Di GIROLAMO DE MICHELE

Ma l’amore mio nun more mai / S’è fatto er nido a do’ casca la sera / Co st’amore mio nun se sa mai / Si piagne o ride ma nun vole più padroni (Il Muro del Canto, “L’amore mio non more”)

Un programma di Governo per la scuola presuppone la capacità di fare proposte organiche, concrete e motivate; di avere una visione complessiva, e al tempo stesso innovativa rispetto a quanto è stato detto, o presupposto, da chi ha governato la scuola nel nuovo secolo (ma anche prima).

Ma, si dice, il mondo della scuola sa dire solo dei NO: negli ultimi 25 anni si è opposto a qualsivoglia riforma e a qualsivoglia politica riformatrice. In realtà, le diverse riforme, enunciate o realizzate, era l’una la prosecuzione dell’altra, sulle stesse basi e presupposti, ai quali era sensato opporsi. Ma non è vero che dalla scuola sono venuti solo dei NO: il mondo della scuola ha prodotto proposte concrete, che sono state ignorate dai governi e dai parlamenti.

Ne cito due, delle quali mi servirò. La prima è la Proposta di Legge di Iniziativa Popolare (LIP) “Per una Scuola della Costituzione”, sostenuta da oltre 100.000 firme (per una legge di iniziativa popolare ne bastano la metà): 100.000 SI. Fra il 2007 e il 2017, questa legge è stata osteggiata dai parlamenti e dai deputati, che le hanno negato per più legislature la discussione in aula: se non è una violazione della lettera della Costituzione, di sicuro lo è dello spirito.

La seconda è l’analisi critica Note su Recovery Fund e proposte istruzione e ricerca che un gruppo di lavoro del quale facevo parte ha condotto, all’interno di Priorità alla Scuola, sul PNRR, con un occhio particolare sulla scuola: dalle prime due stesure del governo Conte 2, alle successive 4, fino alla definitiva, del governo Draghi. Con, all’interno, uno studio analitico proveniente dalla FLC su quanti fondi, per quali utilizzi specifici, sarebbero necessari per realizzare davvero una scuola a misura di studentessa e studente, ma anche di docente. Insomma, un vero e proprio contro-PNRR che guarda al bene della scuola.

Bisogna essere chiari: tutte le riforme, norme, decreti sulla scuola dell’ultimo decennio sono ristrutturazioni di un edificio costruito dalla riforma-Gelmini, che a sua volta edificò sulle fondamenta poste da Letizia Moratti. Un nuovo programma di governo della scuola non può limitarsi a spostare qualche muro o rifare le facciate: una nuova scuola richiede un nuovo edificio, a partire dalle fondamenta.

La LIP disegna un Sistema Educativo della Pubblica Istruzione che va dai Nidi d’Infanzia fino al diploma di istruzione secondaria superiore, finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, alla formazione del cittadino e della cittadina. È una Scuola Costituzionale, ed è importante sottolinearlo: perché se non si difendono e accrescono i contenuti della Costituzione, la sua difesa diventa quella di uno spaventapasseri sempre uguale a se stesso in mezzo al prato. Ma una scuola della Costituzione non può essere normata, come accade dalla riforma Bassanini (dlgs 29/1993), da un contratto di diritto privato: perché il cuore dei contratti di diritto privato non è la natura della prestazione, ma lo scambio (“sinallagma contrattuale”) fra ore prestate e retribuzione. Ripristinare per la scuola il contratto di diritto pubblico significa mettere al centro la qualità della didattica; ma anche, rovesciare il principio per cui la didattica deve adattarsi, mettendoci del suo a titolo gratuito, ai finanziamenti erogati: sono i finanziamenti a doversi adattare alle necessità e finalità del Sistema Educativo.

