a cura di MIMMO SERSANTE

Mentre il nuovo piano presentato dall’Electrolux è oggetto di tavoli governativi con l’azienda, e prosegue la lotta dei lavoratori, presentiamo qui la trascrizione degli interventi introduttivi ad un’assemblea tenutasi il 14 febbraio a Pordenone, organizzata da alcuni compagni di Euronomade in collaborazione con l’Associazione migranti di PN, sulla vertenza dell’Electrolux. I relatori sono stati Andrea Franchi, Paolo Mander e Devi Sacchetto. Ci sembra una discussione molto utile a capire la vertenza in corso, ma anche per la discussione generale sulle trasformazioni della produzione, sul capitalismo finanziario, sulla trasformazione delle organizzazioni sindacale, sulle strategie e gli obiettivi programmatici delle lotte, a livello locale e sovranazionale. Facciamo precedere la trascrizione del dibattito da una scheda introduttiva sulla vertenza Electrolux.

SCHEDA ELECTROLUX

Oggi il gruppo svedese Electrolux, secondo produttore mondiale di elettrodomestici, dopo essere stato a lungo il primo, che nel 1984 ha incorporato il gruppo Zanussi, già secondo gruppo industriale italiano con 35.000 addetti del mondo, conta in Italia 4 stabilimenti, con circa 6.000addetti, a Porcia (Pn), Susegana (Tv), Forlì, Solaro (Mi).

A fine ottobre annuncia un piano per l’Italia che, oltre alla riduzione di 3-5 euro sulla paga media oraria (24 euro, di contro a 7 per lo stabilimento polacco), prevede la chiusura dello stabilimento di Porcia, sede storica della Zanussi, con circa 1.100 dipendenti e fra 2.000 e 3.000 lavoratori dell’indotto.

A fine gennaio nello stabilimento di Porcia, parte il blocco della produzione, dapprima totale fino al riempimento dei magazzini, poi parziale, consentendo l’uscita della produzione giornaliera di circa 5.000 pezzi per non bloccare la produzione, conservando bloccati nei magazzini i circa 50.000 pezzi accumulati con il blocco totale. C’è stato un blocco parziale a Susegana e altre azioni di lotta negli altri stabilimenti del gruppo.

Oggi (18/02) l’azienda minaccia il ritiro del nuovo piano, se continua il blocco, che è di 24 ore su 24 con scioperi di circa un’ora e un quarto per operaio. Il nuovo piano presentato dall’azienda in questi giorni propone investimenti per 32 milioni in 3 anni, 316-450 ‘esuberi’ sui circa 1.100 dipendenti per volumi in costante calo: 1.250.000 lavabiancheria quest’anno; 1.050.000 nel 2015; 950 mila nel 2016 e 750 mila nel 2017. I lavoratori sono intenzionati a proseguire la lotta.

Andrea Franchi

Tornare dopo tanto tempo davanti a questa grande fabbrica, un tempo Zanussi, Electrolux dall’80, è stato un momento di esperienza e di emozione forte; da una parte si percepisce una dimensione di solidarietà viva negli operai che presidiano la porta nord da circa due mesi per 24 ore al giorno, alternandosi, intenti a un lavoro difficile di blocco dell’uscita della produzione con i camion in modo da svuotare il magazzino quel tanto che basta per riempirlo con la quantità di frigo prodotta in un giorno (poco meno di 5000 pezzi), in modo da non offrire all’azienda l’opportunità di prendere provvedimenti drastici come metterli in libertà. Sono andato volentieri, per un mio desiderio, e sono stato bene; nello stesso tempo, parlando con i singoli operai, venivano fuori sentimenti di insicurezza, di preoccupazione profonda perché questi uomini e queste donne si sono trovati all’improvviso di fronte a una situazione come quella di oggi, molto difficile da affrontare anche per questo pezzo di classe operaia non più giovane. La presenza fortissima del sindacato, soprattutto della FIOM, era scontata, ma soprattutto inevitabile, perché senza questo sindacato sarebbe stato difficile agire; però senza la tenacia e la volontà di lotta, senza il rifiuto dell’atteggiamento padronale da parte di questi operai, non si sarebbe messo in moto questo meccanismo che ha coinvolto a livello nazionale tutti i sindacati, poi la regione, infine il governo.

