di MOIRA BERNARDONI.

Istanbul, 26 agosto 2013

 

Intro musicale: tristezza e gioia

“Il gaudio e’ una gioia associata all’idea di una cosa passata che accadde al di la’ delle attese”

Spinoza, E3 AD16

Gaudio e’ quel che provo a bere çay al parco Gezi a distanza ormai di piu’ di due mesi dallo sgombero del 15 giugno; gaudio e’ quel che percepisco negli sguardi degli amici/compagni quando ci raccontiamo della comune di Gezi. Scrivo la bozza del mio intervento dopo aver letto l’interessante analisi politica delle rivolte in Brasile di Giuseppe e Bruno e, laddove riusciro’, tentero’ di partire da alcune loro osservazioni cosi’ da iniziare ad incrociare i fili del discorso. Fili su cui infilare perline colorate e libertà giacché, se il gelato al limon di Paolo Conte qui ad Istanbul potrebbe essere un buon rimedio all’afa di fine agosto, nei primi giorni di guerriglia urbana limoni ed aceto erano certamente utili espedienti per resistere ai lacrimogeni. Ahimé per quei limoni! Ben presto surclassati e sostituiti da armamenti di maschere antigas, occhialini e caschi, hanno lasciato spesso la scena per far spazio al vero protagonista di molte delle nostre giornate/nottate di resistenza: Talcid, l’anti-acido di fiducia! E se il Talcid e’ il corrispettivo turchese del piu’ famoso Maalox, parafrasando Vinicio Capossela, vorrei anch’io cantare di stagioni che hanno il Talcid per amico.

Non me ne vogliate per quest’intro a suon di musica popolare, mi aiuta a raccontarvi dei ritmi moltitudinari e delle passioni che hanno caratterizzato Gezi, durante la quale il noto detto della Goldman “una rivoluzione senza ballare e’ una rivoluzione che non vale la pena di avere” si e’ materializzato in tutta la sua valenza, non solo sentimentale ma anche tattica. In un post sul famigerato/lodato facebook del 13 giugno scrissi: “yesterday night, a piano on the stairs, where a recent barricade separates/connects park and square. touching, relaxing and giving energy. more of these actions pls!”. Sono certa che molti di voi avranno guardato il video del pianista dal momento che e’ diventato subito un acchiappa-media. Notorietà  e successo a parte – e a parte pure il disagio suscitatomi la seconda sera nel notare la firma d’Atatürk sul pianoforte – quella musica e’ stata capace di modificare lo stato d’animo della folla che andava e veniva tra Gezi Park e piazza Taksim. Per dirla con Spinoza, le fluttuazioni dell’animo indicano la nostra dipendenza da cause esterne e  nascono dalla composizione dei tre affetti primitivi, ovvero cupidita’, gioia, tristezza (E3P59S). Se intendiamo per gioia “la transizione dell’uomo da una minore a una maggiore perfezione” (E3 AD3) e per tristezza la transizione inversa “da una maggiore a una minore perfezione”, con gioia e tristezza la nostra potenza di agire viene rispettivamente aumentata o diminuita. Vorrei raccontarvi degli effetti della composizione della tristezza e della gioia di/in Gezi, sia da un punto di vista personale che collettivo, in modo da lasciar trapelare la loro valenza politica.

Fin dai primissimi giorni al parco, nonostante la tristezza dovuta ai ripetuti attacchi della polizia, alle evacuazioni, e nonostante persino la tristezza nel riguardare piu’ volte i video in cui si vedono le nostre tende bruciare, la gioia ha sempre superato la tristezza. La gioia veniva in primis dallo stare in compagnia degli altri, dal divenire gradualmente sempre piu’ consapevoli della nostra forza collettiva, dal desiderare quel tipo di stare insieme e aumentava man mano che da quel gruppo di “marginali” – come ci ha definito Erdogan – ci siamo accorti di essere diventati una moltitudine. Scandagliando lo spettro delle mie passioni durante Gezi[1], ricordo la particolare intensita’ della giornata del 2 giugno e della relativa notte al parco, riassunta da uno dei graffiti a cui sono piu’ legata e che diceva: “Gezi, non dormire! Izmir, Ankara, Adana stanno resistendo”. Ricordo inoltre benissimo il mio stato d’animo nello scrivere il solito post su facebook – d’obbligo quei giorni per tranquillizzare i cari lontani:

“dear friends not in istanbul, please don’t follow only the situation in gezi park (taksim). many the cities that are resisting by now. today in taksim they finally let us have a day of deep and beautiful emotions, free from police’s attacks (let’s see if and how they’ll change their strategy!). however in besiktas (istanbul), ankara, adana and izmir police’s repression is being very harsh! extreme use of tear gas and plastic bullets. many injuries plus arrests. the reason is clear, no need for particular analysis: international media focus their attention on istanbul. that’s why they need our support! the easiest from distance is via media, all the more so given that mainstream national media are not giving adequate coverage: please help us/them sharing info/news! but please be careful in picking news: check sources and reliability in order to avoid spreading unfounded news that might just contribute to spread unnecessary panic!

as for personal impressions in few words: amazing and mixed feelings yet to decipher, dear friends! stuff to reflect on: rebellion, fear, resistance, solidarity, liberation, violence, repression, unity, fucking-never-ending-nationalism/sexism, reclaiming space/life but – above all – deep JOY!”

