di MOTOKO KUSANAGI.

Recensione di: David Eggers, The Circle, Alfred & Knopf, 2013; Katherine Losse, Dentro Facebook: Quello che non vi hanno mai raccontato, Fazi, 2012 (The Boy Kings: Journey into the Heart of the Social Network, Free Press, 2012).

Che differenza c’è tra Mae Holland e Katherine Losse? Una lavora per il Cerchio, una mega-corporazione che grazie alla sua invenzione, il software TruYou che ha dato a tutti un’unica identità in rete corrispondente a una persona reale e verificabile, ha sussunto Google, Apple, Facebook (di cui si è comprata l’archivio di dati) e Twitter. L’altra è stata una delle prime impiegate di Facebook, una delle pochissime donne prima dell’espansione massiccia della compagnia e soprattutto dell’arrivo di Sheryl Sandberg, già top manager di Google e più tardi anche iniziatrice del movimento femminista liberal che invita le donne a ‘spingere’ (a farsi avanti, a non tirarsi indietro, a farsi imprenditrici e scalare i vertici del potere). Una è stata ‘scritta’, immaginata, inventata e narrata dallo scrittore Dave Eggers, che ne ha fatto la protagonista del suo romanzo The Circle – abbastanza demolito o in generale guardato con sospetto dai critici letterari della rete. L’altra è il prodotto di una auto-finzione narrativa, nella forma di una autobiografia, The Boys Kings, che ha aperto forse per prima una breccia, certamente uno sguardo diverso, sulla cultura dell’azienda di Mark Zuckenberg. Non sono stati pochi a sottolineare quando il romanzo di Eggers è uscito, quanto Mae somigli a Katherine, ma si tratta di una strana somiglianza, una somiglianza che riesce a invertire tutti i segni dello spettro del femminile nella rete, e più specificamente nei social networks. Spettro della donna così come si è delineata nell’immaginario maschile, nelle sue paure e desideri, nei suoi deliri. Corpo narrativo di donna impigliata nella storia di un gigante del web, uno dei pochi membri dell’oligopolio statunitense che domina e possiede le infrastrutture della comunicazione sociale.

Certo vista da sola, senza il contrappunto della voce di Katherine, Mae risulta quasi credibile, una satira riuscita della vita e del lavoro nelle mega-corporazioni della Silicon Valley. Un dottorato di ricerca presso un prestigioso college nordamericano, ne esce piena di debiti. Per ripagarli e per aiutare i genitori (il padre si è gravemente ammalato, ha bisogno di farmaci costosi che gli vengono negati dalla sua compagnia assicurativa) accetta un lavoro in una azienda municipalizzata. Un lavoro a tempo indeterminato in un ufficio polveroso con un capo un po’ lascivo che la guarda come sua protetta: uno spreco di intelligenza, di capitale umano, si lamenta. Per uscire da questo baratro si rivolge all’amica biondissima e aristocratica, che è riuscita a diventare un pezzo grosso del Cerchio. Basta una raccomandazione (si proprio quella che dovrebbe essere nemica della meritocrazia) ed eccola, si ritrova a lavorare per l’azienda più desiderata del pianeta. Dalle stalle alle stelle come una partecipante qualsiasi di un talent show alla X Factor o Master Chef, senza neanche passare per le selezioni, viene assunta al cielo della meravigliosa vita del Cerchio, dove il lavoro è vacanza, e il posto di lavoro è ‘umano’, e i colleghi sono anche ‘amici’ e ‘followers’, tutto è comunità e i fondi non sono più un problema (sono ‘illimitati’), e il padre può avere i suoi farmaci ed ecco lei adesso fa parte della società degli inventori. Sollevata dal debito e dalla noia, come può Mae Holland, non essere immensamente grata?