Quindi, con tutti i limiti del caso, anche in una situazione come questa, solo se c’è una volontà di lotta alla base si mette in moto qualcosa; se non c’è questa, non si mette in moto nulla. Il che ci riporta a una questione più generale, vale a dire a cosa sia il conflitto sociale oggi. Stando lì, tra lavoratrici e lavoratori, corpo contro corpo, pensavo che da sempre il conflitto sociale e la lotta di classe sono stati legati a un luogo, a un territorio, sono stati una lotta di corpi, di persone che si vedevano; invece l’attuale capitalismo internazionalizzato, quello che Luciano Gambino chiama finanzcapitalismo, sottrae questa dimensione concreta e immediata del conflitto di classe, e rende estremamente difficile agire e re-agire. Uno di questi operai ci diceva: ci spremono e poi se ne vanno. Si tratta di una fotografia perfetta non solodi quello che provano ma del loro essere sfruttati. Un altro operaio ci diceva che dal 2001 al 2010 la produzione per ora è passata da 75 a 94 pezzi. L’aumento dei ritmi è stato veramente impressionante; per andare in bagno, si ha solo qualche minuto a disposizione, che poi deve essere recuperato. Questi operai sono stati spremuti veramente in tutti questi anni, mentre la capacità di reagire alle mosse di questo capitale evanescente, che si sposta qua e là alla ricerca del profitto, si fa sempre più difficile. Non si riesce a immaginare come sia possibile trovare un mezzo per contrastare tutto questo. Certo, c’è la rete, ci sono strumenti di comunicazione che una volta non c’erano, ma il problema resta.

Com’è possibile oggi agire un conflitto che vada al di là di una dimensione locale, quali strumenti si possono trovare? In questi giorni ci sono stati molti incontri a livello istituzionale; a Porcia c’è stato l’incontro con il vicepresidente della Regione e assessore alle attività produttive Sergio Bolzonello che ha fatto un lunghissimo interventodi quasi un’ora, molto articolato e molto preoccupato: questa classe dirigente regionale, con la Debora Serracchiani in testa, si rende conto che, se perde sull’Electrolux, va fortemente in crisi come classe politica che in qualche modo intende ancora presentarsi come di sinistra. Bolzonello ha detto cose molto simili a quello che qualche giorno prima aveva detto Landini nel suo incontro con gli operai alla porta nord e ribadite in un recente volantino della FIOM distribuito in fabbrica. Crediamo che la prospettiva, a questo punto comune, che si sta aprendo, sia quelladi dare una cospicua quantità di soldi all’Azienda in cambio, dicono sindacato e Regione, di un piano articolato che vada oltre i cinque anni. In verità nessuno sa al momento come andrà a finire; certo le prospettive non sembrano molte buone. Infine i migranti. Ne sono rimasti pochi dopo il boom dei ganesi di qualche anno fa. Davanti alla porta ne abbiamo visti pochi e non ci è sembrato che stessero scioperando. E infatti i migranti in genere non scioperano, cosa questa estremamente comprensibile che tuttavia genera qualche problema dentro la fabbrica. Torniamo alla nostra domanda: cosa possiamo fare in una situazione di questo tipo?

Si parla di reddito di cittadinanza, per esempio. Landini ha parlato di reddito minimo, stando però attento a precisare che esso deve essere dato solo a gente che ha cercato e cerca lavoro o fa corsi di formazione. Però, comincia ad articolarsi anche un discorso che vede in una forma di salario non strettamente legato al posto di lavoro, ma di carattere sociale, l’espediente utile per affrontare il problema di una disoccupazione che diventa sempre più vasta, di vasti strati di persone inoccupate che non cercano nemmeno più lavoro; insomma un espediente per affrontare in termini un po’ diversi una questione che sta sfuggendo di mano a tutti. Questo tema della disoccupazione ci richiama al problema dell’euro in quanto strumento usato per costringere la classe operaia dei vari paesi europei su posizioni estremamente difensive. Non sappiamo come restando nell’euro si possa superare questa condizione; d’altronde neanche uscire dall’euro pensiamo che sia una soluzione.