E quella “joy”, scritta in stampatello e “above all”, non faceva altro che risuonarmi nella mente e stimolarmi ad interrogarmi per capire. Per iniziare a decifrare alcune di quelle passioni, vorrei rimanere in ambito musicale e tornare dunque alla sera del 13 giugno e al pianista. Quali affetti ha provocato la sua musica? Piazza Taksim era stata sgombrata l’11 giugno e migliaia di manifestanti dispersi con un quantitativo di gas che definirei crudele, se per crudelta’ s’intende “la cupidita’ dalla quale uno e’ incitato a fare del male a colui [coloro] che amiamo” (E3 AD38). Le notti successive erano dominate dall’ansia per l’attesa dell’attacco finale al parco e si discuteva piu’ che altro di come eventualmente evacuare; le giornate scorrevano tra stanchezza e piccole/grandi azioni di resistenza passiva[2] che non facevano altro che rubare tempo ed energia alla discussione politica. Fluttuavamo tra disperazione (E3 AD15) e speranza (E3 AD12), nate dalla tristezza nell’attendere quell’attacco e  dalla gioia nel bersi un çay all’alba perche’ quell’attacco non era ancora avvenuto e magari non sarebbe avvenuto. La musica di quel pianoforte inaspettato ha suscitato allegria – il piacere della gioia (E3 P11S) – cosi’ da far risalire l’energia, la potenza e dunque la capacita’ di agire di quella moltitudine che entrava ed usciva dal parco-roccaforte passando per la barricata che dava sulla piazza ormai ri-presenziata dalle forze dell’ordine. Capita l’importanza – se non necessita’ – di tali momenti del(la) comune, il giorno seguente la musica e’ ricomparsa anche al gazebo dei Müştereklerimiz (‘Our Commons’)[3]; e a colori vivi e’ il ricordo della gioia contagiosa ri-diffusasi in quel triangolo di spazio tra le nostre tende, il çapulcu bar e l’instancabile infermeria quando sono scoppiate le danze e i canti al suon di “bu daha başlangıç, mücadeleye devam!”. “Questo e’ solo l’inizio, la lotta continua!” non e’ solo uno slogan trasformato nel ritornello di una canzone dagli amici e compagni Yolda[4], ma riassume in se’ quello che Gezi e’ stato e continua ad essere, la “scintilla”[5] di qualcosa di cosi’ gioioso e potente tale da incendiare gli animi di una moltitudine la cui vastita’ e’ andata molto al di la’ delle nostre iniziali attese.

Atto I: “Bu daha başlangıç, mücadeleye devam!”/“Questo e’ solo l’inizio, la lotta continua!”

“Chi si ricorda di una cosa di cui una volta ha goduto, desidera possederla nelle stesse circostanze nelle quali ne ha goduto la prima volta”

Spinoza, E3P36

Nella bozza del suo intervento Giuseppe e Bruno scrivono che “le immagini della lotta della moltitudine turca hanno propiziato la mobilitazione della moltitudine in Brasile e anche le sue forme”, come a dire che il raggio d’azione della scintilla di Gezi non e’ certamente intrappolato entro confini nazionali. Era il 18 giugno quando, controllando le notizie, trovai una foto della folla che aveva invaso le strade di San Paolo e postai di getto su facebook un “empathy & solidarity with the ones in brazil! rise up!”. Posponendo le riflessioni su questioni come empatia e solidarieta’, vorrei brevemente commentare l’espressione “moltitudine turca”. Se, come scrive Toni, la moltitudine denota “un corpo sociale aperto e inclusivo, caratterizzato dalla mancanza di confini e dal suo essere, fin dal principio, una formazione in progress e mista in cui confluiscono i gruppi e gli ordini sociali piu’ diversi” (Negri, 2010 [2009]: 52), allora la moltitudine formatasi a partire da Gezi non e’ turca. Piuttosto e’ – come minimo – turca, kurda e armena. Per tornare invece a quel 18 giugno e al “piacere-aggiunto” dalle notizie dal Brasile, vorrei fare richiamare alla memoria le giornate del 16 e 17 giugno.

La rabbia domino’ l’intera domenica del 16: trascorsa interamente in strada a tentare invano di formare un gruppo coeso, impediti da quantita’ enormi di gas e notizie di arresti in aumento e senza alcun sconto per dottori o giornalisti, interrotta da pause negli androni dei palazzi di chi in solidarieta’ apriva il portone, al riparo dai rastrellamenti della polizia o dalle ronde dei sostenitori dell’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, Partito per la Giustizia e lo Sviluppo). Lo sconforto caratterizzo’ invece lunedi’ 17: i sindacati KESK e DISK[6] avevano indetto sciopero e manifestazione ma la partecipazione risulto’ molto ridotta, fatto probabilmente legato non solo alla stanchezza dopo tre settimane consecutive di resistenza ma anche alla paura per i ripetuti moniti da parte del ministro degli interni che, dichiarando lo sciopero illegale, intimido’ quelli che sarebbero essere potuti essere intenzionati a partecipare facendo appello alle relative conseguenze che avrebbero subito. La strategia continuava ad essere sempre la stessa, repressione violenta ed intimidazione, sennonché – a mio avviso – l’aumento degli arresti ha giocato un ruolo decisivo nell’inibire le mobilitazioni massicce. Quel 18 giugno, invece, immensi furono il piacere per la notizia del fiorire di forum popolari in diversi parchi della citta’ e il sollievo nel constatare che le mie analisi politiche erano sballate e che la lotta non era terminata, bensi’ stava cambiando forma. Riguardo al movimento in Brasile, Giuseppe e Bruno scrivono che “sembra attraversare una fase ambivalente, definita da tre caratteristiche: il riflusso, la diffusione e il dislocamento”. Sospendendo temporaneamente il giudizio sui termini entro cui definire quello di Gezi un movimento, vorrei esaminare in che termini queste caratteristiche possono essere attribuibuite anche al contesto turco.

Concentrandomi soprattutto sul riflusso e la diffusione, scherzosamente ma neanche troppo, direi che Istanbul sembra attraversare non tanto una fase ambivalente quanto la fase finale delle vacanze estive e che Gezi al momento lo usiamo noi che invece in vacanza non ci siamo andati. Giusepppe e Bruno parlano di riflusso che, infatti, si accosta pienamente all’immagine di un’“onda anomala” post-terremoto usata per descrivere le proteste in Brasile. Le proteste in Turchia, invece, sono facilmente visualizzabili come un vasto incendio divampatosi dalla scintilla di Gezi, da quando la polizia stessa ha appiccato il fuoco con le nostre tende e ha tentato di spegnerlo con estintori ed idranti carichi di gas al peperoncino, con una pioggia incessante di lacrimogeni e con grandinate di candelotti e proiettili di gomma. Come in Brasile, anche le passioni di Gezi non sono state realmente domate ma semmai solo temporaneamente soffocate; la moltitudine formatasi da Gezi non e’ stata resa ubbidiente, l’incendio sembra estinto ma variegate particelle incandescenti resistono e hanno solo bisogno di ossigeno per scoppiettare e riardere.

Premesso che sono sicura che la legittimazione non ci viene dai grandi numeri, va detto che le mobilitazioni sono per lo piu’ “dislocate” da Gezi/Takism ai forum, i quali, ad esempio, continuano ma con affluenza al momento molto minore, mentre per le mobilitazioni di strada il discorso e’ piu’ complicato. Dallo sgombero del parco ad oggi molte sono state le manifestazioni che, indette di solito settimanalmente, sono state oggetto di attacchi, giacché il governo non sembra propenso a mollare la linea dura. Fatta eccezione per i cortei del Trans- e del Gay-Pride a fine giugno, e senza scrupoli per le commemorazioni delle vittime, le manifestazioni che tentano di arrivare a piazza Takism o addirittura al parco Gezi sono di solito abortite sul nascere o represse al loro termine[7]. Pur se sono gruppi numericamente limitati ad essere stati protagonisti degli scontri estivi alle fugaci barricate del sabato sera su Istiklal Caddesi, la presenza delle forze di polizia, comprese quelle in borghese, e’ sempre costante e asfissiante almeno tanto quanto i loro gas.