Questa scuola concorre, in base all’art. 3 della Costituzione (l’architrave della Costituzione sociale) a rimuovere gli ostacoli di ordine economico, sociale, culturale e di genere, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e delle cittadine. Si tratta di un sistema educativo democratico fondato sulla libertà di insegnamento sancita dalla Costituzione quale principio imprescindibile di garanzia dell’interesse generale; che deve quindi garantire la partecipazione democratica al suo governo da parte di docenti, di educatori, di personale ausiliario, tecnico e amministrativo, di genitori o di chi esercita la responsabilità genitoriale, e studenti. Il suo scopo è l’acquisizione consapevole di saperi (conoscenze, linguaggi, abilità, atteggiamenti e pratiche di relazione), visti come aspetti del processo di crescita e di apprendimento permanente, con un’attenzione costante all’interazione e all’educazione interculturale. Può sembrare un elenco ridondante di principi: ma sono le basi didattiche, democratiche e costituzionali, su cui edificare i piani superiori. 

Al piano terra troviamo la Scuola dell’Infanzia, che non è un parcheggio dell’infante sostituibile con un buono scuola, ma concorre alla formazione integrale di bambine e bambini. Per questa ragione l’obbligo scolastico, con relativa gratuità della frequenza, prende l’avvio dall’ultimo anno della Scuola dell’Infanzia.

Al piano superiore, la Scuola Primaria favorisce la costruzione di conoscenze, saperi e abilità di base. Sono parte di questo ambiente la pluralità delle/dei docenti (contro il “maestro unico”, inteso dalla ministra Gelmini come “sostituto della figura materna”), il tempo pieno, la valorizzazione del tempo mensa come interno al processo educativo.

Al secondo e terzo piano, la Scuola Secondaria di primo grado organizza ed accresce le conoscenze e le abilità, e favorisce la scelta consapevole della Scuola Secondaria di secondo grado, che persegue il consolidamento, la riorganizzazione, l’accrescimento delle capacità e delle competenze già acquisite attraverso un biennio unitari costituito da un curricolo di base uguale in tutti gli Istituti della Scuola Secondaria di secondo grado, e uno di orientamento: la ripartizione fra Biennio unitario e Triennio di specializzazione offre l’opportunità di sperimentare nel biennio, interno all’obbligo scolastico, una pluralità di saperi necessari per una buona riuscita nella vita, anteponendo lo sviluppo delle capacità critiche di ogni individuo alle presunte necessità del mercato del lavoro.

Sono presupposti irrinunciabili di questo Sistema Educativo la calibrazione degli spazi, sia come metratura che come affollamento, sulle esigenze didattiche: non più di 22 alunne/i per classe, salvo dove la presenza di portatori di disabilità ne richieda un numero minore; la stabilizzazione delle/dei docenti; il ripristino dell’organico funzionale; la democratizzazione dell’organizzazione scolastica, con il ritorno alla centralità del Collegio Docenti; la formazione in servizio del corpo docente, che è un diritto e non una prestazione aggiuntiva, finalizzata alla qualità della didattica, non alla creazione di gerarchie premiali e di ulteriori divisioni fra docenti di serie A e B: tenendo presente che si impara a nuotare nell’acqua alta, cioè nel vivo del processo scolastico, nell’interazione con colleghe e colleghi, non su manuali tipo “Come imparare a nuotare in 10 lezioni” con verifica finale a crocette. 

E, sembra ovvio ma non lo è, spazi adeguati, sia sul piano edilizio che su quello dell’innovazione e della strumentazione tecnologica e informatica: ricordando, contro la mitizzazione di strumenti – uno per tutti, la Lavagna Elettronica (LIM) – che la tecnologia è al servizio del docente, non l’inverso. Aggiungo: i plessi scolastici devono – ce lo ha insegnato in negativo la crisi pandemica – diventare presidi sanitari, ripristinando le infermerie scolastiche nelle quali un’intera generazione ha ricevuto le vaccinazioni dell’infanzia. Si tratta, oltre che un esercizio di buon senso, di diffondere la sanità sul territorio, là dove sono i cittadini, garantendo a un sesto della popolazione italiana, per una parte della giornata, una reale medicina di prossimità.

