni emergenziali.

Il rovesciamento del rapporto tra offerta e domanda, produzione e consumo indotto da questo “respirare col mercato”, il fatto di produrre a partire dall’ “a valle”, dal mercato, dai luoghi di distribuzione/vendita, a partire cioè dalla domanda di beni effettivamente espressa dai consumatori, è all’origine della flessibilizzazione del lavoro. Questo è l’aspetto della rivoluzione postfordista maggiormente studiato: si riduce il lavoro fisso a tempo indeterminato, si esternalizzano (outsourcing) interi segmenti di forza-lavoro, si crea in tal modo un bacino di lavoro flessibile a tempo determinato, intermittente, a tempo parziale, a chiamata, di neoindipendenti (i freelance), insomma si dà origine al binomio flessibilizzazione-precarizzazione su cui, giustamente, ancora oggi si continua a studiare, a riflettere e a mobilitarsi.

Ma in questo stesso rovesciamento, in questo stesso just in time, c’è qualcosa di più profondo che avviene e che ha a che fare, appunto, con la natura del lavoro. Quella che un tempo era la catena di montaggio rigida, meccanica, quella catena lungo la quale scorrevano i pezzi di un’auto e o di qualsiasi merce in vista dell’assemblaggio finale, ebbene quella catena che imponeva a tutti di lavorare in silenzio in modo esecutivo e ripetitivo, quella catena si trasforma per diventare una catena lungo la quale scorrono le informazioni, i dati, i segnali che dai luoghi di vendita risalgono ai circuiti produttivi. La catena di montaggio diventa un flusso comunicativo di informazioni che chiamano in essere il linguaggio, che pongono l’agire comunicativo al centro stesso dell’agire strumentale (per usare il linguaggio del filosofo tedesco Jürgen Habermas). Dagli anni Ottanta assistiamo al progressivo transito della parola dal fuori al dentro del lavoro. L’agire comunicativo non si situa più al di là del processo lavorativo, dove si radicano le relazioni affettive e la lotta politica, ma si sovrappone all’agire strumentale, diventando un vero e proprio “fattore di produttività”. È così che il luogo in cui si lavora diventa una “fabbrica loquace”.

Comunicare, informare, interpretare, prescrivere, condividere, verificare, ricordare, argomentare, spiegare, giustificare, rendere ragione, programmare l’azione, decidere, negoziare: sono tutti atti comunicativi, atti linguistici, un tempo attribuibili essenzialmente al settore dei servizi, ma oggi anche alle fabbriche più tradizionali. Anzi, è proprio nelle fabbriche fordiste, come l’auto, che il modello di produzione è stato radicalmente rivoluzionato, è in esse che l’interazione linguistica ha permesso di emanciparsi dai principi tayloristici dell’organizzazione scientifica del lavoro.

È bene distinguere tra uso strumentale del linguaggio, come ad esempio nei call center (qui abbiamo il “linguaggio che lavora”), e il “lavoro che parla”, il lavoro loquace, il lavoro delle fabbriche toyotiste o postfordiste. All’operatore del call center “è richiesto, per esempio, di produrre contratti di compravendita e di accrescere il plusvalore dell’azienda per mezzo di atti comunicativi”. Qui il linguaggio è taylorizzato, il comportamento verbale funziona come una catena mezzi-fini[1]. Il lavoro loquace postfordista, invece, è iscritto in una organizzazione in cui la catena produttiva è una catena comunicativa. Qui si può anche non parlare, ma è l’atto lavorativo che si traduce immediatamente in un atto comunicativo iscritto in uno spazio pubblico.

È dall’inizio degli anni 2000 che diversi studi predittivi hanno tentato di elaborare scenari relativi al destino della composizione del lavoro. L’organizzazione del capitalismo contemporaneo, secondo questi studi, prevede l’assorbimento, da parte delle macchine, dei compiti cognitivi ripetitivi e di tutto il lavoro manuale ripetitivo e non ripetitivo. Per contro, si prevede la crescita, nel lavoro vivo, delle mansioni connesse con le capacità intellettuali e socio-linguistiche più comuni alla specie umana, come appunto pensare astrattamente, reagire in situazioni impreviste, programmare, cooperare. Al netto di questi cambiamenti, molto è stato scritto sulla fine del lavoro causata dai processi di digitalizzazione e dall’affermazione della economia degli algoritmi.