Giuseppe e Bruno scrivono inoltre che “qualche cosa di fondamentale nella percezioni di molti e’ cambiato”: il governo brasiliano, pur non sapendo come interagire con il nuovo, riconosce i poteri costituiti e sembra intenzionato a negoziare. E’ cambiato qualcosa anche nella percezione di molti nel contesto turco? Condivisa e’ l’opinione che le proteste dei mesi scorsi rappresentano uno spartiacque nella storia della Turchia. Come scrive Lea Nocera (2013), ricercatrice all’Orientale di Napoli accorsa a Gezi come altri dall’Italia, segnano “un punto di non ritorno […] un importante momento di svolta”[8], dal quale, come titola la rivista Perspectives-Turkey, “a new history is beginning”[9]. D’accordo con Lea, vorrei ricordare che queste proteste non possono essere analizzate a prescindere dal clima politico, sociale e culturale che ha seguito il colpo di Stato militare del 12 settembre 1980. Caratterizzato da “autoritarismo, militarismo, egemonia da parte di una cultura nazionale rigida e soffocante [e] oppressione quotidiana”, quel clima ha prodotto una generale “depoliticizzazione della societa’” (Nocera, 2013).

Alla luce di queste premesse, dunque, qual’e’ il significato dei forum? Anche se il loro potere costitutivo non e’ ancora riconosciuto dal potere centrale e accentratore e anche se – come mi sembra – non si vedono ancora slanci decisivi verso una lotta per il riconoscimento di un loro eventuale potere legislativo, la loro valenza va stimata sia da una prospettiva locale che globale. A confronto di molte altre realta’ geo-politiche, i forum mi sembrano portatori di un potenziale rivoluzionario di inestimabile valore, una sorta di fari antinebbia tra i tornanti di una montagna disincantata. Emergenti per di piu’ in un contesto storico locale di forte repressione politica, tramandatosi tuttora in un deficit allarmante di liberta’ di manifestare ed esprimersi, direi che i forum sono semplicemente un gran successo e segno evidente della vittoria di una grande battaglia, non solo quella per “un paio di alberi” (come molti media hanno tentato di sminuire) e per la riappropriazione di un bene comune come il parco Gezi. Vorrei a questo proposito fare una breve parentesi su Gezi e il concetto di comune, in modo da fare una distinzione che, se sottile all’apparenza, assume secondo me un’elevata importanza.

L’occupazione/liberazione di Gezi come riappropriazione di uno spazio pubblico (=di dominio dello stato) e’ stata la scintilla delle proteste che sono scoppiate – o “diffuse” per dirla con Giuseppe e Bruno – su scala nazionale, ma anche di un processo del fare il comune che si e’ materializzato in quella che in diversi – erroneamente secondo me – definiscono la comune “di taksim”. Quello spazio liberato e’ stato vissuto per due settimane da una moltitudine che ha potuto fare esperienza del comune, di una relazione sociale alternativa a quella che domina la norm-ale quotidianita’. Le attenzioni e premure amorose tra comunardi non potevano non risultare in una lezione di profonda democrazia radicale per chiunque ha avuto modo di vivere Gezi in quei giorni. Gezi non e’ stata solo una scintilla che ha dimostrato la possibilita’ e la capacita’ collettiva di ribellarsi e resistere ad una normalizzazione della propria resistenza. Gezi ha offerto la capacita’ di fare esperienza diretta – per molti una novita’ – di pratiche di condivisione e cooperazione, alimentando un nuovo spirito comunitario, dove la comunita’ e’ una comunita’ di intenti e non una comunita’ di tipo identitario, sia essa di stampo etnico o religioso come quelle che constinuano tuttora a dividere il paese e a marcare la storia della turchia repubblicana e contemporanea. Gezi era diventata una vera e propria fucina del comune e, per riflesso, di un nuovo soggetto politico collettivo: se da fuori arrivavano donazioni di coperte, materassini, maschere antigas, torcie, scorte di cibo e quant’altro la polizia ha brutalmente ammassato e distrutto quel sabato sera del 15 giugno, la’ dentro in molti si erano ritrovati a scegliersi e ricoprire il proprio ruolo nel processo di produzione. Instancabili ed efficientissime infermerie, catene per la raccolta dei rifiuti e per la consegna di beni come acqua, cibo, medicine e vestiti, cucine e bar, workshop per bambini, una clinica veterinaria, mini-quotidiani informativi, mostre fotografiche, la nostra cara Gezi Radyo e lei, la piu’ gettonata, la biblioteca, che quelli che del parco non avevano una mappa mentale come noi che eravamo li’ fin dalla fine di maggio spesso ti chiedevano dove fosse. La cordialità che quasi tutti riservavano al primo sconosciuto, unita ad una visibile gioia dello stare insieme a far qualcosa che stava cambiando le nostre vite, erano i segni piu’ importanti che i comunardi di Gezi hanno indubbiamente provato un gran piacere nel vivere quell’esperienza. Giuseppe e Bruno raccontano di come i manifestanti di Fortaleza abbiano imparato da quelli di Istanbul ad usare i bottiglioni di plastica pieni d’acqua per spegnerci dentro i lacrimogeni e raccontano anche, in particolare, di come un giovane abbia dichiarato “questo e’ un bene comune, a disposizione di tutti”. E se i bottiglioni in se’ diventano beni comuni materiali a disposizione degli audaci che, a differenza dei pusillanimi (E3 AD41), osano stare in prima linea, il bottiglione entra a far parte di un’insieme di pratiche e di un linguaggio resistente che contruibuiscono a costruire un comune transnazionale. Purtroppo perfino quegli armamenti stessi sono stati riassorbiti dalla logica dominante della mercificazione di qualsiasi cosa. Lo spettro del capitalismo continuava ad aggirarsi tra i viottoli del parco, a bordo di carretti che vendevano dai caschi agli occhialini, dalle bandiere turche alle sciarpe con Atatürk e dalle bombolette spray per i graffiti alle maschere di Guy Fawkes. Ad ogni modo resto fiduciosa che il ricordo di un corpo moltitudinario cosi’ gioioso alimentera’ il desiderio diffuso di (ri)vivere il comune, in quelle ad altre forme piu’ articolate. Che sono in fondo i forum se non un’altra forma del comune stesso e un prodotto del processo lento ad arduo di acquisizione di autoconsapevolezza del proprio potere?