Quanto costa tutto questo? Tanto. Solo per principiare, cioè per farla finita con le classi pollaio, per adeguare gli edifici alla didattica, metterli in sicurezza e aggiornarli, secondo lo studio della FLC e di Priorità alla Scuola circa 38 miliardi (che produrrebbero più di 206mila posti di lavoro).  Dei quali sono una piccola parte sono stanziati dal PNRR, all’interno dei 27 miliardi complessivi, quasi la metà dei quali destinati non alla scuola, ma all’impresa. Bisogna essere chiari: se il Sistema Educativo concorre alle finalità costituzionali, a partire da quelle dell’art. 3, dunque al Bene Comune, anche la fiscalità generale e la progressività della tassazione devono essere poste al servizio del Bene Comune. Il crescente divario fra la più parte della società in costante impoverimento e precarizzazione, e una ristretta minoranza di soggetti i cui profitti continuano a crescere non nonostante, ma a causa della crisi, deve essere ridotto in nome del diritto ad avere un futuro: e dunque, anche i ricchi piangano.

Tutto questo disegna una scuola che fa della complessità un metodo e uno stile, e della comprensione della complessità lo scopo. Perché viviamo in un mondo complesso, che non smetterà di esserlo. Sono complesse le crisi globali che stiamo attraversando, nelle quali la scuola è irretita, e che il sistema educativo ha il dovere di far comprendere: climatica, economica, pandemica, migratoria. Crisi che si intrecciano l’un l’altra, e che non possono essere comprese se non globalmente; e che sono a loro volta causa di ulteriori crisi: degli equilibri geopolitici e dei sistemi democratici novecenteschi, ad esempio. Oggi la scuola ha sulla carta questi temi, all’interno dell’Agenda 2030: ma li insegna, o finge di farlo, attraverso una materia fittizia, Educazione Civica, che esprime un voto ma non ha un’ora né un docente dedicato. È evidente che non una singola disciplina, ma un sistema educativo integrale può corrispondere alla complessità dell’Agenda 2030: studentesse e studenti, dai Friday for Future ad Extinction Rebellion, sono lì a ricordarcelo.

In questi anni un po’ tutti ci hanno raccontato la favola della semplificazione, anche nei processi di apprendimento: la mente è semplice e risponde a stimoli semplici, dicevano Tremonti e Gelmini; i contenuti sono già nella rete, la scuola deve insegnare a sintetizzarli, diceva Renzi; e certo non dava il buon esempio il ministero Azzolina col podcast “Maturadio”, un bigino di Stato per gli esami tuttora disponibile su Spotify. Esaltano la semplificazione anche i cantori della scomposizione dei contenuti in competenze e pacchetti di apprendimento, e il loro insegnamento attraverso la didattica digitale: una banalizzazione della didattica, attuata in manuali cartacei e virtuali ai quali la didattica viene appaltata attraverso le aule di apprendimento virtuali, con i loro riassuntini verificabili con test standardizzati a risposta rapida, a crocette o vero/falso (ci  sarà sempre qualcuno disposto ad attaccarsi al fumo della pipa e a sostenere che le verifiche a test rafforzano la capacità di memorizzare definizioni e parole chiave). E invece la mente è complessa, è immersa in un ambiente di apprendimento complesso, e necessita di esercizi complessi per rafforzare la propria capacità di comprendere non il mondo presente, ma quello a venire.