Katherine Losse d’altro canto non ha proprio tantissimi motivi per essere grata. Anche lei arriva provvista di una ‘costosa educazione liberale’ sulla East Coast, a John Hopkins, nella città di Baltimora. La formazione in teoria critica, studi culturali, postcoloniale, studi di genere in un’università di elite frequentata dai super ricchi, non può essere più stridente. Una serie televisiva come The Wire funziona da mediazione, nell’immaginario è possibile vivere in maniera significativa questa relazione contorta tra il ricchissimo college, la teoria, e la vita urbana là fuori. Per sfuggire al precariato e alla vita di stenti senza nessuna sicurezza per il futuro che ormai caratterizzano la vita dei docenti delle discipline umanistiche e sociali negli Stati Uniti si trasferisce nella West Coast, a San Francisco. Per caso viene assunta da Facebook, che Mark Zuckerberg ha appena trasferito anche lui da Harvard, per essere vicino alla aziende della Silicon Valley. Kate è certamente felice di questo lavoro che le permette di sentirsi parte di un’avventura globale, di un’azienda in ascesa, un marchio che presto sarà conosciuto in tutto il mondo. Ma, confinata com’è, come Mae, al rapporto con i clienti, non può fare a meno di notare e rimarcare continuamente l’enorme distanza che separa il suo salario (part time e precario) da quello degli ingegneri, maschi e socialmente simili, che dominano la cultura dell’azienda. Sono dei ragazzi della classe medio-alta questi ingegneri di Facebook, assunti da Zuckerberg sulla basa di una omofilia evidente, una affinità sociale che è il lato oscuro della meritocrazia à la Silicon Valley: si assume chi ti assomiglia. Per tutta la durata della sua vita lavorativa a Facebook, Katherine sentirà costantemente la differenza tra il suo reddito e la sua posizione nell’azienda e quella dei suoi colleghi maschi. Cene costose, viaggi a festival musicali, tutto a misura del reddito dei maschi, mentre lei si trova sempre un po’ a scroccare, un po’ a rifiutare, un po’ a dormire per terra con il fidato amico gay – l’unico con cui sente per un po’ una vera affinità sociale, oltre all’hacker eroe dell’ underground informatico, un po’ mitizzato da questa massa di ingegneri bianchi, con cui stabilirà una relazione erotica ma asessuata che riuscirà a consumare solo alla fine. Nella Silicon Valley le competenze ‘soffici’ del femminile (linguistiche, comunicative, relazionali) sono decisamente competenze di serie B. È il programmatore di software, l’ingegnere, che domina l’immaginario, i ritmi e la vita sociale dell’azienda. Anche da qui forse emana quella demolizione, quell’affamare di fondi le arti, le scienze umane e sociali che ormai è diventato un fenomeno globale. L’atmosfera negli uffici di Facebook le ricorda quella di Mad Men. Quelle pochissime ragazze che vi lavorano sono costantemente oggetto degli sguardi apprezzatori degli ingegneri e dei programmatori – alcuni al limite della molestia sessuale. Le ragazze si dividono tra ‘belle’ e ‘intelligenti’ – ed è decisamente meglio essere intelligenti che belle in un posto di lavoro come questo. Kate, ventenne tra i ventenni, affina il suo look da ragazza un po’ indie, un po’ grunge. Le dicono che è un po’ come Peggy di Mad Men, una dei ragazzi, capace di scherzare come loro.