Dopo lo sgombero del parco i cittadini si sono mobilizzati e auto-organizzati in decine di assemblee di quartiere, accessibili a chiunque e disseminate in diversi parchi della citta’ di Istanbul. A me sembra che questo fatto vada interpretato solo come l’inizio di una lotta che, nelle sue forme, linguaggi e dinamiche nuove, e’ appunto semplicemente iniziata. Per capire la portata dei forum di quartiere in corso, e’ fondamentale comprendere in pieno il desiderio di parlare, di dire la propria e di partecipare attivamente ai processi decisionali collettivi, trapelato fin dall’inizio delle proteste ed emerso in tutta la sua portata moltitudinaria venerdi’ 14 giugno. Dopo lo sgombero del parco nella notte tra il 29 e il 30 maggio e la conferenza stampa che ne e’ seguita, ci si era dati appuntamento per le 12:00, quando all’acık forum (forum aperto) si sarebbe discusso su come procedere. Premesso che, come gia’ sapete, al parco eravamo ancora un gruppo relativamente limitato, a quel forum si ebbe gia’ un primo sentore di partecipazione allargata, giacche’ seduti a prendere in mano l’altoprlante c’erano molte piu’ persone di quelle che ci si poteva aspettare. Intuizioni confermate quando al sit-in previsto per le 19:00 della stessa sera ci ritrovammo in migliaia[10]. I forum del 14 giugno sono anch’essi fondamentali, non solo perche’ iniziati nel parco e poco dopo lo sgombero della piazza, non solo perche’ successivi al fittizio processo di negoziazione iniziato il giorno precedente, ma anche per la risposta a domande come ‘che facciamo ora? Le barricate? Le buttiamo giu’ e restiamo al parco con un presidio di portata minore ma ugualmente simbolico?’. La moltitudine di Gezi ha risposto che al parco saremmo restate ed ognuno sarebbe restato come avrebbe voluto, senza nessuno ad indicare agli altri cosa/come fare. Si era dunque deciso di restare e che le bandiere dei partiti sarebbero state lasciate fuori, ma aihme’ il 15, come gia’ ripetuto piu’ volte, il parco, insieme ai potenziali strumenti di dibattito politico al suo interno, e’ stato sgomberato. Per questo i forum di quartiere non solo altro che il dislocamento di quel desiderio/necessita’ di parlare/ascoltare, di confrontarsi e di fare politica e fare il comune e per questo potrebbero essere l’inizio di un processo rivoluzionario.

Le mie conoscenze della lingua si limitano purtroppo al turco di strada e sono dunque insufficienti a seguire i dibattiti nei forum. Mi e’ capitato, pero’, di ascoltare commenti di critica sull’inconsistenza di certe discussioni e, seppur concordo con l’urgenza di un pensamento strategico, non mi permetterei certo di biasimare: che parlino di qualsiasi cosa vogliano in questa fase, purche’ parlino e si ascoltino a vicenda! Questo processo non e’ solo utile a mantenere viva l’energia di Gezi, ma e’ anche strumentale ad azioni di piu’ ampia portata: quale tra i risultati piu’ grandi della scintilla se non il fatto che la gente parla per ore di politica e fa comune in una societa’ che non si fa altro che dire che era stata “depoliticizzata”? Per tornare su questa questione, e per esaminarla piu’ in dettaglio, non possiamo non porre quella domanda che ormai e’ diventata quasi una domanda di routine di questi tempi. Chi erano i contestatori? Chi ha iniziato le proteste? Sono il prodotto del pensiero/azione di una classe urbana ed erudita? In altre parole, sono frutto di un’elite benpensante? Siccome non siamo a New York, e siccome #occupygezi ha delle dinamiche ben diverse da quelle di #occupyWS o di Macao a Milano, la risposta a queste domande non e’ cosi’ immediata ma implica delle importanti precisazioni.

Due sono le piattaforme principali di riferimento: la ‘Taksim Platformu’ e soprattutto la Taksim Dayanışması (‘Taksim Solidarity’). La prima coinvolge professionisti storicamente impegnati sul fronte urbano, mentre la seconda ha svolto un ruolo centrale nel coordinare le azioni di protesta contro il progetto di rinnovamento della zona Taksim. Al momento la piattaforma include 128 costituenti che, raggruppati per aree tematiche, includono tra gli altri: partiti politici rappresentati in parlamento come BDP e CHP, associazioni di professionisti militanti e ordini professionali come l’ordine degli architetti, degli ingegneri e degli urbanisti, sindacati DISK e KESK, partiti e movimenti politici della sinistra tradizionale, movimenti di lotta urbana, come Imece e  Kent Hareketleri e i movimenti di genere come le femministe e la Lambda (LGBT) (Salomoni, 2013). Anche il nostro gruppo, i Mustereklerimiz (‘Our commons’) rientra nella lista[11]. Tra le altre realta’ che non hanno aderito alla Taksim Dayanişma ma che, per ragioni di visibilita’ e di performance, hanno avuto un ruolo importante vanno inclusi i seguenti gruppi: Turkiye Genclik Birliği ( i giovani kemalisti), i Musulmani Anticapitalisti, i collettivi studenteschi e gli ultras calcistici (in particolare il carsi del besiktas).

