di SANDRO MEZZADRA.

1. Si può ben capire che in Italia, ogniqualvolta Grillo o Casaleggio evocano scenari di rivolta e disordine sociale, un brivido di terrore percorra le classi dirigenti. La rivolta, infatti, qui non c’è (ancora) stata. Un’infinità di lotte (sul lavoro e sull’abitare, sulla salute e sul reddito) ha scandito in questi cinque anni il ritmo della crisi, intrecciandosi con il dilagare della povertà e della sofferenza sociale. Non sono mancati momenti di parziale ricomposizione, ad esempio attorno al movimento NOTAV, alle lotte universitarie, alla vertenza FIAT. Ma non vi è stato un momento di generalizzazione espansiva della mobilitazione, per molti motivi, tra cui figura senz’altro il sovrapporsi di crisi economica e crisi politica nell’interminabile agonia del berlusconismo. Non è stato così altrove: sia pure in forme diverse Spagna, Portogallo e Grecia, ma anche Slovenia e Bulgaria sono state teatro di formidabili movimenti contro la crisi, capaci di rideterminare complessivamente (secondo una dinamica che abbiamo visto all’opera negli ultimi mesi in Turchia e in Brasile) il quadro politico e sociale, di innovare in profondità la grammatica delle rivendicazioni, la fenomenologia dei comportamenti politici e la composizione soggettiva dei movimenti.

E tuttavia questi pur straordinari movimenti di lotta non sono riusciti a uscire da una dimensione, certo essenziale, di resistenza agli effetti della crisi: anche quando si sono posti con forza sul terreno dell’autogestione e dell’auto-organizzazione sociale, come è avvenuto con particolare intensità tanto in Spagna quanto in Grecia, non sono stati in grado di imporre una soluzione di continuità nella gestione neoliberale di una crisi che è anche crisi del neoliberalismo. La nostra tesi è che il limite di fondo contro cui questi movimenti si sono scontrati consista nella dimensione nazionale entro cui si sono sviluppati; nell’incapacità – certo radicata all’interno di precise condizioni materiali – di porsi dentro quello spazio europeo in cui agiscono invece i poteri che organizzano la gestione della crisi. Si capisce bene, dunque, come lo spettro della rivolta e del disordine sociale si aggiri anche per i palazzi di Bruxelles e di Francoforte: è lo spettro di una rivolta europea, non certo nel senso di una sollevazione simultanea in tutti i Paesi membri dell’UE, ma in quello di una combinazione di forze politiche e sociali che, partendo da una pluralità di punti critici, investa direttamente l’architettura della governance finanziaria e politica europea. E’ di questo che vogliamo parlare a Passignano sul Trasimeno, dal 5 all’8 settembre, nell’ambito del seminario “Sovvertire il presente, reinventare l’Europa”.

2. Quanto si è detto a proposito dei movimenti e delle mobilitazioni contro la crisi, del resto, ha un valore più generale. A partire dalla crisi del 2007/2008 si è prodotta una trasformazione profonda di quella che si può definire la costituzione materiale della UE. L’equilibrio tra lo sviluppo progressivo di un diritto europeo (tanto per quel che riguarda il mercato e la concorrenza quando per quel che riguarda i diritti fondamentali) e la negoziazione politica, a cui i giuristi si riferiscono con la formula “integrazione attraverso il diritto”, appare definitivamente spezzato. Il ruolo sempre più rilevante della Banca Centrale ha funzionato come motore di un complessivo riallineamento dei poteri e delle istituzioni a livello europeo, finendo per fissare un insieme di principi e dispositivi di comando di rango costituzionale (il pareggio di bilancio ne è l’espressione più plastica, mentre il “governo di coalizione” si pone come forma di governo tendenzialmente raccomandata). Attorno a questi principi e a questi dispositivi di comando si è ridefinito il significato stesso della “politica”: comando finanziario da una parte, mediazione tra interessi e territori attraverso le politiche monetarie dall’altra. E’ una politica che prescinde ampiamente dalla dimensione rappresentativa, spinta ai margini dell’assemblaggio di poteri della UE tanto per quel che riguarda il ruolo del Parlamento europeo quanto per quel che riguarda i margini negoziali che rimangono per i governi nazionali all’interno del Consiglio. Si capisce, da questo punto di vista, come la politica, confinata in ambito nazionale, finisca per apparire del tutto svuotata di efficacia, ridotta a un simulacro quando non a pura corruzione. E si capisce perché, per noi, parlare di Europa significhi parlare immediatamente di una nuova “politica”: di come costruire lotta, conflitto, antagonismo contro la governance finanziaria europea per riappropriarci di una politica capace di cambiare le nostre vite, di tornare a parlare la lingua della liberazione, di costruire il comune della libertà e dell’uguaglianza nelle nuove condizioni della cooperazione sociale e produttiva.

