A seguito della pubblicazione di Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha cancellato l’accesso all’aborto come materia di autodeterminazione riproduttiva di rilevanza costituzionale, si è riacceso in Italia il dibattito intorno alla legge 194/1978; dibattito segnato dal riproporsi delle posizioni pro-life ma fortemente condizionato anche dalle gravi insufficienze evidenziate negli ultimi decenni, dal servizio sanitario nazionale, tanto da apparire distonico rispetto alle più recenti posizioni assunte in materia dall’OMS nonché alle pratiche mediche di recente affermatesi in paesi come il Regno Unito. Per questo motivo come Collettivo abbiamo avvertito l’esigenza di uscire fuori dal perimetro di una discussione, quella nazionale, che rischia di suonare decisamente arretrata rispetto alle potenzialità liberate altrove dall’incontro fra saperi femministi e nuove tecnologie mediche. Ne parliamo con Elena Caruso, dottoranda in Giurisprudenza e docente di Diritto Pubblico nell’Università del Kent (UK) dove sta lavorando a una tesi sul movimento femminista e la riforma del diritto di aborto nell’Italia degli anni Settanta, con un finanziamento dell’Economic and Social Research Council.

Intervista di MARIA ROSARIA MARELLA a ELENA CARUSO.

Maria Rosaria Marella (MRM): Quali sono state le reazioni in Regno Unito dopo la pubblicazione della decisione Dobbs?

Elena Caruso (EC): Il dibattito sull’aborto in Regno Unito è particolarmente vivo, e la sentenza Dobbs ha in qualche modo contribuito a rilanciarlo ulteriormente, ma le coordinate di questa discussione sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti, tanto per cominciare perché il quadro legislativo di riferimento tra i due paesi è assai differente.

Se consideriamo la normativa britannica, dobbiamo operare una distinzione tra l’isola maggiore di Gran Bretagna (cioè Inghilterra, Galles e Scozia) e l’Irlanda del Nord.

In Gran Bretagna, l’aborto è ancora un reato sulla base dell’Offences against the Person Act, risalente al 1861, durante il regno della regina Vittoria. Nel 1967, è stato approvato l’Abortion Act che ha parzialmente decriminalizzato l’accesso all’aborto terapeutico, senza abrogare la legge draconiana di età vittoriana. Nell’isola maggiore, l’aborto è un tema quasi depoliticizzato, di cui si discute prevalentemente in termini medico-scientifici[1]. Ciò emerge anche dal ruolo non secondario che l’associazione professionale dei ginecologi e ostetrici (cioè il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists), le organizzazioni britanniche che forniscono i servizi di interruzione volontaria di gravidanza (mi riferisco a BPAS, MSI Reproductive Choices e NUPAS) e la ricerca scientifica hanno nel dibattito pubblico e politico su questo tema.

In Irlanda del Nord, che è rimasta esclusa dalla riforma dell’Abortion Act del 1967, per oltre cinquant’anni l’aborto è rimasto invece completamente soggetto a quel draconiano divieto penale di età vittoriana, fino alla recente riforma intervenuta nel 2019.

In breve, possiamo dire che oggi sono soprattutto tre i temi del dibattito sull’aborto in Regno Unito: garantire l’accesso effettivo alla procedura in Irlanda del Nord, la decriminalizzazione (cioè la richiesta di abrogazione dei reati contro l’aborto dell’Offences against the Person Act del 1861) e la telemedicina.

MRM: Cosa si intende con telemedicina in relazione all’aborto?

EC: Con telemedicina, si fa riferimento a una prestazione sanitaria eseguita con l’ausilio delle moderne tecnologie. Con l’inizio della pandemia nella primavera del 2020, in Inghilterra, Galles e Scozia, la telemedicina è stata temporaneamente introdotta per l’erogazione dell’aborto farmacologico allo scopo di ridurre accessi non necessari nelle strutture sanitarie. Questo ha significato aprire alla possibilità di abortire in casa in sicurezza.

Il procedimento prevede che, al termine di un colloquio da remoto, il/la ginecologo/a prescrive i farmaci abortivi (mifepristone e misoprostolo) che vengono spediti direttamente all’indirizzo di casa della persona incinta. Durante il procedimento, se lo si desidera, la persona è monitorata a distanza da un/a operatore/rice sanitario/a.

Passata l’emergenza della pandemia, oggi la telemedicina è una modalità permanente di erogazione dei servizi di aborto farmacologico in Inghilterra, Galles e Scozia. Una decisione che è stata fortemente supportata dal Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, BPAS, MSI Reproductive Choices e NUPAS, oltre che corroborata dai risultati degli studi internazionali condotti sul tema.

In ultimo, la telemedicina ha ricevuto un endorsment dalle nuove linee guida sull’aborto pubblicate l’8 marzo 2022 dall’Organizzazione Mondiale di Sanità, le cui raccomandazioni si fondano su un “approccio integrato” di evidenze scientifiche e diritto internazionale dei diritti umani[2].