Se e’ vero dunque che diversi e molti erano i colori delle bandiere al parco e in piazza (dalle piu’ classiche rosse, rosse e bianche, bianche, rosse-verdi-gialle, rosso-nere, giallo-blu, giallo-rosse, viola o dai colori dell’arcobaleno), e’ vero anche che quelli che hanno iniziato le proteste – i primi ad essere al parco con le tende per capirci – erano/eravamo (piu’ o meno) giovani che hanno avuto la possibilita’ di studiare e magari di vivere anche all’estero[12]. Certamente, pero’, da non sottovalutare ma anzi da ponderare e’ la presenza di molti giovani che – come definiti da diversi analisti – fanno parte di quella generazione apolitica cresciuta negli anni post-golpe. Come scrive, infatti, Deniz Özgür (2013), la generazione degli anni ’90 ha svolto un ruolo prominente nella rivolta, generazione cresciuta senza conoscere altra forma di potere politico se non la politica repressiva ed autoritaria di Erdogan, dal momento che l’AKP e’ ininterrottamente al governo dal 2002. Indirettamente sembra riconoscerlo anche lo stesso Erdogan con il suo ultimatum del 13 giugno, con cui esortava i “bene-intenzionati” (gli ambientalisti) a lasciare il parco e a prendere le distanze da tutti gli altri “male-intenzionati” e “terroristi”. Quel giorno Erdogan ha veduto bene di tentare l’appello alle madri e ai padri di quei giovani, invitandoli a riprendersi a casa i propri figli. Sentitesi direttamente chiamate in causa e per la gioia di una moltitudine di figli novelli, alcune di quelle madri si sono invece presentate al parco e in piazza per due sere consecutive. A queste analisi politiche potrei aggiungere le mie osservazioni dirette che, pur se limitate alla zona di Taksim, di certo possono confermare la presenza di una moltitudine di giovani poco piu’ o poco meno che ventenni, molti dei quali, tra l’altro, hanno costruito, presidiato e difeso le barricate intorno all’area. Riassumendo parlerei quindi di una componente senza background politico o, per meglio dire, nuova alla politica, e di certo correggerei le affermazioni di giornalisti come Yavuz Baydar (El Monitor, US), che hanno associato “il nucleo iniziale degli occupanti” con espressioni come “i giovani ‘apolitici’”. Il suo articolo, tradotto in italiano e apparso su l’Internazionale del 14-20 giugno, mostra ancora una volta come nuovi linguaggi politici e attitudine che escano dall’obsoleta logica dei partiti possono essere facilmente etichettati come apolitici anziche’ come apartitici. Per tornare a quel “qualcosa di fondamentale che e’ cambiato nella percezione di molti”, vorrei raccontarvi di altre dinamiche altrettanto importanti e per farlo partiro’ ancora una volta da una prospettiva narrativa personale.

Sabato 1 giugno siamo fieramente rientrati al parco e ammetto che mi ci sono voluti un paio di giorni per scrollarmi di dosso il fastidio che mi davano le molte bandiere turche sventolanti un po’ ovunque e per accettare che quello spazio era potente proprio perche’ permetteva la coesione di gruppi molto distanti tra loro. Molte sono stati i momenti in cui avrei voluto urlare che io non ero li’ per quella bandiera e per quell’orgoglio nazionale. Non era il secolarismo religione di stato la mia causa ne’ le dimissioni di questo particolare governo il mio obiettivo finale. Passata la mia reazione iniziale per cosi’ dire piuttosto anti-democratica e colta la nostra natura moltitudinaria, iniziai a riflettere sulle inevitabili contraddizioni interne e in particolare sul significato che quella bandiera potesse avere per quelli di qua e per quelli di la’ dalle barricate. Eliminate da subito le mediocri letture che hanno appiattito la rivolta ad una lotta bipolare tra il timore di un’islamizzazione radicale della societa’ e lo spirito republiccano e modernista della societa’ civile in rivolta (vedi Repubblica o Limes), due sono le implicazioni maggiori che leggo nell’uso di quella bandiera. Una, la piu’ semplice da cogliere, e’ l’appello al simbolo di identita’ nazionale per reclamare il proprio diritto a manifestare e, piu’ in generale, a reclamare i propri diritti. Come si vede ad un certo punto nel video che vi ho precedentemente inviato[13], un manifestante stringe con veemenza la bandiera e urla alla polizia “io sono Turco!”, come se fosse incredulo a tanto oltraggio da parte di chi, secondo i suoi ideali di stato, dovrebbe servirla la propria nazione anziche’ gasarla. Questa prima dinamica ne implica un’altra, di ancora maggiore interesse ed importanza. Sempre nello stesso video ad un certo punto compare un manifestante che non solo afferma con furore di essere cittadino turco ma si rivolge ai curdi come ai suoi fratelli. Di kemalisti convinti e incalliti ne restano sicuramente a iosa, ad ogni modo tra quei manifestanti doppiamente indignati per la violenza della polizia, sentitesi violati fisicamente e feriti nell’orgoglio nazionale, ce ne saranno diversi che si saranno per lo meno posti delle domande sulla durissima politica di repressione nei confronti della popolazione curda. Va premesso che le informazioni diffuse sui decenni di guerriglia armata sulle montagne del sud-est e’ pressoche’ nulla anche per via della repressione mediatica che, col pretesto di essere antiterrorista, diventa ovviamente ed automaticamente anche repressione della liberta’ d’espressione. La non copertura delle proteste di Gezi/Taksim da parte dei media nazionali ha influito sicuramente sull’autopercezione di quel “popolo turco”[14] “depoliticizzato”, stimolando sicuramente la creativita’ di molti nel raffigurare pinguini con maschera antigas o bandane sul becco[15], ma forse stimolando anche domande tipo “allora forse anche tengono all’oscuro anche noi di quel che succede in Kurdistan…”.

Per tornare invece al processo di riflusso delle proteste, come interpretarlo dunque? Nel 1974 Lefebvre scrisse:

“the progression of what might be called a ‘revolution of space’ (subsuming the ‘urban revolution’) cannot be conceived of other than by analogy with the great peasant (agrarian) and industrial revolutions: sudden uprisings followed by a hiatus, by a slow building of pressure, and finally by a renewed revolutionary outburst at a higher level of consciuosness and action – an outburst accompained, too, by great inventiveness and creativity”.

Indubbiamente, il riflusso non e’ da leggere come una sconfitta (come pensavo io, ingenua e demoralizzata, il 17 giugno) ed, inoltre, si tratta di un riflusso relativo, che riguarda i numeri ma non il desiderio di agire. Oltre ai forum e le ridotte mobilitazioni in strada in zona Taksim, ci sono forum e mobilitazioni sia in altre citta’ che in altri quartieri di Istanbul. Anziche’ accennare a manifestazioni che finiscono in scontri in quelle citta’ o quartieri che, come Adana, Arnavutlu o Gezi Mahallesi, sono caratterizzati da una storia ribelle da prima di Gezi e al di la’ di Gezi, preferirei portare l’esempio degli orti urbani di Yedikule (Istanbul). Patrimonio Unesco ma soprattuto bene comune del quartiere, sorgono a ridosso delle mura bizantine e sono spazio conteso, da un lato dalla municipalita’ di Fatih che vorrebbe distruggerli per portare avanti il suo dubbio progetto per la costruzione di un parco e di un’area verde, e dall’altro dalla popolazione locale che, supportata da ambientalisti, storici, archeologi e attivisti, lo scorso 8 luglio e’ stata protagonista di scontri minori sul luogo. Per ora restiamo dunque in attesa che molti rientrino dalle vacanze, compresi parecchi giovani che stanno partecipando a campi estivi in cui, oltre a musica e divertimento, sono previsti workshops e discussioni politiche. Qui in Turchia come in Brasile, in molti guardiamo a settembre, alla riapertura delle universita’[16] e pregustiamo l’idea di prossime azioni che potrebbero includere una mobilitazione contro la costruzione del terzo ponte sul Bosforo e/o – come mi auguro – un impegno per arginare i danni del gia’ avviato processo di “rinnovamento” o meglio di distruzione ed ingegneria sociale nel quartiere di Tarlabasi.

