Di UGO ROSSI

Finalmente anche in Italia va acquisendo visibilità negli organi di informazione il problema della crisi abitativa (dall’inglese housing crisis) che ormai da troppi anni affligge i nostri centri urbani. In molte città negli ultimi mesi si sono formati nuovi comitati civici e popolari per il diritto all’abitare che si sono aggiunti ai molti già esistenti da tempo. Sulla spinta di queste mobilitazioni, nei giorni scorsi un nutrito gruppo di città appartenenti a diverse regioni del Paese – Bergamo, Bologna, Firenze, Lodi, Milano, Napoli, Padova, Parma, Roma, Torino, Verona – ha diffuso tramite il sito dell’ANCI, l’associazione che riunisce i Comuni italiani, un comunicato congiunto, scaturito da un convegno intitolato “Un’alleanza municipalista per una politica nazionale sulla casa”. Nel documento si chiede al governo in carica di mettere in campo una politica nazionale di contrasto alla crisi abitativa in corso: il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica e sociale, il rifinanziamento del recupero degli immobili e delle case popolari, un fondo per il sostegno agli affittuari morosi, una legge per la regolamentazione degli affitti brevi sono le richieste più significative.

Per quanto tardiva e ancora timida, la presa di posizione della nuova “alleanza municipalista” è certamente da accogliere come un segnale positivo di risveglio delle amministrazioni locali in Italia. Per troppo tempo, le amministrazioni locali sono rimaste inerti di fronte alla ristrutturazione in senso neoliberista delle città e in particolare alla deregolamentazione del mercato immobiliare nel nostro Paese, in molti casi finendo con il diventare complici di una attività di consumo di suolo e di un processo di snaturamento sociale dei centri urbani dagli esiti per molti versi irreversibili. Come si vuole mostrare in questo articolo, per essere incisiva e non ridursi a un ruolo di mera testimonianza la nuova alleanza municipalista deve fondare le proprie rivendicazioni su una profonda comprensione e revisione critica del modello di sviluppo urbano che è dietro la crisi abitativa che abbiamo sotto i nostri occhi.

Nel dibattito internazionale si definisce la crisi abitativa in corso come affordability crisis. Questa definizione vuole sottolineare come il problema della accessibilità delle case riguardi in primo luogo i ceti con redditi più bassi: non solo le componenti più povere della popolazione ma ormai fasce sempre più ampie del ceto medio. I ceti popolari e della classe media non riescono a far fronte a un mercato immobiliare sempre più deregolamentato, sottoposto alle pressioni speculative dei grandi investitori capitalistici che neppure la crisi immobiliare e finanziaria del 2008-09 ha scalfito in minima parte. Anzi, la politica di espansione monetaria decisa dalle banche centrali all’indomani della crisi del 2008, intrapresa con l’intento dichiarato di salvare il settore bancario e finanziario dal collasso sistemico, ha innescato una nuova fase espansiva nei mercati finanziari, dando vita a un nuovo ciclo di finanziarizzazione del settore immobiliare di cui oggi vediamo le conseguenze. Negli stessi anni, in un quadro generale di mercato drogato dal denaro a costo zero si sono innestati gli effetti dell’avvento delle piattaforme digitali dei cosiddetti affitti brevi, come Airbnb e Booking. Approfittando della debole se non inesistente regolamentazione dei mercati immobiliari sul piano nazionale, il nuovo “capitalismo delle piattaforme”, come è stato definito, ha creato dal nulla un mercato degli affitti brevi destinato a turisti e ad altri fruitori temporanei della città in continua espansione a livello geografico, tale da raggiungere in pochi anni di fatto tutti i paesi del globo. Da fenomeno amatoriale nei primi anni della sua ascesa, il comparto degli affitti brevi è diventato in breve tempo un business molto appetibile che ha dato un contributo decisivo alla bolla speculativa che oggi incombe sulle città e metropoli contemporanee.