In realtà, negli ultimi decenni, la digitalizzazione, la robotizzazione e l’automazione, l’industria 4.0, non hanno affatto significato la fine del lavoro, né tantomeno del lavoro manuale. Quello che è successo, invece, è una trasformazione del lavoro iscritta nella rete digitale, un processo di piattaformizzazione del lavoro in cui comunicazione e esecuzione, linguaggio e lavoro si rimandano reciprocamente l’un l’altro. Mai come oggi il lavoro è aumentato, specie quello precario-intermittente (si pensi ai lavoretti della gig economy), mai come oggi si lavora tanto. Più che di disoccupazione, occorrerebbe parlare di “piena occupazione precaria”.

Quando si parla di divenire linguistico del lavoro bisogna quindi stare attenti a non dare l’impressione di voler costruire una “meritocrazia cognitiva”, dove il cosiddetto lavoro intellettuale è premiato e funzionale a un falso successo sociale (David Goodhart, Testa, mano, cuore). C’è il rischio di costruire una sorta di “dittatura del modello cognitivo” (con il suo quartier generale nella Silicon Valley) tale da provocare la disaffezione e la marginalità di milioni di persone escluse da un tessuto sociale sempre più a rischio sgretolamento. L’esperienza globale della pandemia ha messo in chiaro a tutti quanto sia importante il lavoro di cura, quello del cuore, quello della fatica fisica, della mano. Lavori come l’infermiere, la cassiera di supermercato, il rider per le consegne a domicilio, il pulitore incaricato di igienizzare gli ambienti, sono tutti lavori essenziali e indispensabili, benché così invisibili (o forse proprio per questo).

Di fatto, il mondo del lavoro contemporaneo vede la netta prevalenza di impiegati/e nel settore  dei servizi: in Europa siamo attorno al 74%, negli Stati Uniti all’80% e in Cina, “fabbrica del mondo”, i servizi occupano ben il 45% della popolazione attiva (contro il 27% dell’industria e il 28% dell’agricoltura). Indipendentemente dall’area economica di appartenenza, ai lavoratori dei servizi è sempre più richiesto di intraprendere comportamenti linguistici, cognitivi e relazionali (non routine task). È un mondo in cui la sanità, la socialità, la formazione e la ricerca, la cultura e tutte le attività connesse alla svolta ecologica concorrono a definire il cosiddetto modello antropogenetico, la produzione dell’uomo attraverso l’uomo, dove il lavoro non ha quale finalità prioritaria l’oggetto, bensì il soggetto. È all’interno di questo mondo lavorativo che lo Stato sociale può (deve) ridefinire la sua strategia, una strategia in cui la redistribuzione della ricchezza rafforzi nel medesimo tempo la società della cura, la cura delle relazioni umane, dell’ambiente, del benessere sociale.

Ma come si è arrivati a questa generale laboriosità, perché lo sviluppo delle forze produttive e le continue innovazioni tecnologiche non hanno ridotto il lavoro necessario, ma anzi l’hanno aumentato?

Negli anni ’70 sembrava di essere arrivati a un tale sviluppo delle forze produttive da rendere pertinente la previsione di una progressiva liberazione dal lavoro. Secondo il Marx dei Grundrisse (il famoso capitolo Frammento sulle macchine), cioè il Marx più visionario, l’accumulazione nelle macchine del sapere scientifico e delle abilità umane, la cristallizzazione del cervello sociale (l’intelletto generale) nel capitale macchinico, avrebbe ridotto il lavoro vivo necessario al punto da renderlo la “base miserevole” del valore. In altre parole, a fronte della potenza tecnologica incorporata nelle macchine, il lavoro si sarebbe rivelato sempre più superfluo,. Non male come previsione, per uno che aveva fatto del lavoro e del tempo di lavoro la base stessa della legge del valore. L’apice dello sviluppo del capitalismo industriale era visto come il prologo della fine del lavoro, l’inizio della liberazione dal lavoro, la possibilità di rovesciare la disoccupazione tecnologica in possibilità di vita oltre il lavoro, una vita magari più frugale ma più felice, una vita, appunto, più dedicata alla cura di sé e degli altri.