Paolo Mander

Il rischio è di fare i reducisti, di raccontare com’era bello quando avevamo quarant’anni di meno; d’altro canto, non ho elementi precisi per dire come sta andando la trattativa tra Electrolux, la Regione, le parti sociali e gli operai. Credo perciò sia preferibile osservare quelli che sono i meccanismi e i dispositivi che oggi vengono messi in atto per risolvere una crisi che è nuova per questo territorio, ma anche vecchia, perché rappresenta l’esito di un processo che i più curiosi di noi stanno osservando da parecchi anni e che ha cambiato in maniera totalmente radicale il modo in cui ha funzionato il meccanismo di creazione della ricchezza. Ora sembra che tutto accada più o meno all’improvviso, ma già 10 anni fa circolavano voci che provenivano dall’interno dell’Azienda che dicevano che c’era un tentativo molto palese da parte della proprietà di disfarsi di queste attività; addirittura una quindicina di anni fa c’era stato il tentativo di cedere l’intero comparto del bianco ad altri soggetti, asiatici per l’esattezza, più precisamente sudcoreani. La scelta era determinata dal fatto che nel comparto del bianco il tasso di profitto estraibile risultava molto inferiore a quello delle altre attività del gruppo che allora era molto diversificato (una primaria azienda farmaceutica, una mitica Iskinda bank che aveva creato tutto, con partecipazioni nell’industria della difesa, etc.).

L’Electrolux infatti era una galassia che rappresentava un’azienda che operava essenzialmente sul piano finanziario. Non era una battuta quella che circolava nel 1980, quando Zanussi diventò Electrolux, vale a dire che pochissimi anni prima c’era stato un progetto della Zanussi di acquistare la parte di elettrodomestico dell’Electrolux. Bisogna riconoscere che già da allora l’interlocutore con cui gli operai dell’elettrodomestico avevano a che fare, era un interlocutore anomalo, una grossa finanziaria. Lo stesso esito del negoziato per l’acquisizione della Zanussi la dice lunga. La multinazionale svedese trova il suo sponsor nella Fiat, frequentatore assiduo del salotto buono di via Filodrammatici; è la Fiat a garantire un momento di presidio sull’attività del gruppo, dopo di che l’Electrolux entra come colosso della finanza. A volte bisogna dare ascolto alle leggende metropolitane, come in questo caso. Dei mille miliardi di debito accumulati dalla Zanussi, i nuovi proprietari non tirarono fuori una lira col ricatto alle banche creditrici di consolidare il debito altrimenti non avrebbero più lavorato per loro, e ai fornitori che sarebbero stati pagati nel giro di vent’anni e che solo a questa condizione avrebbero continuato a lavorare. Padroncini con 10 operai si piegarono al ricatto pur di lavorare.

La ristrutturazione finanziaria sul lavoro seguì a ruota. Infatti l’Electrolux si ritrovava tra le mani un esempio perfetto di quello che era stato il meccanismo con cui la vecchia fabbrica fordista generava valore, un esempio perfetto di quello che era il processo di capitale che, avendo imparato che il salario doveva essere riciclato per acquistare gli stessi beni che l’operaio produceva, l’aveva applicato in maniera estensiva. Da qui partirono, negli anni sessanta e settanta le acquisizioni di Conegliano, di Torino, di Milano, di Firenze, di Forlì, di Pomezia; si trattò di un allargamento del processo di creazione di valore del capitale che riguardò una buona fetta dell’industria manifatturiera italiana. Questo meccanismo è andato avanti in maniera perfetta. Ricordo che un noto sociologo trentino, Giampaolo Fabris, negli anni ottanta fu incaricato di segmentare il consumatore dell’elettrodomestico e scrisse una cosa che si chiamava “Le otto Italie”; una di queste otto Italie era rappresentata dal Cipputi, il consumatore che, per la sua categoria, voleva qualcosa che Zoppas lo fa e nessuno lo distrugge. Quello che lavorava qui era il Cipputi, l’operaio che si comprava il frigorifero che si era costruito e due congelatori che piazzava in cantina. Il gioiellino funzionava che era un piacere e funzionòfino al punto in cui gli operai non ci stettero più. Il meccanismo è andato in crisi semplicemente perché nel ’71, a fronte della grande vertenza sul salario garantito e poi nel ’75-’76, ci furono alcuni tentativi di predeterminare le condizioni di lavoro. Ricordo la vertenza nello stabilimento dove lavoravo che durò sette mesi: c’era un’operaia che in mensa, mentre tenevamo l’assemblea, sferruzzava e si faceva la maglia, e diceva che lei non li voleva accettare questi dieci pezzi in più al giorno, perché quelli che faceva erano più che tanto e il contratto aveva già fissato la capacità dell’azienda di assorbire quello che si produceva. Un sindacalista poteva addirittura sfottermi, ironizzando sul fatto che, secondo lui, ci eravamo reinventati il controllo operaio di Panzieri. Ma davvero la gente cominciava a dire a quei tempi: rispetto a questi nuovi obiettivi che mi dà il padrone, non ci sto, determino io la quantità di lavoro da erogare.

