Di GIROLAMO DE MICHELE

David Foster Wallace, nelle molte pagine dedicate alla dipendenza da sostanze e al suo superamento attraverso il metodo degli Alcolisti Anonimi, rovescia il rapporto fra salute e «malattia»: se la porta d’uscita dalla dipendenza è il riconoscimento, da parte del soggetto in disintossicazione, della sua incapacità di affrontare da solo la propria situazione, e l’accettazione dell’aiuto del gruppo o comunità, non ne dovrebbe conseguire che la «malattia» non è un’eccezione rispetto alla «salute», ma la condizione esistenziale di noi tutti – e che dunque, in un certo senso, siamo tutti «malati», cioè bisognosi non per accidente ma per costituzione della relazione?
Questa constatazione potrebbe essere collocata in avvio dei due libri di Cecco Bellosi – L’orlo del bosco. La cura delle dipendenze tra catene e libertà (DeriveApprodi, pp. 320, euro 22) e di Vanessa Roghi Eroina. Dieci storie di ieri e di oggi (Mondadori, pp. 196, euro 18.50) – che accendono i fari, da punti di vista differenti ma convergenti, sul mondo delle dipendenze. E contribuendo, ci si augura, a spazzar via molti luoghi comuni (uno per tutti: il presunto «declino» dell’eroina) e a riaprire un dibattito critico quantomai necessario.

SI TRATTA DI DUE STUDI che muovono da approcci differenti; una contaminazione fra ricerca storica e lavoro d’inchiesta quello di Roghi; un’esposizione a campo largo del lavoro di comunità, che svolge da decenni in prima persona, quello di Cecco Bellosi, che unisce i puntini disegnando la mappa delle diverse soggettività e dei diversi percorsi: dalle differenti dipendenze al disagio mentale, dalle molte modalità con le quali si è ultimi o dannati nelle periferie urbane e sociali.
In entrambi i testi vanno sottolineate le bibliografie, che costituiscono nel loro insieme un imprescindibile punto di avvio di ogni approfondimento, ma anche un ripercorrere all’indietro una storia politica e culturale – basti pensare al ruolo che Franco Basaglia gioca non solo nei libri, ma nelle chiavi di lettura dei due autori. E ancora, è in entrambi esemplare l’uso delle storie singolari sulle quali sono costruite le due narrazioni: non generalizzazione di casi individuali, così frequente in quella trufferia di parole che Calvino chiamava «peste del linguaggio» nella quale siamo immersi da tempo; ma inserzione del caso individuale, cioè del dato empirico, a conferma sperimentale di una corretta costruzione concettuale che dal concreto prende le mosse per poi ritornarvi.
Un esempio, per entrare nel merito e mostrare come i due testi si corrispondano; per comprendere il fatto bruto dell’assunzione di droghe, Vanessa Roghi mutua dal farmacologo Paolo Nencini la triade setting (l’ambiente sociale), set (il soggetto con la sua costituzione biologica e il suo vissuto) e drug (l’efficacia di rinforzo positivo, ossia la capacità di stimolare il comportamento di assunzione, dalla quale dipende il grado di dipendenza): «se consideriamo il soggetto, il suo ambiente e l’eroina, solo quest’ultima si comporta come una variabile fissa, mentre le altre due concorrono a realizzare un numero enorme di quadri clinici tanto grande quanto quello delle persone che sono affette dalla malattia». Si tratta di una tripartizione a suo modo classica, formulata nei suoi studi pionieristici da Claude Olivenstein, che infatti Bellosi riprende: «son tre i detonatori potenziali della dipendenza: la persona, la sostanza, il contesto, e solo quando questi tre fattori si congiungono la tossicomania trova un terreno favorevole al suo insorgere»; nondimeno, nella dimensione farmacologica e psicoterapeutica il contesto viene spesso dimenticato.

NOTEVOLE è che nella pagina di Bellosi questo discorso sulle sostanze segua un’acuta riflessione sulla «concordanza e conciliazione» fra emozioni e pensiero come condizione ineludibile per avvicinarsi ai problemi conoscitivi ed esistenziali della vita, nello specifico della realtà della depressione (altro tema, per inciso, frequente in David Foster Wallace), contro il «linguaggio glaciale» della psichiatria che si tiene a distanza dall’intimo del vissuto. Non si tratta di una sfumatura espressiva, ma di un linguaggio che deriva da (e al tempo stesso la rafforza) una concezione della medicina e della salute fondata su tabelle e dati quantitativi.

