Di UGO ROSSI

È una mite e soleggiata giornata di fine novembre quando il comitato napoletano per il diritto all’abitare chiama nella propria chat l’ennesimo intervento antisfratto, stavolta in soccorso di una donna ormai anziana che si trova in condizioni economiche e di salute molto difficili. Solo nelle ultime due settimane il comitato è intervenuto in almeno altre tre o quattro occasioni. Si stima che al momento siano circa 10 mila le notifiche di sfratto già inviate in città. Nelle ultime volte che è intervenuto con un picchetto, il comitato è riuscito a ottenere in tempi relativamente brevi il rinvio dello sfratto esecutivo. Stavolta però la chiamata è più allarmata perché la situazione appare critica per la posizione di intransigenza assunta dalla proprietà dell’immobile.

L’appuntamento per il picchetto è come sempre alle otto del mattino. Gli sfratti si eseguono sempre al mattino. Una decina di persone attive nel comitato per l’abitare si ritrovano più o meno puntuali nell’abitazione della donna che ha richiesto l’intervento. L’appartamento si trova in una nota strada del centro storico di Napoli, a pochi metri da via Mezzocannone, il cuore della storica cittadella universitaria napoletana. Nella zona di via Mezzocannone nel corso del tempo la popolazione studentesca è drasticamente diminuita, perché i dipartimenti delle materie scientifiche si sono trasferiti in altri quartieri della città e qui sono rimasti solo quelli umanistici. La strada era un tempo punteggiata da librerie, fotocopisterie, agenzie di viaggio per studenti e piccoli bar di quartiere. Sui muri si affastellavano volantini e manifesti politici dei collettivi universitari o dei gruppi della sinistra extra-istituzionale. Oggi di tutto questo è rimasta una traccia solo residuale. In via Mezzocannone e nell’intera zona universitaria è tutto un susseguirsi di bar notturni e piccoli ristoranti, negozi di vestiti vintage, alcuni supermercati. Nelle ore notturne la zona è frequentata da folle di giovani provenienti da ogni quartiere della città, mentre di giorno è attraversata da flussi continui di turisti. Com’è noto, da ormai circa dieci anni i turisti hanno letteralmente invaso le strade dei quartieri del centro storico di Napoli, cambiando il volto della città.

E infatti la destinazione più probabile dell’abitazione sotto sfratto è di essere trasformata nell’ennesima casa vacanza della zona, in affitto breve su Airbnb o altre piattaforme digitali. D’altro canto l’appartamento presenta tutte le caratteristiche per quest’uso: è di piccole dimensioni, ideale per due o quattro persone, e possiede un’ampia e gradevole terrazza da cui si scorgono anche i palazzi storici dell’università.

Giuseppina, la donna sotto sfratto, ha un trascorso di vita tanto ricco quanto complicato. Oggi le sue condizioni di salute psicologiche e fisiche sono precarie, non ha più rapporti con i propri familiari e l’unica compagnia che le resta è quella del suo cagnolino. Per sua fortuna, intrattiene buoni rapporti con le persone del quartiere che la sostengono per quanto possono. È un quartiere che resta popolare, nonostante i repentini processi di “turistificazione” che hanno investito la zona, con conseguente aumento alle stelle dei prezzi delle case, in affitto o da comprare.

La storia di vita di Giueppina è uno spaccato della più ampia vicenda di Napoli, delle sue potenzialità e delle sue fragilità sociali. Ma al tempo stesso è una storia che potrebbe svolgersi in una qualunque altra città del mondo contemporaneo. La housing crisis, la crisi abitativa, è un fenomeno planetario che oggi colpisce città collocate in aree centrali del capitalismo globale, così come in aree periferiche o semi-periferiche, come Napoli e altre città del Sud europeo. Ed è una storia che ci racconta della condizione di marginalizzazione e abbandono sistemico che colpisce le persone sole, afflitte da disagio mentale nella società neoliberale. 