Seguì l’esportazione sul territorio del bailamme delle lotte di fabbrica. Ricordo un altro sindacalista che, a proposito dell’autoriduzione delle bollette in alcuni quartieri operai, diceva che si trattava di una forma di lotta che lui, che le aveva provate tutte, dal mitra in giù, non ammetteva. Questa cosa andò avanti fino a quando il meccanismo cominciò a mostrare alcune crepe fondamentali e nacque quello che a partire dagli anni novanta fu considerato il cosiddetto modello Zanussi costruito sulla grande trovata della concertazione. Un paradiso, una forma di Mitbestimmung alla tedesca, solo che noi nel consiglio di amministrazione non c’eravamo. Se sommiamo a questo inceppamento crescente del meccanismo di produzione di valore del capitale anche quello che è stato l’esito della caduta del socialismo reale e la conseguente globalizzazione, è chiaro che tutta questa serie di difficoltà e di contraddizioni si è riverberata anche sul nostro territorio. Il meccanismo da allora non ha più ripreso a funzionare da nessuna parte. Non ci sarà più la capacità della fabbrica di produrre il proprio consumatore, di ricucire lo strappo imposto dalle lotte alla logica che voleva che con il salario l’operaio concedesse al padrone di fare profitti. Non ci sarà più perché gli operai sono diventati inaffidabili. Guardiamo a quello che è successo alla Foxconn in Cina. Appena hanno fatto un po’ di esperienza dello sfruttamento fordista, i lavoratori prima si sono fatti sentire suicidandosi, poi muovendosi. Questa capacità non ci sarà più perché gli esperimenti che sono stati fatti da numerosissime imprese occidentali di trasferirsi altrove, non hanno avuto buon esito e questo fallimento li ha costretti a rientrare di corsa.

Non solo; c’è tutta un’altra serie di segnali, questa volta dagli Stati Uniti – dove certamente i rapporti tra capitale e lavoro sono fondamentalmente diversi dai nostri – in cui il rientro di linee di produzione dall’estremo oriente, sostenuto da una politica forsennata di finanziamenti da parte del governo americano, determina ancora oggi tassi di disoccupazione che sono ridicolmente più bassi rispetto a quelli di alcuni anni fa. Non ce la fanno e non si fidano. Dove fanno i soldi allora? Certo, una base di attività produttiva resta ma i soldi li fanno mettendo a valore altre cose. Non è il lavoro, non è la prestazione, la disponibilità del mio tempo per quelle mitiche otto ore ogni turno. No, quello che mettono a valore sono le caratteristiche dell’individuo, la sua vita, le modalità con cui l’individuo si riproduce. Riproduzione è anche quella di comprarsi la lavatrice per non stare lì a lavare tutto il giorno ma adesso l’accaparramento delle forme di riproduzione, delle sue modalità, si allarga, diventa totale. Qualcuno può dire che ci siamo bevuti il cervello quando affermiamo queste cose ma non è vero: ogni volta che vado al supermercato e pago col bancomat, io sto fornendo il profilo dei miei consumi e il supermercato – o direttamente o tramite altri – utilizza quei dati per predeterminare i futuri consumi. Ogni volta che clicco su google,l’interesse della mia ricerca viene registrato e viene riportato fuori, viene messo a valore nel senso che si profila il consumatore, si profila la futura bevanda, si profila il comportamento della vita rispetto a queste espressioni ed io mi ritrovo immerso in una specie di semilavorato che è il nuovo processo di riproduzione. Se cerchiamo una verifica, possiamo andare a vedere le quotazioni in borsa delle società che trattano questi dati per conto di altri.