MRM: Rispetto all’emergere di queste nuove tecniche di accesso all’aborto, qual è il ruolo dell’attivismo pro-choice/femminista?

EC: Grazie per questa importante domanda. Direi che è stato ed è tuttora fondamentale il ruolo dell’attivismo. Infatti, dobbiamo ricordare che, nell’ambito dell’aborto, la metodica farmacologica così come l’uso della telemedicina sono oggi raccomandazioni dell’OMS e policy statali, ma nascono e sono prima di tutto pratiche politiche e collettive di resistenza femminista. Ad esempio, la scoperta che il cytotec (misoprostolo), un farmaco commercializzato per la prevenzione dell’ulcera gastrica, potesse essere usato per abortire in sicurezza risale agli anni Ottanta in Brasile. Per quanto riguarda la telemedicina, da diversi anni organizzazioni come Women on Web e Women Help Women prescrivono o spediscono le pillole abortive in quei paesi in cui sono vigenti “leggi anti-aborto”, come ad esempio la Polonia, garantendo così un accesso sicuro a questa procedura.

Dal 2018, la pagina di Women on Web è stata tradotta in italiano proprio per via del flusso di domande di farmaci abortivi provenienti dal nostro paese e, a partire da questi dati, nel 2020 è stato pubblicato uno studio scientifico sull’aborto autogestito in Italia.

MRM: Spostiamoci in Italia, quindi, come definiresti il bilanciamento di interessi realizzato dalla legge italiana sull’aborto, anche a confronto con quella britannica? 

EC: L’Abortion Act e la legge 194/1978 hanno il merito di “dare” (e non “togliere” come la decisione Dobbs) perché sono leggi che anzitutto operano una (parziale) decriminalizzazione dell’aborto. In entrambi i paesi, il processo di riforma è stato segnato dal tema degli aborti clandestini, dalla constatazione dell’impatto diverso che il divieto penale aveva sulle donne in base alle loro condizioni socioeconomiche, dalla presa d’atto che la criminalizzazione dell’aborto aveva perso molto del suo effetto deterrente. Ci sono tuttavia alcune importanti differenze tra l’Abortion Act e la Legge 194/1978.

L’Abortion Act risale al 1967, ed è stata una riforma sostenuta dall’establishment medico. Questo si riflette in una spiccata medicalizzazione della procedura, a partire dalla richiesta di una autorizzazione ad abortire rilasciata da due medici in buona fede. Una disposizione che – come tutto l’Abortion Act – sebbene non riconosca esplicitamente l’ “autodeterminazione” riproduttiva non ha impedito il suo concretizzarsi grazie a un’applicazione molto liberale di questa legge nella sua “vita” quotidiana, come la recente introduzione della telemedicina ci mostra in materia alquanto lampante[3].

In Italia invece la riforma dell’aborto si colloca successivamente e ha visto un forte protagonismo “dal basso” del movimento delle donne e anche dei gruppi radicali. L’impianto della legge però resta fortemente segnato dal bilanciamento operato dalla Corte Costituzionale con la decisione 27/1975, che sancisce a chiare lettere che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Nonostante la legge 194/1978 possa sembrare per certi versi più “liberale” almeno sulla carta dell’Abortion Act, nella “vita” quotidiana dei servizi di interruzione volontaria di gravidanza questi maggiori spazi di manovra non sono stati sempre molto sfruttati a favore di una piena realizzazione dell’autonomia riproduttiva.

MRM: Credi che sia opportuno riaprire il dibattito sull’aborto in Italia, oggi?

EC: Fermo restando che la legge 194/1978 esprime alcune norme che sono a contenuto costituzionalmente vincolato, cioè un nucleo di garanzie minime e non abrogabili in materia di accesso legale all’aborto, credo che sia arrivato il momento di aprire un dibattito democratico, non ideologico, fondato sulla ricerca scientifica e che tenga conto del quadro internazionale di protezione dei diritti sessuali e riproduttivi. Come dicevo, l’Organizzazione Mondiale di Sanità ha di recente pubblicato le nuove raccomandazioni sull’aborto che offrono indicazioni molto chiare a favore della decriminalizzazione, demedicalizzazione e deospedalizzazione dell’aborto e per una maggiore autogestione di questa procedura da parte delle stesse donne e persone incinte. Non è il caso di cominciare a discutere su come implementare queste linee guida in Italia?


[1] Sally Sheldon, Beyond Control: Medical Power and Abortion Law (Pluto Press, 1997).

[2] Fiona De Londras et al., “Integrating rights and evidence: a technical advance in abortion guideline development”, BMJ Global Health 6, 2(2021): e004141.

[3] Sally Sheldon et al., The Abortion Act 1967: A Biography of a UK Law (Cambridge University Press, 2022, in corso di stampa).

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