Tutto questo, nel tempo storico e nella parte del mondo in cui viviamo, non è altra cosa dalla reinvenzione dello spazio europeo. L’Europa si presenta oggi come uno spazio profondamente eterogeneo. Essa è tale costitutivamente, per la molteplicità di storie che contiene, per la diversità dei contesti produttivi, sociali e culturali di cui si compone. Ma sempre più lo sta diventando dentro la crisi: i processi di parziale convergenza che si erano avviati dopo il Trattato di Maastricht si sono bruscamente interrotti, nuove “regioni” all’interno dell’UE stanno rendendo sempre più complessa ed elusiva la sua geografia, nuovi vettori di comando stanno ridefinendo le relazioni tra centro e periferia al suo interno. La stessa figura del capitalismo europeo si sta scomponendo e frantumando: oltre la crisi (o piuttosto nel suo indefinito prolungamento come strategia di comando e disciplinamento sociale) comincia ad emergere un profilo profondamento eterogeneo degli assetti produttivi e delle stesse forme di messa al lavoro delle singolarità e delle popolazioni. Dentro lo sconvolgimento delle coordinate spaziali dell’accumulazione capitalistica a livello mondiale, l’Europa si avvia così a occupare una posizione (certo non più “centrale” ma altrettanto certamente differenziata a seconda dei Paesi) non diversa, se non dal punto di vista politico, da quella di “potenze emergenti” con India, Cina e Brasile, non meno lontane dall’immagine ideale di “omogenee” società ed economie nazionali. La prospettiva di una rottura della dipendenza dagli USA, nella crisi di egemonia che questi stanno vivendo, è del resto resa chimerica dalle forme stesse del management europeo della crisi, che è anche uno specifico mangement della eterogeneità europea.

D’altro canto, a fronte di questa costitutiva eterogeneità (che rende ingenuo, come si diceva all’inizio, immaginare una simultanea sollevazione in tutti i Paesi membri dell’UE), esistono in Europa elementi comuni, che è essenziale sottolineare. Sotto il profilo capitalistico l’elemento di sincronizzazione e messa a valore dei diversi “assemblaggi” produttivi è ormai in modo sempre più chiaro il comando finanziario, che trova a livello europeo la propria immediata rappresentazione nella Banca Centrale e nel governo di una moneta che dispiega i suoi effetti ben al di là dell’area dell’euro. E’ la dimensione estrattiva del comando finanziario (il suo mettere a valore l’insieme della cooperazione sociale senza organizzarla direttamente, demandando piuttosto questo compito a una molteplicità di funzioni d’impresa) quella che oggi i movimenti si trovano a fronteggiare in Europa: è a fronte di questa dimensione che nuovi dispositivi politici e giuridici vanno inventati, nella prospettiva di imporre e consolidare nuovi rapporti di forza e un nuovo contro-potere.

Per quel che riguarda l’aspetto soggettivo, la composizione del lavoro vivo contemporaneo in Europa, almeno due elementi vanno segnalati: dentro la crisi il lavoro e la vita sono diventati più precari e più mobili. Sono due tendenze che si erano già chiaramente delineate negli scorsi decenni, ma su cui la crisi e il suo governo hanno agito da potenti moltiplicatori. Basta guardare alla situazione del Paese più “forte” in Europa, ovvero della Germania, per vedere come a fronte della tenuta di un nucleo centrale di occupazione “stabile” (tanto nell’industria quanto nel settore pubblico) siano dilagati negli scorsi anni i cosiddetti “Minijobs”, lavori precari da 4-500 euro al mese attorno a cui si è formato un nuovo, ampio strato di proletariato giovanile, ad alto tasso di competenze “cognitive”. Per quel che concerne la mobilità, del resto, occasionali flessioni della pressione migratoria su alcuni Paesi (o su alcune aree di alcuni Paesi) sono state ampiamente compensate da programmi di “immigrazione mirata”, mentre movimenti migratori “interni” alla UE hanno profondamente modificato la composizione demografica e del lavoro di intere aree metropolitane.