Negli Stati Uniti Google è il fornitore di dati, mentre l’utente finale è laWalmart, la più grossa catena di supermercati a basso costo, che li usa. E questo non è ancora sufficiente perché ultimamente è uscito fuori il cosiddetto outsourcing per cui io individuo vengo chiamato a risolvere un problema qualsiasi con la promessa di una remunerazione particolarissima, ad esempio una targhetta, un gadget personalizzato etc. Se poi andiamo a vedere cosa fanno le industrie tipo Electrolux – si badi bene, non i bottegai –, fanno precisamente questo secondo la logica dell’open innovation. Pubblico su internet un problema, del tipo: mi serve una cosa per far diventare blu gli occhi di tal di tali ed ecco che tutti rispondono. Il mio sapere, le mie conoscenze, la voglia di esprimermi in quel settore, diventano direttamente fattore produttivo per chi usa queste cose. Ma gli esempi si possono moltiplicare. Questo tipo di sussunzione di quelli che sono i saperi e le caratteristiche delle persone è il fondamento del nuovo processo di valorizzazione del capitale che, messo vicino a una serie di nuovi bisogni che nel frattempo sono emersi (pensiamo a quelli legati alla cura della persona con la conseguente quantità di donne migranti destinate a questo compito oppure ai crescenti costi della sanità o ai tagli alla scuola, insomma a tutto quello che si chiamava welfare), diventa il momento in cui i miei bisogni prendono il posto della mia attività lavorativa senza riuscire a determinare un corrispettivo saldo finale. Se non teniamo conto di questo grosso passaggio tra l’attività manifatturiera e il nuovo modo di produrre ricchezza, non riusciremo a capire perché un’azienda che è passata da settanta a novanta pezzi all’ora vuole andarsene. Io non credo che la discriminante sia la quota di salario che riescono ad abbassare andandosene in Polonia. Sono anzi convinto che tra cinque anni l’operaio polacco, inserito in un meccanismo fordista pari al nostro e visto che non ha quattro cromosomi meno di noi o un DNA diverso, si comporterà come l’operaio tedesco, francese, italiano. È la storia che ce lo insegna: l’emigrato, una volta messo in linea di montaggio si comporterà prima o poi come il nativo.

L’esempio migliore resta quello della Renault, famosa per le sue linee di montaggio etniche, con il capo linea francese, i primi emigrati con più esperienza lavorativa a fare gli attrezzisti mentre il resto degli operai era raccolto in piccolo isole etnicamente omogenee: i turchi con i turchi, i nord africani con i nord africani e così via. Anche alla Renault il meccanismo si è inceppato. Certo, il processo ha bisogno di tempo, ma i frutti prima o poi matureranno. Questo processo si accompagna a due strumenti relativamente nuovi. Il primo è quello della finanziarizzazione. Mi spiego con un esempio. Tempo fa ho avuto modo di entrare nel sito aziendale della mia ex azienda per cercare un collega ancora operativo e sotto gli occhi per caso mi è capitato di leggere un banner, un avviso che annunciava che, nel piano dell’azienda, c’era un taglio di 6.500 posti di lavoro; sotto questa notizia ce n’era un’altra che riguardava l’incremento ottenuto in borsa dal titolo aziendale all’apparire di questo annuncio perché giustamente l’azionista pensa che se tu fai questo taglio, hai in mente buone idee, un progetto serio e per questo solo motivo ti compro. Chiaro, no? Su questo piano il processo di valorizzazione del capitale è passato dal terreno dell’economia reale, per intenderci quello classico dei mezzi di produzione, del lavoro e del capitale, a uno che prescinde dall’esistenza dei mezzi di produzione e si rivolge alla valorizzazione del denaro tramite denaro. Lo ha scritto Gallino recentemente sul manifesto: la quantità di denaro che gira nelle promesse di ricchezza (derivati e simili) è di alcuni ordini di grandezza più alta di quello che è il reddito che viene prodotto realmente. Questo tipo di attività significa ritornare ai vecchi tempi, in cui quello che contava non era se riuscivi a far fruttare un’attività in maniera più efficiente o meno efficiente. Contava la rendita che quell’attività ti tirava fuori, cioè contava il fatto che un terreno esposto in un certo modo era più redditizio, potenzialmente più redditizio, se ci devi piantare l’uva o i cavoli, di un altro e pertanto tu paghi questo “potenzialmente”. Su questo si sta muovendo oggi gran parte dell’interesse del capitale. Proprio come camera di compensazione al fatto che il meccanismo fondamentale classico di valorizzazione se n’è andato. La seconda leva che usano è quella di tentare di esportare in altri contesti sociali, nuovi o quanto meno poco investiti dal processo di valorizzazione.

