Di MARCO BASCETTA.

Sembrava decisamente in declino, l’atomo, che nel dopoguerra era stato posto al centro degli equilibri internazionali, della pace armata tra i blocchi e investito del compito di assicurare la potenza energetica del futuro. Poi, arrivò la spropositata crescita quantitativa degli arsenali nucleari.

Che fu percepita come una spirale. Non solo dai costi stratosferici, ma anche a forte rischio di finire fuori controllo. Nessuno ci voleva rinunciare, ma limitazioni e regole condivise, ispezioni e controlli congiunti furono ritenuti ormai indispensabili e inscritti nei trattati.

Quanto all’energia, costi e incidenti cominciarono a raffreddare gli entusiasmi mentre il problema delle scorie, tutt’ora irrisolto, prometteva sviluppi minacciosi. Movimenti pacifisti ed ecologisti, sempre più estesi e diffusi in molti paesi sviluppati prendevano di mira e cominciavano a ostacolare la corsa dell’atomo, Non solo per le sue devastanti potenzialità, ma anche perché funzionale a un modello di potere tecnocratico e accentratore, monopolistico e irregimentato.

Grandi eventi come l’esplosione del reattore 4 di Chernobyl nell’aprile 1986 e il disastro nucleare della centrale giapponese di Fukushima, causato da un maremoto nel marzo del 2011, assestarono colpi decisivi, anche se non definitivi, al mito del nucleare benefico e sicuro.

Fukushima convinse perfino Angela Merkel a porre fine al programma atomico tedesco, difeso per decenni con le unghie, coi denti e con la polizia dai suoi numerosi contestatori. A 11 anni da quell’evento, l’atomo sembra essere tornato protagonista di primo piano tanto nella deterrenza militare quanto nella produzione di energia.

Con la paradossale patente ecologica di non influire, diversamente da altre fonti energetiche, sul cambiamento climatico. Tanto che perfino Greta Thunberg, (non senza qualche ragione) nell’ attuale situazione di crisi vedrebbe meno dannoso l’impiego del nucleare, piuttosto che un massiccio ricorso al carbone, suscitando così suo malgrado l’entusiasmo strumentale dei fautori dell’energia atomica oggi alla riscossa.

Sul prolungamento di attività delle tre principali centrali nucleari tedesche si è del resto appena concluso, con la decisione «d’imperio» del cancelliere Scholz, un lungo e aspro braccio di ferro interno alla coalizione di governo tra liberali e verdi con un discreto compromesso.

I primi puntavano a un cospicuo prolungamento dell’attività di tutte e tre le centrali della Rft che avrebbero dovuto spegnersi entro l’anno, mentre i verdi ne auspicavano l’attività di due sole e fino alla metà di aprile del ‘23. Per Scholz lavoreranno tutte e tre, ma non oltre la data voluta dai Gruenen.

Cosa accadrà, tuttavia, se, a quella data, la crisi energetica dovesse essere ancora in pieno corso? Lo scontro nella coalizione, allora, sarà destinato a riaccendersi anche perché sotteso da visioni assai divergenti.

Il fatto è che nella crisi della globalizzazione e degli scambi, e in una costellazione fortemente conflittuale dei rapporti internazionali, il nucleare viene spacciato, con ben poco realismo economico e molta propaganda politica, come una scappatoia autarchica e un fattore di indipendenza nazionale.

L’energia nucleare, soprattutto per i paesi poveri di materie prime, è in fin dei conti un feticcio nazionalista. Non è un caso che le destre ne siano da sempre affascinate e ne sostengano insistentemente lo sviluppo.

Anche per il rapporto, neanche troppo sotterraneo, che collega il nucleare civile a quello militare e comunque a una rappresentazione di potenza.

L’annoso conflitto tra Teheran e Washington sul nucleare iraniano (paese niente affatto indigente quanto a fonti energetiche) è un buon esempio di questo intersecarsi di piani, tra pretese di sovranità, volontà di potenza e gendarmeria globale statunitense.

A Zaporizhzhia, la gigantesca centrale nucleare ucraina, oggi controllata dalle truppe di Putin, molti nodi vengono al pettine.

La più grande centrale d’Europa è, al tempo stesso, una contesa fonte di energia e una eventuale bomba surrettizia, capace di provocare spaventose devastazioni sotto forma di evento accidentale, peraltro già più volte sfiorato.

Zaporizhzhia mette la parola fine a qualunque fantasia sul “nucleare sicuro” nel sempre più labile confine tra atomo civile e guerra nucleare. La bomba è in casa e basta poco a farla deflagrare sfuggendo alla responsabilità di un’esplicita scelta bellica.

La minaccia di una guerra atomica non era più all’ordine del giorno da diversi decenni. Lo è tornata con insistenza. E poco importa con quanta concreta possibilità di essere messa in atto. L’equilibrio del terrore in fondo ancora funziona, anche se, come ci ha insegnato il dottor Stranamore, una imprevedibile catena di equivoci, imprevisti e paranoie può finire, scivolando su un piano inclinato, con l’attivare la macchina «fine di mondo».

Quel che conta e inquieta è che la guerra nucleare è tornata nell’ordine del discorso, è diventata un argomento ineludibile della politica e delle relazioni internazionali in grado di condizionare scelte, decisioni e prese di posizione.

Sicuramente un fattore che torna potentemente ad agire sull’immaginario collettivo. Sospingendo governi e nazioni verso un’idea di sicurezza intesa come potenza e come minaccia. Una tendenza che dovrebbe essere il principale bersaglio dei movimenti pacifisti, e dunque necessariamente anti-nazionalisti, in procinto di scendere nelle piazze.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 22 ottobre 2022.

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