In Italia la situazione abitativa delle grandi aree urbane e metropolitane investite da flussi continui di persone per motivi di lavoro e di svago è al centro di questo dibattito. A Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna i prezzi delle case sono in costante, sostenuto aumento, sia per l’acquisto che per l’affitto. Perfino la recente stretta sul costo del denaro che si riflette sui costi dei mutui sembra non scalfire i mercati immobiliari dei grandi centri urbani dove trovare una casa a prezzi decenti è diventata un’impresa ormai impossibile, soprattutto nelle aree centrali e semi-centrali, comprese quelle tradizionalmente a forte mescolanza sociale. Come si vede dalle città che hanno aderito alla nuova alleanza municipalista, la crisi abitativa non è limitata ai grandi centri urbani ma investe anche numerosi centri medi e medio-piccoli, a partire da quelli interessati dal fenomeno della turistificazione e degli affitti brevi di Airbnb: non solo Venezia, Firenze e gli altri centri della Toscana, le Cinque Terre, la costiera amalfitana e le altre città e località più note per la loro attrazione turistica, ma un numero sempre crescente di piccole e medie città che hanno riconvertito bruscamente le proprie economie intorno al settore turistico e al comparto del consumo (ristorazione ed economia dell’intrattenimento). La politica degli eventi, la spettacolarizzazione dei centri storici e la monetizzazione del patrimonio museale portate avanti dagli ultimi governi hanno alimentato un’economia urbana del consumo che ha surriscaldato i mercati immobiliari e distorto il funzionamento delle economie locali, facendo passare in secondo piano consolidate vocazioni manifatturiere e artigianali che costituiscono l’ossatura dell’economia italiana nelle sue diversità territoriali e regionali.

Dopo la fine dell’era degli incentivi fiscali per la riqualificazione energetica, con l’accantonamento da parte del governo Meloni di misure come il cosiddetto 110% deciso ai tempi del secondo governo Conte, la direzione intrapresa dall’esecutivo e dal blocco di interessi che lo sostiene (i grandi gruppi imprenditoriali delle infrastrutture e del settore energetico) è di riprendere senza troppe esitazioni e infingimenti una politica di crescita edilizia e delle grandi opere. La riproposizione in chiave ancora propagandistica del progetto di ponte sullo Stretto di Messina, così come gli interventi dal forte impatto ambientale che si annunciano per le Olimpiadi del 2026 di Milano-Cortina sono le manifestazioni più visibili del nuovo “blocco edilizio” che va prendendo forma in questi mesi in seno al governo nazionale. D’altro canto, il pensiero dominante ritiene che per affrontare la crisi sociale del Paese la strada maestra sia quella di tornare a realizzare grandi opere e a costruire case e immobili, mettendo fine al rallentamento dell’attività edilizia imposto dalle mobilitazioni ecologiste a partire dagli anni Ottanta. Com’è noto, in Italia il consumo di suolo non si è mai arrestato, anzi è continuato a procedere vorticosamente, nelle regioni economicamente più attive del centro-nord come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, così come in quelle del Sud a forte richiamo turistico.

I grandi organi di informazione, in particolare nel mondo anglosassone, anche di orientamento liberal-democratico, come il New York Times, l’Economist, Bloomberg, in questi anni sono stati in prima fila in un’attività incessante di persuasione dell’opinione pubblica sulla necessità di alleggerire le regolamentazioni dell’attività edilizia nelle aree urbane maggiormente inclini ad accogliere turisti e nuovi residenti, in particolare componenti qualificate (e ben remunerate) della forza-lavoro. I maggiori organi di informazione italiani hanno seguito pedissequamente la linea imposta dai grandi media di lingua inglese. La pandemia ha solo temporaneamente frenato questi processi, che oggi stanno riprendendo a pieno ritmo, dopo l’iniziale illusione che la diffusione del remote work, del lavoro a distanza in piccoli centri periferici potesse intaccare il primato attrattivo delle città.