UN’IDEA DI SALUTE che mette al centro l’interesse delle case farmaceutiche nel vendere farmaci presentati come la panacea di tutti i mali: dal Prozac agli attuali OxiContin e Fentanil, responsabili oggi di una nuova crisi da dipendenza negli Usa. Parafrasando una celebre battuta di Boskov, si definisce malattia ciò che il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) dice che sia; esempio calzante è la tristezza derivante da un lutto: nel Dsm III (1980) veniva diagnosticata come malattia dopo un anno, nel Dsm V (2013) è il tempo di elaborazione del lutto, prima che sia diagnosticata la malattia, è sceso a due settimane. Allo stesso modo, la cocaina è una droga illegale, l’antidepressivo no; anche se Piero Cipriano può parafrasare la pagina iniziale di Zero zero zero di Saviano sulla cocaina descrivendo la diffusione massiva di «legali» antidepressivi, ansiolitici, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore: cioè quel «manicomio chimico» che ha reintrodotto la segregazione fisica abolita dalla legge Basaglia.
E Bellosi può fare ricorso alla pagina del Capitale di Marx sulla merce come feticcio, per esemplificare come questo feticcio, «dopo aver trasformato le relazioni tra gli uomini in rapporto tra cose determinando il dominio delle cose sugli uomini, è dilagato nel consumo imposto e compulsivo». La circolazione allargata e conseguente valorizzazione accelerata della merce-droga non sarebbe possibile senza le dinamiche di valorizzazione del capitalismo finanziario: il mare, invisibile ai pesci, nel quale nuotano oggi i soggetti delle dipendenze. Capitalismo finanziario la cui crisi (il capitale è sempre crisi) ha effetti devastanti, nel sovrapporsi ad altre crisi: la crisi di senso indotta dal capitalismo digitale di Big Data, e la crisi della percezione del proprio essere nella temporalità come percezione di un tempo immobile in cui non c’è apertura al futuro.

TORNIAMO ALLORA a setting, set e drug. Le diverse sostanze hanno la capacità di fornire una risposta stabile a una domanda esistenziale preesistente: l’eroina risponde alla domanda «Come sto?», la coca a «Io chi sono», allucinogeni ed empatogeni a «Cosa c’è qui?», l’alcol a «Che cos’è successo?» (e la risposta è «Non è successo niente»). Perché funzionano? Perché il soggetto non ha la capacità di darsi da sé una risposta: le droghe riempiono, secondo la lettera luterana di Pasolini sulla droga, il vuoto del desiderio di morte, che è un vuoto di cultura. E qui bisognerebbe aprire un lungo capitolo sulla distruzione di quella cultura altra, o contro-cultura, attuata negli anni Settanta.
A dispetto di una caustica asserzione di Scozzari riportata da Roghi, la tristezza che pervade nella seconda metà degli anni ’70 l’universo giovanile non deriva dall’essersi presi troppo sul serio, ma dal non averlo fatto abbastanza: accanto a una generazione che credeva nell’assalto al cielo c’era chi voleva la luna, ma non credeva fosse possibile conquistarla. Resta che proprio su quello che è rimasto, nonostante la non casuale devastazione e cancellazione di quella stagione, si possono oggi, a fronte del fallimento delle politiche di criminalizzazione e repressione delle dipendenze, e dell’incapacità delle istituzioni carcerarie di farsi carico di una questione che è sempre stata sociale e non criminale, avanzare delle alternative concrete: politiche di riduzione del danno, e prassi comunitarie quale è Il Gabbiano, una «comunità di comunità», secondo la definizione ad hoc della Caritas Ambrosiana, che definisce la specificità di una casa senza porta, aperta ad ogni richiesta di cura, nella quale alla relazione fra soggetti e oggetti si sostituisce una relazione reciproca, individuale e collettiva al tempo stesso.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 ottobre 2022.

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