3. E’ del tutto evidente che precarietà e mobilità vengono vissute in modi profondamente diversi a seconda dei luoghi, delle condizioni produttive, dei sistemi nazionali di protezione sociale. E tuttavia sono due delle essenziali condizioni comuni (a cui altre devono essere aggiunte) attorno a cui cominciare a costruire elementi di programma per andare oltre l’afasia e la mancanza di immaginazione politica che caratterizzano oggi la sinistra in Europa: reddito, nuovo welfare, libertà di movimento appaiono immediatamente come terreni essenziali di lotta, di rivendicazione e di sperimentazione politica. Vi è oggi bisogno, lo abbiamo già detto più volte, di una politica costituente a livello europeo. Parlare di politica costituente, del resto, non significa necessariamente parlare di un’“assemblea costituente”. E’ anzi realistico riconoscere, dal nostro punto di vista, che per quest’ultima mancano oggi tutti i presupposti. E’ dunque il caso di cominciare a ragionare sul “medio periodo” di una politica costituente, e di provare a indicarne alcuni elementi.

Quel che è certo è che il momento fondamentale di questa politica costituente non può che essere quella che si è in precedenza indicata come “rivolta europea”: non necessariamente un “evento”, ma un insieme di rotture puntuali, prodotte in luoghi determinati e capaci di cumulare i loro effetti nella produzione di una dinamica “destituente”, di una quantomeno parziale disattivazione della governance finanziaria europea. Questa dinamica destituente, alla cui produzione si tratta di cominciare da subito a lavorare facendola vivere come obiettivo dentro le lotte e le mobilitazioni, deve essere accompagnata da una capacità di costruire coalizioni, incalzando le forze politiche e sociali esistenti per conquistarne almeno alcune componenti, separandole da quelle irrimediabilmente vincolate alla continuità della governance neoliberale o a un orizzonte “socialista”, a un programma costituente europeo e moltiplicando le campagne su un piano immediatamente continentale.

L’orizzonte di questa politica costituente, del resto, non è necessariamente quello dello “Stato federale europeo”. Del federalismo conviene semmai riprendere e radicalizzare l’istanza delle autonomie, da interpretare non tanto in senso giuridico-formale (e neppure meramente territoriale) quanto piuttosto in un senso al tempo stesso sociale e politico, ovvero immediatamente produttivo. Su questo terreno vanno riorganizzate la riflessione e la sperimentazione attorno al tema delle “istituzioni del comune”. Secondo la prospettiva delineata da alcuni degli esiti più avanzati del costituzionalismo contemporaneo, l’obiettivo può essere quello della progressiva fissazione a livello europeo di una serie di principi costituzionali che possano rappresentare la base per processi di governo incardinati in reti complesse di poteri e contropoteri. Queste reti sono del resto da intendere come espressione di lotte e di movimenti di riappropriazione e di produzione del comune. A livello europeo si può immaginare che sia la banca a essere investita direttamente dalle rivendicazioni che così emergono, entro una dinamica che di volta in volta attraversa e utilizza istituzioni locali, nazionali, europee. Praticare una prospettiva di contro-potere, sotto questo profilo, non può che significare sottrarre risorse alle operazioni estrattive del capitale finanziario e indirizzarle verso progetti di costruzione del comune sui terreni della salute e della formazione, della cultura, dell’abitare e dei servizi, del sostegno a una cooperazione produttiva nutrita dalla libertà e dall’uguaglianza. Ovvero su quei terreni su cui già si sviluppano – e sempre più si svilupperanno – in Europa le lotte sociali.

4. Lo spazio europeo che emerge da questo incrocio tra potenza destituente, costruzione di coalizioni e consolidamento di reti di contropotere non è uno spazio omogeneo, né tantomeno può essere inteso come uno spazio precostituito (coincidente con lo spazio dell’attuale UE). Esso appare piuttosto come una delle poste in gioco essenziali dello scontro politico, secondo una geometria variabile delle lotte sociali e della potenza costituente che queste ultime sono in grado di dispiegare. L’apertura verso Sud e verso Est, in questa prospettiva, cessa di essere monopolio delle politiche di “vicinato” e “cooperazione” della UE per divenire, anche in base alla continua spinta dei movimenti migratori, terreno di sperimentazione di nuovi assetti di cooperazione e lotta sociale. In ultima istanza, è soltanto su questo terreno che si può oggi costruire in Europa un nuovo internazionalismo, al di là della retorica astratta della “solidarietà”.

[n.d.r Suggeriamo la lettura di questo testo come materiale preparatorio dell’incontro di Passignano, in particolare per la discussione di venerdì 6 settembre, Oltre il limite: pratiche e strategie per il Commonwealth europeo]

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