Ma Mae Holland è grata, tanto tanto grata. I suoi debiti appianati, sistemata in questa specie di villaggio vacanze perpetuo che è il Cerchio, in un mondo di vetro, dove vecchi divi della musica vengono a suonare la chitarra agli impiegati durante la pausa pranzo, con fervore si piazza davanti a due schermi (dapprima, poi diventano tre e poi quattro) su cui si svolge la sua vita ‘lavorativa’ (non è un posto di lavoro, ma un posto umano, le ricordano continuamente). Ogni mattina con fiduciosa determinazione e concentrazione, lei apre lo ‘scivolo’: dallo scivolo precipita il torrente di mail e messaggi a cui deve rispondere con velocità e precisione. Bisogna selezionare, rispondere, reindirizzare, ma soprattutto misurare la ‘soddisfazione del cliente’. Bisogna arrivare al 100%, ogni valutazione inferiore a questa percentuale va analizzata, interrogata, riportata. Dal secondo schermo arrivano le valutazioni e incoraggiamenti dei suoi supervisori. Ma neanche questo basta. Le ci vuole una settimana per rendersi conto che pur pensando di aver fatto bene il suo lavoro, si è resa colpevole di una grave mancanza. Non ha seguito i social, non è stata attiva su Zing, ha offeso un collega non riconoscendo il suo invito a un evento che aveva organizzato, il suo rating di popolarità è bassissimo. Da questo abisso, ancora una volta, riemergerà attraverso una mossa sconvolgente che la renderà una delle donne più popolari del pianeta: diventerà completamente ‘trasparente’, accetterà cioè di indossare un medaglione che permetterà ai suoi amici e followers di seguirla continuamente, di vedere quello che vede lei, di avere accesso ai suoi dati biometrici, alle misure del suo battito cardiaco e della resistenza galvanica della sua pelle. Entro la fine del romanzo, Mae diventerà l’incarnazione del motto dell’azienda: ‘tutto quello che esiste, deve essere saputo’, l’altro lato del motto, radicato nella realtà economica della rete sociale, ‘la privacy è un furto’.

Lontana dall’essere totalmente trasparente, Kate invece è abbastanza opaca ai suoi colleghi. Lei incarna uno sguardo di genere sulla cultura dell’azienda, che lungi dall’essere naturale, reinflette i saperi acquisiti nei suoi studi universitari, ma è costretta a nasconderlo, a dissimularlo. Tutti sanno che il primo atto che costituisce in nuce l’inizio dell’azienda è stata la vendetta di Mark Zuckenberg contro la ragazza che l’ha rifiutato, con l’invenzione di un programma che permette di votare il grado di attrattività delle ragazze di Harvard. Ma questa valutazione del corpo femminile non si ferma a questa mascalzonata giovanile. Kate, dalla sua posizione nel servizio clienti da cui ha le chiavi per vedere tutto quello che succede nelle bacheche, nei profili, nelle chat oltre ai dati quantitativi, non può fare a meno di notare che Facebook ‘guarda’ sempre con particolare attenzione i volti e i corpi delle donne. Le statistiche sono chiare: sia gli uomini che le donne (obbligatoriamente identificati dal profilo) guardano i volti e i corpi delle altre donne. Dove sarebbe Facebook senza le donne? Kate non può fare a meno di notare come prima di Facebook uno dei detti più popolari tra i frequentatori di chat era: ‘non ci sono donne su Internet’. Essere identificata come donna significava essere esposta a incredulità, e spesso anche a molestie e insulti. L’architettura di Facebook, il suo permettere la costituzione di reti chiuse e selettive ha attirato le donne che hanno sentito di poter avere più controllo sulla propria presenza online, di sentirsi più protette. Le donne su Facebook sono sempre codificate per essere guardate, ma secondo gradi di apertura decise da loro. Senza questa partecipazione femminile di massa, non ci sarebbe Facebook. Perché queste società maschili di ‘ragazzi re’, il cui scopo è ‘il dominio’, o la costruzione di imperi globali, in cui tutti gli uomini vogliono essere come lui, il capo o il leader, e tutte le donne vogliono mettersi con lui, le donne servono. Ma poche, però. Perché si chiede Kate? Perché le donne ‘fanno il lavoro di civilizzazione’, perché se no gli uomini si imbarbariscono, la loro socialità degenera, e allora trova la differenza tra i giovani inventori e programmatori della Silicon Valley e i bulimici finanzieri tutti droga e donne di Wall Street! La sera in cui lei decide di lasciarli soli a Las Vegas, di non partecipare alle loro costosissime cene che lei non si può permettere, gli ingegneri si lasciano andare a giochi reminiscenti dei famosi lupi di Scorsese: si fanno portare al tavolo donne su donne e ad ognuna, come nel gioco originario di Zuckenberg, danno un voto e poi le rimandano indietro. L’indomani i lupi sembrano pecorelle, si vergognano. La donna serve: da un lato in massa, a popolare i social networks, dall’altro, ma poche, pochissime, a frenare la barbarie delle società degli uomini, di società maschili, a renderla meno evidente, a mantenerne il segreto.