Così come sono complesse le finalità di un sistema educativo che durerà tutta la vita: ma con gli strumenti approntati nella sua sola sezione iniziale di tale vita. Che la scuola debba fornire le competenze per l’ingresso nel mondo del lavoro è un’altra semplificazione di un problema complesso: per cui l’occupabilità, per quanto precaria, è presentata come condizione preliminare della futura occupazione. Se non ché, fuori dalla narrazione dominante – quella del capitalismo finanziario e della managerialità estesa a ogni ambito pubblico, dalla sanità alla scuola –, esiste un mondo reale nel quale coesistono un capitalismo basato su intelligenze e linguaggi artificiali, algoritmi, messa a valore di stili di vita e relazioni umane, creazione di reti e piattaforme connettive; e un capitalismo che trae valore da forme sempre più sofisticate e violente di controllo sociale, di frammentazione dei tempi lavorativi, di catene sempre più lunghe della logistica. Non si tratta di due modelli concorrenti, ma di due aspetti che coesistono e si appoggiano l’uno sull’altro: due mondi distinti solo in apparenza, in realtà correlati, come il sottosopra di Stranger Things.

Per il mondo di sotto non è necessaria alcuna occupabilità, alcuna formazione, alcun apprendistato in entrata: è un mondo per il quale il farsi-impresa della scuola non ha alcuna funzione formativa, se non per l’educazione all’assoggettamento. Per il mondo di sopra sarebbe invece richiesta quella fantasia, creatività, capacità critica, quelle logiche divergenti che la scuola dovrebbe contribuire a sviluppare, e che invece vengono amputate dalla sottrazione di spazi e tempi scolastici. In entrambi i casi, cittadine e cittadini sono di fronte all’alternativa, già delineata con chiarezza nella prassi e negli scritti di don Milani (ma anche Franco Basaglia, Lea Melandri, Elvio Fachinelli, Alberto Manzi e tanti altri), fra servitù e libertà. Una scuola servile è una scuola in cui la vita si annoia: e una scuola in cui la vita si annoia, scrive Raoul Vaneigem, educa solo alla barbarie.

Una scuola in cui la vita non si annoia è, per citare ciò che scrisse un bravo collega pochi mesi prima di morire, Valter Binaghi, una scuola che è luogo vitale «quando i ragazzi hanno la percezione non di affettarsi giorno per giorno un diploma, ma che lì dentro si forgiano un carattere, un patrimonio irrinunciabile e un destino. Se no meglio chiuderla».

Qualche proposta pratica

In calce a questo programma scolastico, alcune indicazioni immediate e di buon senso, che potrebbero essere inserite in un decreto legge da approvare entro l’anno solare. In primo luogo, la restituzione immediata alla didattica di tutto il tempo-scuola disponibile, sia per recuperare il tempo perso nelle didattiche a distanza, integrate, blended degli ultimi 3 anni scolastici, sia per liberare la scuola dall’invasiva occupazione degli spazi didattici da parte del settore privato variamente mascherato. Dunque, l’abrogazione dei Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) e dei Patti Educativi Territoriali. In secondo luogo, la cancellazione dell’art. 38 del DL 9 agosto 2022 n. 115 che introduce la figura del “Docente esperto”. La didattica è una prassi collegiale, un agire in relazione: è questa orizzontalità che va rafforzata, con la restituzione dei tempi necessari al confronto, alla progettualità, al con-dividere, piuttosto che illudersi che una direzione dall’alto sia in grado di sostituirsi al gruppo di lavoro. Al contrario, una figura inedita come quella del docente esperto veicola di fatto una profonda ristrutturazione, in senso gerarchico e verticale, del sistema educativo, come fu con la creazione del preside-manager con la Buona Scuola. Di conseguenza bisogna anche abrogare le norme verticistiche che rendono il dirigente scolastico onnipotente e insindacabile: non solo la riforma-Renzi, ma anche quelle parti della riforma Brunetta della dirigenza nella pubblica amministrazione (DL 150/2009 e successiva circolare 88/2010) che già prima della riforma Renzi rafforzava i poteri dei dirigenti scolastici in un quadro di privatizzazione della dirigenza pubblica.

Si può fare: basta volerlo. Se vi dicono che non si può, è perché non vogliono farlo.

Questo articolo è stato pubblicato su Doppiozero il 12 settembre 2022.

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