La valenza di Gezi va ulteriormente presa in considerazione alla luce di quel processo che Giuseppe e Bruno chiamano “diffusione”. Non solo Gezi ha “moltiplicato le forme di lotta”, “rafforzato” e “riqualificato” le lotte gia’ esistenti, ma e’ diventato catalizzatore di attenzione mediatica e dunque strumento di propagazione di informazione e pratiche. Cio’ ha sicuramente comportato una maggiore attenzione mediatica su Istanbul a discapito di altre citta’, cosi’ come accennavo nella parte introduttiva del mio discorso[17]. D’altro canto pero’ questo processo non puo’ essere analizzato senza tener conto del ruolo degli ormai immancabili social media come facebook e twitter che ci hanno davvero permesso in tempo reale di uscire dai confini turchi, a maggior ragione tenendo conto della gia’ menzionata scarsa copertura mediatica nazionale. Da non sminuire e’ prima di tutto il significativo supporto psicologico a chi era in strada (dall’estero ad istanbul cosi’ come da istanbul e dall’estero ad Ankara/Izmir/Adana). Al momento abbiamo perso molta attenzione mediatica straniera che, ragionevolmente, si e’ spostata nuovamente su egitto e siria. Il raggio di diffusione di informazioni sulle azioni in corso all’estero si limita per lo piu’ a siti e blog di informazione alternativa al mainstream. Vorrei sottolineare, pero’, come i forum stessi, i campi estivi e i relativi workshop, sono potenzialmente strumenti di diffusione di elevata importanza. Vi porto come esempio un nostro tentativo che, pur se per ora fallito, non sminuisce il potenziale di certe dinamiche di diffusione. La Mutfak, letteralmente ‘cucina’, e’ uno spazio rivoluzionario nel quartiere di Tarlabasi in cui il nostro collettivo non sta solo sperimentando pratiche di solidarieta’, cooperazione e condivisione con i migranti ma in cui impariamo giorno dopo giorno a favorire incontri fortuiti nella continua produzione del comune[18]. Con i compagni ed amici della mutfak siamo gia’ stati in un paio di parchi della citta’ a raccontare la nostra esperienza con l’obiettivo di stimolare il proliferare di altri spazi basati su modelli di politica ed economia alternativi. So ad esempio che in diversi parchi sono comparsi mercatini di scambio che, non solo sono certamente il risultato del ricordo di Gezi, ma ci devono far riflettere e concentrare le energie sui forum come istituzioni politiche alternative ma anche come potenzialmente efficaci strumenti di diffusione. Inoltre, l’attenzione mediatica guadagnata finora ci potra’ solo facilitare la visibilita’ nel rinvio di informazioni a punti piu’ lontani in caso di prossime mobilitazioni e nuove azioni di portata considerevole.

Per concludere questa parte dell’analisi e, contestualizzando Spinoza, certa che chi ha avuto il piacere di condividere l’esperienza della comune di Gezi e delle proteste ad essa legate non puo’ non desiderare di riviverla nuovamente, vi invito a guardare un video (sottotitolato in inglese). Contiene un assemblaggio di momenti salienti del forum del 6 giugno al parco, certa che possa essere d’aiuto a farvi un’idea di quale fosse la composizione socio-culturale e politica di Gezi[19], prima di proporvi altri suggerimenti musicali come spunti per riflettere sulla relazione di forza che intercorre tra pratiche di resistenza e ed un uso intenzionalmente vago del concetto di terrore.

Intermezzo musicale: paura, timore e terrore

 

“Chi si adopera a vincere l’odio con l’amore combatte senza dubbio gioioso e sicuro; resiste con la stessa facilita’ a piu’ uomini come a uno solo e non ha quasi bisogno dell’aiuto della fortuna”

Spinoza, EIV P46S

 

Se Bella Ciao e’ accettata a varie longitudini come la canzone di resistenza per antonomasia e se la versione in turco non puo’ mancare di suscitare un effetto a tratti nostalgico, quel verso “morto per la liberta’” mi ha stimolato piu’ volte a tornare a riflettere sulla proposizione 67 della IV parte dell’Etica di Spinoza. La liberta’ compare anche nel ritornello di Hayidi Barikata del collettivo musicale istanbuliota Bandista, riconfermatasi una delle canzoni di protesta e successo tra le nuove generazioni di manifestanti: “dai, alla barricata! Per pane, giustizia e liberta’”. Zoomando l’analisi da un piano etico generale ad una “situazione rivoluzionaria” (espressione di Giuseppe e Bruno di cui mi approprio con piacere), mi chiedo che significato potrebbe assumere per un manifestante in prima linea o nelle retrovie un’affermazione come ‘un uomo libero non pensa alla morte ma alla vita’ (E4 P67).