Quella di Marx, peraltro, fu la stessa visione profetica di John Maynard Keynes, che nel suo Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930),per il poco lavoro che ancora sarebbe rimasto come effetto dello sviluppo tecnologico del capitale, prevedeva in un futuro non lontano “turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore […] più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in noi”.

Eppure, per i “nipoti e i pronipoti di Keynes” il problema economico di “chi suda il pane quotidiano e per il quale il tempo libero è un piacere agognato”, questo problema resta del tutto intatto, anzi è il problema maggiore, con l’aggravante che il capitale si è appropriato in modo esclusivo dei risultati del progresso tecnologico. Siamo imprigionati in una sorta di coazione a consumare senza mai veramente arrivare a soddisfare i reali bisogni, un consumo peraltro stretto nella morsa di una spirale debitoria che ci costringe a lavorare senza tregua. Con la conseguenza che le disuguaglianze aumentano in modo esponenziale e la società si fa sempre meno coesa, sempre più infelice e rancorosa.

Dietro l’apparente automazione e la digitalizzazione della produzione, studiosi come Antonio Casilli mostrano l’abbondanza di lavoro umano, un lavoro nascosto, spesso poco o per nulla remunerato, svolto senza garanzie né protezioni, generalmente non riconosciuto in quanto tale, non considerato e fondamentalmente svalorizzato. Non è dunque della fine del lavoro che oggi si parla, ma appunto della sua liquidazione e della sua denigrazione. Dietro la facciata asettica e apparentemente immateriale dell’economia digitale appare il lavoro più materiale che ci sia, quello del dito del digitus, occultato dalla distanza geografica, dissimulato negli appartamenti dei paesi sviluppati, nelle cucine delle click farm dei moderatori africani, nelle fabbriche filippine dei cleaners, gli spazzini della rete di cui “i social non dicono”.

Questo stravolgimento del destino, del sogno di una riduzione progressiva del lavoro, di una vera e propria liberazione dal lavoro, è stato in gran parte possibile con lo sviluppo e la diffusione delle tecnologie della comunicazione e della informazione. Dal lettore ottico dei codici a barra, introdotto per la prima volta in una drogheria americana a metà degli anni ’70, al computer portatile, da Internet allo smartphone, abbiamo assistito ad una proliferazione di dispositivi tecnologici che hanno la propria forza dirompente nella capacità di catturare le nostre vite attraverso la traduzione in dati dei nostri comportamenti, delle nostre scelte, delle nostre interazioni umane. Si tratta di macchine linguistiche, protesi (per oltre quattro miliardi di persone!) che succhiano valore-informazione ovunque noi siamo, che appunto mettono al lavoro la nostra vita, sono “armi di distrazione di massa” che trasformano ogni nostro gesto, ogni nostro pensiero in valore economico. Addirittura l’ozio è “messo al lavoro”, nel senso che laddove crediamo di essere inattivi, distraendoci e giocando in rete, in realtà produciamo dati che saranno puntualmente commercializzati.

Gli economisti americani Eric Posner e Glen Weyl, nel loro Radical Markets sostengono che i dati che forniamo e che vengono sistematicamente accumulati in enormi banche dati sono a tutti gli effetti lavoro (data is labor). Per la felicità delle corporation digitali, che della gratuità della vita messa al lavoro hanno fatto la chiave del loro successo e dei loro enormi profitti. Con la digitalizzazione, ci troviamo in una sorta di tecnofeudalesimo, in cui ad esempio Facebook (oggi Meta) paga annualmente solo l’1% del suo valore in salari ai dipendenti-programmatori perché ottiene gratuitamente il resto del suo lavoro da tutti noi. In contrasto, Wallmart (che pure non brilla per gli stipendi che eroga) versa il 40% del suo valore in salari. Se davvero si volessero ridurre le disuguaglianze di reddito, occorrerebbe cominciare col riconoscere monetariamente tutto questo lavoro gratuito, muovendosi verso un income data labor, un reddito di lavoro-dati. Ed è interessante che Posner e Weyl, economisti neoclassici mainstream, per spiegare la loro teoria dei dati-come-lavoro, facciano riferimento all’esperienza delle donne in ambito domestico-riproduttivo, laddove la cura, l’accudimento, gli stessi affetti sono da sempre all’origine di enormi quantità di lavoro gratuito, di lavoro non riconosciuto. Sono infatti le donne che per prime hanno teorizzato e svelato politicamente lo scandalo del lavoro (riproduttivo) gratuito. È alle donne che si deve la definizione del lavoro gratuito come produttivo di valore economico.