A proposito dell’Electrolux si parla della Polonia. Il marchio Zanussi-Polska è vecchio di cinquant’anni e fu uno dei primi ad apparire all’estero; poi seguì l’accordo con la Nigeria. Ricordo che nel ’67-’68 si lavorava in Zanussi attorno a talune offerte per portare alcune produzioni di qua in Nigeria perché in questo paese c’era una borghesia compradora con denaro da spendere; si trattava però di una cosa completamente diversa da quella che sta succedendo adesso. Adesso si tratta di una specie di gioco dell’oca per cui me ne vado in Russia, dalla Russia rientro in Polonia, dalla Polonia torno magari in Italia. In questo gioco gli americani hanno speso, come si diceva, tantissimo. Obama ha fatto un programma ambiziosissimo per la ripresa delle attività manifatturiere negli Stati Uniti anche per far fronte a un tasso di disoccupazione reso insopportabile dall’assenza di meccanismi di welfare. Dopo la crisi apertasi nel 2008, una qualche possibilità di controllo sociale è comunque auspicabile. Questa seconda modalità significa riempire degli spazi temporaneamente circoscritti, gli stessi che porteranno l’operaio moldavo, macedone o polacco a comportarsi a fronte dello sfruttamento capitalistico come ci siamo comportati noi a suo tempo. Ne esce un quadro poco determinato da parte del capitale e l’opzione di utilizzare il welfare in due maniere diverse e contrastanti. Da una parte c’è la richiesta dell’Electrolux che in cambio di un piano industriale esige un alleggerimento sostanzioso dei contributi e degli oneri impropri sulla nuova figura di lavoratore prescelto che non potrà avere le caratteristiche dell’operaio che abbiamo conosciuto; dall’altra parte c’è l’opzione che possa essere sostenuta un’istanza di reddito garantito a prescindere da quelli che sono i processi di valorizzazione del capitale.

Personalmente propendo per quest’ultima opzione. Mi auguro che prossimamente i sindacati riescano a ottenere risultati brillanti per quanto riguarda la prosecuzione dell’attività e che Bolzonello riesca a farsi firmare un contratto di 10 anni di permanenza… però così sarà. L’ipotesi di poter ricostituire le condizioni per cui il consumo diventa il momento traente della valorizzazione di capitale ha fatto la sua storia e probabilmente, come le vecchie manifatture del primo ottocento, è sparita per sempre. Il fatto di rivendicare una garanzia di reddito è una patata bollente, una proposta di non facile soluzione. Ricordo che proprio Landini qualche tempo fa in un’assemblea dei centri sociali a Mestre si era espresso a favore di questa ipotesi, aggiungendo però che sarebbe stato molto difficile farlo capire a chi proveniva da un’esperienza come quella del sindacato o da una tradizione socialista. Però non esistono altre scelte; o i pochi soldi pubblici che ci sono vengono destinati a sostenere l’esistenza delle persone oppure destinarli a sostenere la permanenza di questa azienda significherà ritrovarci tra pochi anni con lo stesso identico problema che abbiamo di fronte adesso.

 Devi Sacchetto

Sono un po’ più con i piedi per terra rispetto a Paolo perché penso che i processi di valorizzazione non funzionano solo con la messa a valore della vita ma funzionino anche con i 37 secondi a mansione che svolgono per produrre lavatrici a Porcia o i 45 secondi a mansione con cui producono i frigoriferi a Susegana. Il bel libro di Beverly J. Silver su Le forze del lavoro (Bruno Mondadori, 2008), che in parte riprende con altre parole quello che diceva Paolo, ci dice esattamente che un’impresa oggi ha di fronte quattro-cinque possibilità: una è la delocalizzazione, per cui mi sposto laddove non solo il costo del lavoro ma anche quello delle infrastrutture ( ad es. riuscire ad arrivare ai mercati più velocemente) è più basso; vorrei ricordare che la Foxconn che produce i nostri I-Pod e I-Pad della Apple, ha due stabilimenti nella Repubblica Ceca, che non è esattamente la Cina con i suoi 200 euro al mese, ma un paese con un salario mensile di 350-400 euro. Insisto nel dire che il salario è una delle variabili. Accanto alla spazializzazione o delocalizzazione, troviamo poi la finanziarizzazione di cui parlava Paolo.