Il desiderio di liberazione e’ piu’ forte della paura e genera una passione che e’ annoverata da Spinoza tra gli affetti: la responsabilita’, l’affetto per il quale ci sentiamo impegnati a rispondere a noi stessi e agli altri (compagni e non) delle proprie azioni e delle conseguenze che ne scaturiscono. Significa dunque che, quando volano molotov o san pietrina, chi l’ha lanciati non e’ affetto da responsabilita’ collettiva per le conseguenze del proprio atto? Senza discutere in dettaglio del concetto di violenza, e ammettendo che da prima di Gezi ero ferma su posizioni piu’ assiomatiche e non-violente, ora penso che, se non tutti, almeno una parte di chi e’ in prima linea sulle barricate di sicuro e’ affetto da una sorta di responsabilita’ oltre che da adrenalina, ira[20] ed audacia, ovvero “la cupidita’ dalla quale uno e’ incitato a fare qualcosa con un pericolo che i suoi pari hanno paura di affrontare” (E3 AD40). Reponsabilita’ era quella passione che ci muoveva tutti all’azione (prima o ultima linea che sia stata) e ci muoveva ad uscire di casa dopo qualche ora di riposo per correre al parco. Non derivava da uno spirito volto al sacrificio ma piuttosto sia dal desiderio di contruibire all’azione collettiva e di non poter lasciare i compagni/amici che dal desiderio di vivere insieme a loro quell’esperienza, dalla quale scaturiva una gioia piu’ potente e pervaisva della paura e del timore. Paura e timore di cosa? Non della morte, ma della violenza. E se mente e corpo sono un solo e medesimo individuo considerato sotto due attributi diversi (E3 P2S), la violenza era fisica e psicologica, con conseguente paura del gas e dei rischi di una folla impaurita in fuga dallo stesso cosi’ come dell’attesa. Se il timore “e’ la cupidita’ di evitare con un male minore un male maggiore del quale abbiamo paura” (E3 AD39)[21] – e la paura “una tristezza incostante nata dalla’idea di una cosa futura o passata, del cui evento in qualche misura dubitiamo” (E3 AD13) – allora prendere consapevolezza delle tattiche attivate da uno stato paternalista ed autoritario e’ un requisito del processo di liberazione.

Se per alcuni non si trattava di un’iniziazione, in molti eravamo alle prime armi. Io, ad esempio, in qualche occasione non me la sono sentita di restare ad aspettare l’attacco, soprattutto se di notte dentro al parco. Come discusso con qualche compagno prima di un forte abbraccio, cio’ non significava lasciare gli altri da soli; capivamo che il timore era uno strumento per dividerci, cosi’ appena arrivati a casa alle ore tarde della notte ci si impegnava subito a diffondere notizie sui media a nostra disposizione (ognuno si era scelto il ruolo che piu’ si adattava al proprio temperamento). In ogni caso non solo personale ma anche collettivo e’ stato il percorso graduale di superamento della soglia della paura e dunque di resistenza. Ripenso al braccio stretto forte della compagna di turno di fronte ai TOMA e anche a come la forza di noi singoli era sostenuta da quel resistere in comune, dalla gioia e dalla sicurezza di chi si adopera a vincere l’odio con l’amore (E4 P46S). Spinoza defini’ la sicurezza come “gioia nata dall’idea di una cosa futura o passata dalla quale e’ stata tolta ogni causa di dubbio” (E3 AD14). La sicurezza, pur sempre relativa, era il risultato di due processi in corso simultanemante. Il primo riguarda la presa di coscienza della possibilita’ di ribellarsi ad un potere paternalista e opprimente. Il secondo riguarda la conoscenza del possibile rischio che, sua volta, era frutto di esperienza diretta (i gas ti soffocano ma dopo un po’ passano) o delle spiegazioni di chi, responsabilmente e con piu’ esperienza, ha provveduto bene ad organizzare workshops informativi su come re-agire sia ad un attacco che ad un eventuale trauma. Convinta della necessita’ di un pensamento contro-strategico, vorrei sottolineare la valenza tattica di questo secondo processo nell’organizzazione generale delle forme di lotta[22]. Per quanto riguarda il timore, invece, vi posso portare la mia testimonianza da straniera che non so fino a che punto possa essere valida da una prospettiva moltitudinaria. Per me il male minore significava soffocare il desiderio di responsabile partecipazione, ma piu’ grande era quello dell’arresto. Non l’arresto in se’ era il motivo del timore, ma l’eventuale ed immediata espulsione che, nel mio caso, sarebbe stata una violenza della mia liberta’ di movimento che, seppur gia’ comunque relativa, e’ uno tra i beni che stimo piu’ nella mia vita[23].

Seppur senza differenziare tra timore e paura, di superamento della soglia della paura accumulata negli anni parla anche Özgür (2013: 6) nel suo articolo, notando come ci si sia man mano organizzati contro gli attacchi, trapassando l’iniziale paura perfino di avere con se’ limoni fino alla resistenza equipaggiata con maschere, elmi ed occhialini ed, inoltre, come in questo processo non si sia mai perso l’entusiasmo e il senso dell’umorismo. Quando Özgür scrive “images of young people dancing on the barricades in heavy tear gas will go down in history as the hallmarks of the Gezi revolts”, io ripenso ad un video di una manifestazione dell’11 luglio al centro di Rio (http://www.youtube.com/watch?v=iKIZRVN6rrg&feature=youtu.be). Ad ogni modo non va omesso che, da un certo punto delle proteste in poi, avere con se’ nella borsa una maschera di qualsiasi tipo significava rischiare di essere portati in custodia dalla polizia se sottoposti ad un controllo in una qualsiasi delle strade in zona taksim. In qeust’eventualita’ non si sarebbe trattato di resistenza alle forze dell’ordine ma di sospettata partecipazione ad attivita’ terroristiche e con cio’ si apre la porta di un importante capitolo di storia della Turchia contemporanea.