Insieme all’attrazione di turisti e visitatori temporanei, l’attrazione di cosiddetto “capitale umano qualificato” rimane oggi la priorità per lo sviluppo urbano nel pensiero dominante, soprattutto per le cosiddette superstar cities, al cui modello tutte le città devono conformarsi. Di qui la proliferazione di progetti di architettura avveniristica, l’utilizzo dello slogan della sostenibilità ambientale e l’investimento in tecnologie smart come mere operazioni di marketing urbano volte ad attrarre visitatori e nuovi residenti con alti redditi. Il “modello Milano” fondato sul connubio di investimenti in edifici spettacolari (il cosiddetto skyline) e fintamente ecologici (ad esempio il cosiddetto “bosco verticale”), politica degli eventi e grandi progetti volti ad attirare le imprese tech è esemplare da questo punto di vista. I nuovi residenti ad alto reddito che le città vogliono attrarre sono persone occupate in imprese innovative e ad alta specializzazione tecnologica, nonché nelle cosiddette “industrie creative”, ancor meglio se si tratta di “nomadi digitali”perché i loro redditi saranno ancora più elevati. Secondo gli economisti mainstream che teorizzano le human capital externalities, come l’italo-americano Enrico Moretti autore del bestseller La Nuova Geografia del Lavoro, l’attrazione di lavoratori e professionisti qualificati come quelli impiegati nelle imprese innovative ha effetti moltiplicatori (le externalities) sull’economia locale, perché i loro alti redditi alimentano l’economia locale del consumo: dalla domanda di alloggi alla spesa quotidiana in ristoranti, bar e beni voluttuari. Di qui, l’investimento ossessivo nell’economia “esperienziale” del cibo e del divertimento cui sono state sottoposte le città italiane in ogni angolo del Paese. Naturalmente, l’attrazione di nuovi residenti ad alto reddito ha anche un effetto di surriscaldamento del mercato immobiliare e di produzione di divari di reddito dalle proporzioni inedite, costringendo le fasce meno abbienti della popolazione a trasferirsi nelle cinture suburbane e periurbane delle città. Per questa ragione, gli economisti neoliberali come Enrico Moretti sono in prima fila, insieme ad investitori immobiliari e grandi organi di informazione, nella richiesta di una riduzione delle limitazioni imposte all’attività edilizia e alla pianificazione dello sviluppo residenziale nei centri urbani.

Le tesi sugli effetti benefici del capitale umano qualificato sulle città affondano le loro radici nella teoria della cosiddetta “crescita economica endogena” proposta fin dalla fine degli anni Ottanta dagli ultimi epigoni della scuola economica di Chicago (la scuola nota per il suo appoggio ai governi neoliberisti di Pinochet e Reagan), come i premi Nobel Robert Lucas e Paul Romer. Secondo questa teoria, l’investimento capitalistico in conoscenza mette in moto una spirale che si autoalimenta generando una crescita economica di lungo periodo. Questi economisti ritengono dunque che le città debbano diventare libere di autoregolamentarsi per attirare capitale umano qualificato e consentire ai residenti più meritevoli di affermare il proprio talento senza troppi impedimenti burocratici. Le teorie della crescita economica endogena basata sulla conoscenza hanno avuto un’espressione estrema nei progetti di cosiddette charter cities – di nuove città-stato create dal nulla – sperimentati (fortunatamente ancora con scarso successo) in America centrale e in Africa e sostenuti attivamente da economisti influenti come Paul Romer. Oggi queste concezioni trovano nuovo terreno fertile nelle ambizioni urbane dei leader delle grandi corporation del Big Tech. Elon Musk di recente ha annunciato la fondazione di una nuova città in Texas, libera dalle regolamentazioni “opprimenti” della California e di altri stati dove sono attivi i movimenti ecologisti e per il diritto alla casa. E non è un caso che un caposaldo del progetto di Elon Musk sia la promessa di alloggi a buon mercato per chi deciderà di venire ad abitare nella sua nuova città e mettere a disposizione dello sviluppo urbano il proprio “talento”.

La domanda da porsi dunque è: chi vogliamo far abitare nelle nostre città? Si vuole attirare turisti e nuovi residenti ad alto reddito oppure si vuole rafforzare il tessuto sociale esistente? La prima scelta ha l’effetto di una terapia shock che sconvolge il metabolismo sociale ed ecologico dei nostri centri urbani, in nome dell’inseguimento del modello globale di sviluppo competitivo basato sulla conoscenza e sulle tecnologie. La seconda scelta pone invece le basi per ricostruire le fondamenta delle società urbane dopo quattro decenni circa di neoliberalismo senza freni. È evidente pertanto che per non limitarsi a una mera uscita di testimonianza, magari opportunisticamente messa in campo ora che il centro-sinistra non ha più responsabilità di governo nazionale, la nuova “alleanza municipalista” deve impegnarsi a rivedere in modo strutturale il modello di sviluppo urbano che si è imposto in Italia, come negli altri paesi capitalistici, negli ultimi decenni, individuando con chiarezza le priorità sociali che intende perseguire. E per affrontare in modo efficace la crisi abitativa che affligge le nostre città, l’alleanza di Comuni deve ricercare un confronto stabile con i movimenti per la casa e i comitati per il diritto all’abitare attivi in ogni regione del Paese. Impegnarsi in una critica attiva dell’economia politica dello sviluppo urbano consentirà di fondare su più solide basi l’opposizione al nuovo “blocco edilizio” che sta prendendo forma in seno al governo attualmente in carica.   

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