L’idea del primato del linguaggio e della comunicazione nell’attuale sistema produttivo di beni e servizi andrebbe estesa al funzionamento del sistema monetario e finanziario. D’altronde, se il linguaggio è oggi una dimensione fondamentale del valore economico, ne consegue che il denaro, che è l’espressione astratta del valore, deve a sua volta avere una valenza linguistica. È quanto sostiene ad esempio Arjun Appadurai nel suo Scommettere sulle parole (2016) analizzando la logica di funzionamento dei mercati dei prodotti derivati che portarono alla crisi del 2007-08. Appadurai non nega che l’avidità e un trattamento irresponsabile del rischio siano stati fattori decisivi della crisi dei subprime, ma sostiene che la condizione di possibilità di quei vizi strutturali vada ricercata nel ruolo nuovo che il linguaggio ha assunto nei mercati finanziari. In effetti, l’analisi dei prodotti derivati[2] come catena di promesse riferite a un futuro incerto, permette di far emergere l’importanza del linguaggio e del concetto di rischio negli attuali mercati finanziari. Per l’Autore, il collasso del sistema finanziario statunitense nel biennio 2007-2008 è così ascrivibile a un cedimento linguistico, alla catena di promesse di guadagno aleatorio non mantenute.

Più in generale, la teoria monetaria ha oggi tutto da guadagnare dal dialogo con la filosofia del linguaggio, in particolare con la teoria degli enunciati performativi di John Austin, autore di un libro il cui titolo è già tutto un programma: Fare cose con le parole, L’idea di questo filosofo del linguaggio è che con le parole si possono fare cose, crearle dicendole, e non solo descriverle[3]. È l’idea secondo cui gli atti linguistici sono in grado di modificare stati di cose. Un’idea ripresa pari pari dalla Federal Reserve, se è vero, come Janet Yellen ebbe a dire appena eletta presidente della Banca centrale, che è dal 2003 che la Fed usa la comunicazione – “mere parole”  – come suo principale strumento di politica monetaria[4].

In ogni caso, che la parola sia sempre più simile alla moneta lo si può facilmente dedurre dall’inflazione linguistica (vera e propria escalation delle parole) che caratterizza il tempo presente. Con la proliferazione di parole, con la guerra di narrazioni che ci stordisce, l’aumento quantitativo delle parole in circolazione non può che portare alla perdita di valore delle parole stesse. Sappiamo anche che la velocità di circolazione delle menzogne è di gran lunga più elevata di quella delle verità. Se poi ci si mettono anche i falsari con la lucrosa tosatura delle parole-monete, allora è chiaro come il contenuto di valore, di significato, delle parole si stia assottigliando rapidamente. Insomma, come per la moneta, anche per le parole vale la legge di Gresham, secondo cui “la moneta cattiva scaccia quella buona”[5].

Non ci resta quindi che ascoltare nel più profondo le parole, come suggeriva Heidegger: ascoltare le parole con cura e circospezione per cercare di rintracciare qualcosa che si avvicini alla verità. E ascoltare le parole significa ascoltare il lavoro: qui volevamo arrivare.

Cosa ci dice il lavoro?

Il lavoro ci dice che siamo soggetti di diritti, di diritti sociali, e dovremmo esserlo per il sol fatto di esistere. Ma così non è perché per ogni diritto occorre lottare. La ricostruzione della storia dei diritti civili, politici e sociali, la storia dello “sviluppo della cittadinanza” in un’ottica evolutiva come in T.H. Marshall (conferenza del 1949) è stata smentita dalla storia stessa, di sicuro da quando il mercato e la sua presunta capacità di autoregolazione si è imposto al di sopra di tutto, di tutti. Come ha scritto Albert Hirschman: “Non è forse vero che non già soltanto l’ultima, ma ciascuna delle tre spinte in avanti di Marshall è stata seguita da controspinte ideologiche di straordinaria forza? E non è forse vero che queste controspinte sono state all’origine di violentissime lotte politiche e sociali, spesso sfociate in rovesci per i programmi progressisti, oltre che in gravi sofferenze e miserie per gli esseri umani?”