Mae Holland invece è un’assassina, castratrice di maschi. Diventata la donna più popolare del pianeta, in simbiosi totale con i suoi followers, icona del movimento di ‘trasparentizzazione’ del mondo che investe politici e gente comune, non può permettere che qualcuno sfugga a questo regime di visibilità totale, a questo abbraccio materno, viscoso, umidiccio, sentimentale che questa scrittura maschile cuce sulla sua eroina. Causerà in particolare la morte del suo ex fidanzato, voce della ragione, voce dell’umanesimo, voce di coloro che non vogliono essere connessi, voce del logos e della verità che è maschio così come la simulazione e la socialità e tutto ciò che è falso ed è controllo sono, in questo romanzo come in una lunga tradizione letteraria e filosofica, femmine. E’ la voce critica che la infastidisce quando torna a casa a trovare i genitori, anche loro perseguitati da questa figlia devota alla trasparenza che manda in mondovisione la loro sessualità (lei entra senza saperlo come in una scena primaria, nella stanza dei genitori mentre stanno facendo sesso, con il suo medaglione telecamera acceso). Lui è l’artigiano, il manuale, il naturale. Lei non lo accetta e lo perseguita, lo segue e lo fa seguire da telecamere accese, provocandone la morte in un incidente. Anche il suo amante segreto, lo strano uomo con cui ha rapporti sessuali occasionali, e che si rivela essere alla fine il fondatore del Cerchio in incognito, che cerca di sabotare la missione della trasparenza totale, viene tradito da lei. Niente può sfuggire a questo sguardo femminile onnipresente, a questa socializzazione sentimentale della vita, allo sguardo tirannico della trasparenza, che non si ferma neanche davanti alla morte, alla rete sociale che è femmina e che impiglia tutti nel suo sguardo materno.

Kate Losse tradisce Facebook e se ne va. Nella crescita esponenziale di Facebook non è che lei sia rimasta ferma anzi. Il primo passo è stato quello di essere scelta come ghostwriter di Mark. Presta la sua scrittura a farsi imitazione della voce di lui, del suo linguaggio scarno ed essenziale, si fa traduzione del suo pensiero, lo turba per il modo in cui lo ventriloquizza. Poi, sempre a partire dalle sue competenze linguistiche, diventa ambasciatore internazionale di Facebook, viaggia di paese in paese, dal Giappone all’Italia al Brasile, per tradurre la piattaforma statunitense nelle lingue nazionali. Ma neanche questo è abbastanza. La vita dell’azienda si fa sempre più soffocante. Lo staff si espande e le gerarchie etniche e sociali diventano sempre più apparenti: i volti bruni dei nuovi programmatori occupano posizioni più arretrate, meno visibili nell’architettura degli uffici. Come per il Cerchio, anche la vita sociale di Facebook diventa sempre più costruita per la performance sulla piattaforma. Tutto va fotografato, tutto va ripreso, tutto va messo in rete e condiviso. I commenti si dividono, quelli caldi, quelli ostili. La piccola azienda di ventenni è diventata un gigante globale. Ma Kate se n’è già andata, con la testa. Non crede più nella missione, non crede più nel mondo di Facebook. La notizia della sua vendita delle azioni ricevute in quanto una delle prime impiegate dell’azienda viene accolta come un tradimento: gli sguardi si raffreddano, da quello del capo, a quello della top manager che tanto l’aveva incoraggiata. Come puoi lasciarci, come puoi tradirci, come puoi dirci con la tua scelta che non siamo per te più desiderabili, come puoi non essere grata, come osi? Col suo piccolo capitale, il suo piccolo gruzzoletto Kate se ne va e dal deserto americano in cui si rifugia per scrivere ci manda la sua storia, in cui i segni del genere – la rete è femmina, la tecnologia è maschia – si rimescolano, si invertono, si fanno queer nel corpo della scrittura.

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