C’è poi la questione della tecnologia; invece di fare un’operazione in 27 secondi, posso provare a inventarmi qualcosa che mi faccia superare qualche operazione di linea a ritmi spaventosi oppure che mi permetta di non più produrre lavatrici ma reattori nucleari. Gli operai di Susegana e Porcia hanno bene in mente che si può anche produrre qualcos’altro che non sia una lavatrice o un frigorifero senza dover competere con delle persone che guadagnano un po’ meno. Credo che il passaggio ad altre produzioni sia uno dei punti più importanti. È chiaro che è arduo dire a un operaio di quarata-quarantacinque anni, con un mutuo e dei figli a carico, di cambiare lavoro o di restare a casa. La questione è assai complicata. Uno degli elementi fondamentali è che in Italia non c’è assolutamente un’idea di una politica industriale; altri paesi ce l’hanno. Sono anche convinto che un’industria manifatturiera continui a servire in diversi paesi. Non a caso, alcuni cercano di riportare in patria alcune operazioni, alcuni pezzi di produzione, che non vuol dire mettersi a fare mutandine o calzini per bambini ma vuol dire avere un’idea di uno sviluppo industriale, sul quale poi tutti gli altri processi di valorizzazione di cui parlava Paolo possono innestarsi, perché, se io non ho una base industriale manifatturiera, molto spesso non vado da nessuna parte. I processi di messa al lavoro della vita e di quant’altro li posso molto spesso basare, come ci mostra l’esempio tedesco ma anche francese, sull’industria manifatturiera che non può e non deve essere l’industria del nord est.

Sono più di vent’anni che cerco di capire cosa accade da queste parti e ho sempre sostenuto che la piccola impresa non sarebbe andata molto lontano; dopo sei anni di crisi, assistiamo oggi a un processo pauroso di chiusura delle fabbriche e di deindustrializzazione. La prospettiva più realistica, più che quella di un reddito minomo garantito, è quella di un lavoratore povero, che salta da un posto di lavoro a un altro, facendo però lavori mediamente stupidi. Questa è la nostra prospettiva se non c’è un’idea industriale da parte dello Stato. Gli Stati nell’idea della globalizzazione pare che non contino più nulla, mentre invece scopriamo che Obama alza il salario minimo nello stesso giorno in cui l’Electrolux avanza le sue minacce; forse lo Stato conta qualcosa. Non solo; scopriamo che in Polonia ci sono delle cosiddette zone economiche speciali. La domanda che s’impone è se vogliamo ritagliare il nord est in zone economiche speciali per cui a Pordenone vale quello che diceva il formidabile trio Treu-Jilly- Cipolletta: un posto in cui il contratto collettivo nazionale non funziona più, il sindacato in fabbrica non vale più e magari prendiamo il 20% in meno. Si diceva della Polonia, ma anche nella Repubblica Ceca e in Turchia esistono queste zone economiche speciali dove valgono alcune regole che non valgono nel resto del paese. Ora a me pare che queste proposte vadano in questa direzione solo per favorire le imprese che investono. È così che si procede in Polonia, con il ricorso a incentivi, stabilendo aree salariali più basse, offrendo un certo tipo di forza lavoro e i dispositivi per occuparla. Se noi abbiamo per nostra sfortuna un ministro del cosiddetto sviluppo economico ormai dimissionario, a livello europeo le cose non vanno meglio. Se questa è l’Unione europea, sarebbe meglio fare qualcos’altro; sono per l’Unione europea e a favore dell’euro ma credo che l’Europa debba mettere in campo un’idea industriale.

Non è pensabile che venga lasciata mano libera di spostare dall’interno dell’Unione europea un pezzo di produzione, cioè che un’impresa da Susegana o da Porcia se ne possa andare bellamente in Polonia o in Ungheria senza colpo ferire. Credo che su questo anche i sindacati abbiano un ritardo pauroso: non è pensabile che oggi all’interno dell’Europa le organizzazioni sindacali non siano in grado di elaborare su questo tema un’idea comune. Siamo in ritardo di vent’anni, da quando si è cominciato a considerare l’Europa dell’est una sorta di maquiladora perché questo sta diventando o è già diventato l’est europeo: qualcosa di simile alle zone a nord del Messico che producono per gli Stati Uniti. Di fronte a questo noi vediamo degli operai – perché esistono ancora gli operai in Italia, circa 5-6 milioni – che s’incazzano. Quattro mesi di mobilitazione non sono pochi. A Susegana tutto è cominciato a metà novembre quando l’azienda manifestò il proposito di procedere con questa investigazione, come la chiamano; di provare cioè a comparare il livello di profittabilità per poi spostarsi dove meglio conviene. In questi quattro mesi è successo un po’ di tutto a Porcia, a Rimini, a Solaro, a Susegana: blocchi, ricostruzione di un coordinamento, scioperi etc.