Il lavoro ci dice che l’uomo fa per non-fare, lavora per non lavorare. L’uomo produce,esercita le sue virtù utili e pratiche, per potersene stare in ozio. I sistemi politici migliori saranno quelli che riconoscono questo principio del fare, e lo ordinano pertanto in vista dello starsene in pace e in ozio. Il migliore generale lavorerà per la pace; il migliore artigiano per guadagnarsi la possibilità dell’ozio. D’altronde, la radice di necotium, che vuol dire esser dediti ‘ad altro’, è otium[6]. D’altronde, una volta creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, Dio letteralmente smette di lavorare, e si gira dall’altra parte. Shabat (shuh.bat) è il giorno (la festa) della cessazione del lavoro. Il riposo ne è certo un’implicazione, ma non è necessariamente una connotazione della parola stessa. Occorre riappropriarsi di questo tempo non solo per riposarsi, ma per la cura di sé e degli altri, il tempo liberato dal fare deve tornare ad essere il tempo degli affetti, dell’amore, del disinteresse, del non-calcolo, il tempo del ritornare in sé (come titola uno splendido libro di Fabio Merlini).

Il lavoro ci dice che occorre dare senso a ciò che si fa, a maggior ragione alla fine di un tempo durato troppo a lungo durante il quale siamo stati prigionieri di norme e valori iperproduttivisti, un tempo attraversato da frequenti forme di bassi salari e di scarsa considerazione e rispetto per il lavoro e la vita altrui. La Grande dimissione, The Great Resignation, il movimento pandemico che vede milioni di uomini e donne esodare/dimettersi da lavori svalorizzanti, umilianti e massacranti, quel movimento che si è diffuso negli Stati Uniti, come anche in Cina e in Europa, è un movimento di ri-significazione del lavoro, di ricerca di occupazioni più eque, più giuste, più rispettose dei bisogni vitali delle persone.

A suo modo, la ricerca, l’attività scientifica che ci accomuna, è una forma di esodo, un esodo semantico, se si vuole, una uscita (un exit hirschmaniano), una defezione da categorie e significati normativi dati per acquisiti e irreversibili, e proprio per questo opprimenti. “Soltanto chi apre una linea di fuga, può fondare; ma, viceversa, soltanto chi fonda, riesce a trovare il varco per abbandonare l’Egitto”[7].

Questo ancora ci dice il lavoro, e cioè che poter significare e dare senso alla propria attività di ricerca occorre lavorare sul divenire delle cose, dei fenomeni, del mondo. Solo la tendenza è reale, solo la ricerca di ciò che tende al futuro fonda il presente. Per questa ragione il lavoro del ricercatore è destinato/condannato ad essere inattuale, come sospeso nel tempo del non più e non ancora. Ma, come ricorda Wittgenstein:

“Chi è soltanto in anticipo sul proprio tempo, dal suo tempo sarà raggiunto”.


[1]             Angelo Nizza, Linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Natura e storia di una relazione, Mimesis, Milano, 2020,  pp. 104-105.

[2]             I prodotti derivati si chiamano in questo modo perché il loro valore deriva dall’andamento del valore di una attività ovvero dal verificarsi nel futuro di un evento osservabile oggettivamente. Le attività, ovvero gli eventi, che possono essere di qualsiasi natura o genere, costituiscono il “sottostante” del prodotto derivato.

[3]             Un esempio di speech act: l’espressione “prendo questa donna come mia legittima sposa” non descrive un fatto già dato, ma lo crea mentre si parla, mentre lo si enuncia.

[4]             «On that date [August 12 2003, the moment when the Fed started issuing regular statements] the Federal Open Committee started using communication – mere words – as its primary monetary policy tool» (Janet Yellen, neopresidente della Federal Reserve, citata da Gillian Tett, “Central bank chiefs need to master the art of storytelling”, Financial Times, 23 agosto 2013).

[5]             Secondo questa relazione, se in un paese circolano due diverse monete aventi lo stesso valore nominale ma un diverso valore intrinseco, il pubblico tenderà a conservare la moneta che ha un maggior valore intrinseco e ad utilizzare, cioè spendere, l’altra.

[6]             Massimo Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano, 1990, p. 429.

[7]             Paolo Virno, L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Macerata, Quodlibet, 2015, p.131.

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