Giueppina apparteneva al ceto medio ma oggi è in una condizione di povertà. Dopo aver intrapreso ma non aver mai concluso gli studi di fisica, Giuseppina assunse le redini di un piccolo calzaturificio di famiglia, dando occupazione a circa quindici operai-artigiani nello storico quartiere del Rione Sanità, il quartiere dove era cresciuta, anch’esso oggi travolto dalla bolla turistica globale. Negli anni Novanta, la piccola attività imprenditoriale di Giuseppina conosce il suo momento migliore: gli stivali e le scarpe di moda che lei stessa disegna hanno un buon riscontro di mercato. I quotidiani locali le dedicano articoli come esempio di imprenditorialità femminile radicata nel territorio di quartieri popolari. Apre negozi col proprio marchio in diverse strade pregiate del centro cittadino e perfino uno a Roma. Anche nel suo momento migliore, Giuseppina lotta costantemente con la depressione che la rende inabile per molte ore della giornata. Per diversi anni, le sue sofferenze non le impediscono di portare avanti con un qualche successo la propria attività. A un certo punto è avvicinata da imprenditori stranieri del settore moda che le propongono un investimento, ma nulla si concretizza. L’incantesimo finisce nel 2001, “quattro giorni dopo l’11 settembre” come racconta lei, quando un violento acquazzone di fine estate si abbatte su Napoli, provocando allagamenti e smottamenti in diverse parti della città. Il piccolo stabilimento produttivo di Giuseppina è invaso dall’acqua. Tutto viene distrutto, compresi i macchinari. Negli anni seguenti, Giuseppina tenterà di ricominciare daccapo, ma durerà poco: l’idillio con la sorella con cui gestiva l’impresa si rompe e Giuseppina si sente abbandonata dalle istituzioni nel momento di maggiore difficoltà. Inizia il suo lento declino.

Nella fase più recente della sua vita, l’ormai irreversibile spirale di crisi economica e personale non le impedisce per più di dieci anni di pagare con regolarità il canone di affitto dell’appartamento in cui abita. Nonostante la regolarità dei suoi pagamenti, Giuseppina non è intestataria del contratto di affitto. I proprietari di casa non si fidano di lei in quanto donna sofferente di disagio mentale e preferiscono intestare il contratto al cognato. Il fatto di non essere intestataria del contratto non le consente di poter far domanda per contributi per l’affitto, che le spetterebbero dato il suo stato di disagio. In questa situazione, la pandemia sopraggiunge come il vero e proprio colpo di grazia: le spese mediche aumentano e a Giuseppina non basta più la pensione di invalidità che riceve per riuscire a pagare l’affitto. Né può accedere ai ristori che il governo stanzia a sostegno degli affittuari durante la pandemia. Dopo esser stata una piccola imprenditrice prima di successo e poi fallita, Giuseppina è entrata in una condizione di povertà apparentemente senza via d’uscita, anche se lei continua a sentire intatto il proprio talento di stilista. Ma per tornare a essere creativa, avrebbe bisogno del sostegno delle istituzioni. Invece le istituzioni sono assenti, sul fronte abitativo così come sul piano del reinserimento sociale delle persone con sofferenze mentali.

Nonostante la condizione di Giuseppina, la proprietà è intransigente. Ha richiesto l’intervento non solo dell’ufficiale giudiziario per notificare lo sgombero esecutivo ma anche della forza pubblica. La strada è presidiata da una camionetta della polizia che però per tutta la giornata si astiene dall’intervenire, nonostante gli agenti esibiscano già il casco protettivo sotto il braccio. Arriva anche un’autombulanza chiamata dai proprietari dell’appartamento, come si fa quando si chiede un intervento di forza. Gli attivisti attendono in casa con Giuseppina l’evolversi della situazione, senza mai uscire dalla sua abitazione per circa sei o sette ore.

Nel corso delle ore, altre persone solidali accorrono sul posto e restano in strada a presidiare la situazione. Iniziano le trattative con la controparte, che coinvolgono un consigliere e un assessore del Comune di Napoli accorsi sul luogo. Giuseppina non si rifiuta di lasciare l’appartamento, è pronta ad accettare soluzioni emergenziali in dormitori pubblici del Comune o in case di accoglienza gestite da associazioni del terzo settore. L’unica condizione che pone è che possa venire a stare con lei il suo cagnolino. La trattativa si prolunga fino alle tre del pomeriggio, finché finalmente non si trova una mediazione con la proprietà che accetta il rinvio dello sfratto di circa tre settimane. È un tempo troppo breve, ma data l’intransigenza dimostrata dalla proprietà la notizia è accolta come una piccola, momentanea vittoria. Il rinvio consente di guadagnare tempo a lei e alle persone che la sostengono. Grazie alle pressioni del comitato per il diritto all’abitare, l’amministrazione locale e le associazioni del terzo settore si sono finalmente attivate, dichiarandosi disponibili a cercare un ricovero per Giuseppina. Tuttavia, non possono che proporre soluzioni emergenziali. In questi anni di austerità neoliberale, la spesa pubblica per gli alloggi popolari è stata drasticamente tagliata e i programmi di sostegno abitativo per le persone con disagio mentale rimangono di fatto inesistenti nelle regioni meridionali. La lotta per il diritto all’abitare continua.

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