I politici hanno risposto che devono sistemare la legge elettorale, poi che devono battagliare sui costi della politica; di tutto questo agli operai di Porcia come a quelli di Susegana importa gran poco. A fare tornare indietro l’Electrolux sull’idea di taglio dei salari non sono stati gli impegni pur generosi, magari di qualche governatore di regione o di qualche ministro, ma il fatto che gli operai hanno bloccato l’entrata alla produzione e all’uscita delle merci. Questo ha fatto tornare indietro l’azienda; se andiamo a Porcia gli operai ci dicono che nei magazzini ci sono 40.000 lavatrici e se andiamo a Susegana ci dicono la stessa cosa perché stanno facendo uscire solo quello che si produce giornalmente mentre i capannoni sono pieni di merce stoccata – tanto per capire dove sta ancora oggi, nonostante che siamo nel 2014, un po’ di forza operaia. Non è che questi operai sono quattro sfigati e protestano sperando solo che succeda qualcosa; sono lì perché hanno capito perfettamente come funziona il ciclo produttivo in generale e qual è quello di valorizzazione del frigorifero.

Vengo all’ultimo problema relativo al taglio del salario nominale. Credo che dobbiamo metterci in testa che il taglio del salario nominale è una misura da Stato reazionario. Pare che l’inflazione non sia più sufficiente per mangiarci quote di salario reale; oggi si sono messi in testa di tagliare quello nominale, come hanno fatto negli anni scorsi in Spagna e in Grecia. È dagli anni trenta che non si vedeva in Italia una misura del genere. Si tratta di una misura che va assolutamente respinta. L’ha capito non solo il lavoratore dell’Electrolux ma anche tutti quelli che a questo lavoratore hanno portato solidarietà perché se il taglio passa a Porcia, passa poi ovunque, nelle boite, come nelle fabbrichette e nei laboratori dove è molto più facile tagliare il salario nominale. Non è che la situazione di Padova sia migliore perché tra chi lavora in aziendine di quaranta persone questa idea dell’Electrolux gira da qualche tempo. Il ritornello è il solito: ti faccio assumere da un’altra impresa e ti pago un po’ meno, tanto lo fanno anche là. Questa questione del salario nominale e del costo del lavoro va chiarita. Il costo del lavoro più alto ce l’abbiamo nei paesi in cui si sta meglio; tanto per fare un esempio e visto che l’Electrolux viene da un grande paese socialdemocratico con un grande welfare, lì il costo del lavoro è molto elevato; il costo del lavoro basso ce l’abbiamo in altri paesi, ad es. in Polonia e in Ungheria. Vogliamo andare giù col costo del lavoro? Il costo del lavoro è il costo della nostra civiltà, della nostra democrazia, del nostro vivere quotidiano. L’idea di tagliare il costo del lavoro, il cuneo fiscale e quant’altro, deve essere pensato a questo livello.

Va bene riuscire a salvare i posti di lavoro ma se io taglio pezzi di costo del lavoro qualcun altro paga questi pezzi. In Italia abbiamo un sistema fiscale che è a dir poco osceno; c’è una tassazione sui salari elevatissima, quella sull’impresa è nulla. Forse a partire da un cambiamento nei processi di disuguaglianza è possibile ripensare anche una risposta rispetto all’Electrolux. Per concludere. Credo che Paolo abbia ragione quando dice l’esperienza storica ci mostra che là dove va il capitale, lì si sviluppa in qualche modo la lotta di classe; è certo però che per quelli che rimangono sempre sotto il tallone di ferro del capitale è un problema. Certo, tutti si fa fatica a essere sfruttati, spesso quelle particolari condizioni di lavoro non ci piacciono ma, se siamo disoccupati, speriamo di essere sfruttati in un qualche modo, altrimenti non riusciamo a mettere insieme il pranzo con la cena.

Credo che se non mettiamo in campo un’idea forte di un salario minimo europeo, di una convergenza dei salari europei, come abbiamo fatto in questo paese con la rottura del sistema delle gabbie salariali, non sia possibile uscirne. Per lo meno a livello europeo noi dobbiamo pensare e pretendere da qui a dieci anni che ci sia un unico livello salariale; poi ci saranno anche le differenze, come accade sempre in questi casi. Raccogliere pomodori in Puglia significa guadagnare 25 euro al giorno mentre in Emilia Romagna se ne prendono cinquanta, però per lo meno, se abbiamo un processo di convergenza, questo giochino della delocalizzazione cominciamo a contrastarlo. Ma per far questo serve una politica industriale europea e serve forse dare una mano agli operai che sono davanti alla fabbrica.

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