Giuseppe e Bruno hanno scritto che “la posizione dell’intellighenzia del PT oscilla tra la criminalizzazione delle manifestazioni come golpiste, di destra e di classe media […] e una vaga simpatia davanti alla mobilitazione popolare, […] ma senza capire e tantomeno accogliere la sua forza costituente, come trasformatrice della maniera di governare”. Anche il governo turco, o meglio Erdogan, ha pensato bene di portare avanti una campagna di criminalizzazione dei manifestanti che pero’, a loro volta, si sono riappropriati con orgoglio ed umorismo dell’appellativo “çapulcular” (vandali, saccheggiatori). Nutrita di creativa ironia, la moltitudine di/da Gezi ha dato prova di come la gioia del comune e’ superiore alla tristezza dell’individualismo, di come nella lotta per la liberazione dalla schiavitu’ della proprieta’ siamo capaci di “continuare a ridere” (Negri, 2010[2009]: 381) e di come, appunto, “con il riso si uccide” (Zarathustra). Rivendicando le loro azioni, i çapulcular di Istanbul/Ankara/Izmir/Adana/Trabzon hanno spezzato la tradizionale normalizzazione della violenza contro ogni minimo sospetto di terrorismo e hanno soprattutto aperto una via concreta e percorribile per una lotta alla stessa definizione vaga di terrorismo che terrorizza chiunque semplicemente voglia reclamare il proprio diritto a manifestare la propria liberta’ d’espressione. Come anche rimarcato da Fikret Ilkiz (2013: 46), in turchia la legge antiterrorismo (n.3713) attualmente in vigore e’ il maggiore ostacolo alla liberta’ di espressione di molti attivisti, giornalisti, intellettuali e scrittori ancora attualmente in prigione e, specialmente, per quanto riguarda la questione curda [24]. Fondate su una strumentalizzazione populista del terrore, le tattiche repressive funzionano a due livelli. Da un lato fanno leva sul timore di chi in strada ci vorrrebbe scendere ma preferiscono evitare un male maggiore all’oppressione come l’incriminazione ed un eventuale arresto di cui hanno paura. Dall’altro lato fanno leva sul bigottismo dei fedeli dello stato che, comodamente seduti a casa a guardare le proteste dalla TV e magari completamente ignari delle dinamiche di lotta di piazza, potrebbero letteralmente aumentarne lo ‘share’, potenzialmente il consenso e dunque la legittimazione sociale[25]. Consapevole della natura moltitudinaria della resistenza, uno stato non sufficientemente agonizzante mette in atto due tattiche, l’una fallace e l’altra purtroppo ancora efficace, come tra l’altro sembrano convalidare le dinamiche repressive recentemente messe in atto in val di Susa in cui agli attivisti si accusa di essere terroristi. Il governo turco, mostrando solo immagini selezionate dalla barricate e differenziando tra marginali ambientalisti e marginali altamente organizzati nel vandalizzare una citta’, ha commesso l’errore di non tener conto del resto dei gruppi ed individui che compongono quella moltitudine che, a sua volta, in risposta a questa sorta di indifferenza di un padre autoritario che ha occhi solo per il figlio modello e quello indisciplinato, si e’ sentita in dovere di continuare a scendere in strada e fargli notare che siamo tutte e tutti dei “çapulcular”. Prodotto della stessa retorica paternalista ma con effetti ben piu’ gravi e’ l’appello al terrore, il cui solo richiamo semina ancora nell’immaginazione di molti immagini di bombe, distruzione e morte. Concordando con Cengiz Candar (2013: 8-90), vorrei far notare che anche in Turchia, come in Brasile, sembra che il governo, o meglio il primo ministro, non abbia capito gli eventi ne’ le radici delle proteste, facendo appello ad un’obsoleta politica di rappresentanza e alle sue pratiche inconcludenti[26] e attribuendo la maggior parte della responsabilita’ a forze anti-governative di matrice nazionalista ed cospirazionalista. Come gia’ accennato in precedenza in merito alle bandiere, e’ vero infatti che molti erano in piazza come ‘figli di Atatürk’ (“padre dei turchi”), ma da cio’ ad affermare e far credere che a tirare i fili delle marionette ci fosse il CHP (Cumhuriyet Halk Partisi, Partito Popolare Repubblicano), il partito kemalista all’opposizione ispirato dalle posizioni di Mustafa Kemal, e’ un vero e proprio insulto a chi l’ha resistenza l’ha vissuta, come a dire che siamo tutti “Giovani Turchi”. Erdogan pensa ed afferma cosi’ perche’ forse legge gli eventi solo alla luce della logica della sua politica di rappresentanza, mentre la moltitudine e’ scesa in strada non per forza coprendosi il volto con una bandiera del partito. Nei 28 minuti di video propaganda dell’AKP (https://www.youtube.com/watch?v=LnUC-11h900) emergono tutti questi elementi, a cui ne va aggiunto uno, quello che Bengi Akbulut e Fikret Adaman (2013) chiamano “feticismo della crescita”, senza il quale non si capirebbero a pieno ne’ la retorica dello stato ne’ le radici urbane della protesta e senza il quale, inoltre, non si coglierebbe l’enorme vantaggio nell’organizzare l’indignazione e l’energia scaturica dall’insurgenza come lotta urbana.

Tra passato e futuro: l’indignazione da organizzare qui ed altrove

“Her Yer Taksim, Yer Her Direnis!”

(“Ovunque e’ Taksim, ovunque resistenza!”)

 (Slogan delle proteste)

Nel tragicomico video propaganda dell’AKP emerge chiaramente la retorica ed autoreferenzialita’ di uno stato paternalista che elargisce quantita’ enormi di denaro per trasformare Istanbul e la Turchia in un gran cantiere a cielo aperto. Tale logica di uno sfrenato sviluppo va sicuramente letta alla luce delle teorie generali del capitale che, come analizzato minuziosamente da David Harvey (2012), per portare a compimento la sua natura fagocitaria, si serve anche dello spazio urbano come strumento d’espansione illimitata. Tale processo di sviluppo, pero’, non puo’ essere analizzato a prescindere dalla condizioni contestuali di produzione, ovvero l’eredita’ di un processo di modernizzazione/occidentalizzazione che, iniziato negli ultimi decenni di vita dell’impero ottomano e formalizzato con la fondazione della Repubblica (1923), puo’ essere considerato  una vera e propria “ossessione della crescita economica” (Bengi Akbulut e Fikret Adaman, 2013: 14), nonche’ specchietto per le allodole per una classe media di relativamente recente formazione. Come sottolineano Akbulut e Adaman lo stato turco ha storicamente raggiunto potere e legittimazione principalmente attraverso la promessa di realizzazione dell’ideale di modernizzazione come interesse collettivo. Nonostante cio’ abbia in realta’ prodotto una marcata frammentazione, l’ideale dello sviluppo economico continua a funzionare come collante sociale e a garantire voti al partito appunto “della giustizia e dello sviluppo”.

Ne e’ un esempio il processo di ‘city branding’ per cui Istanbul, ad esempio, e’ stata recentemente trasformata in destinazione turistica di fastidioso successo. Fastidioso soprattutto per i manifestanti, non solo  perche’ costretti a vedersi frotte di turisti impazienti di far compere su Istiklal caddesi anche nel pieno delle proteste ma soprattutto perche’ gli abitanti di Beyoglu (il distretto che comprende anche la zona di taksim) sono consapevoli di dover lasciare presto il posto a quegli stessi turisti. Tra gli obiettivi del governo nel portare avanti il processo di sviluppo urbano della zona non c’e’ forse anche una Beyoglu ripulita da manifestazioni politiche che, di piccole o grandi dimensioni, caratterizzano quotidianamente Istiklal Caddesi? E cosi’ si apre una serie di domande: da dove nascono le proteste di Gezi? Inoltre, se le proteste di Gezi sono state la scintilla, cosa l’ha fatta scoppiare dando luogo alle proteste di massa? Se le proteste iniziali di Gezi erano organizzate ma l’esito molto piu’ al di la’ delle attese, come organizzare invece la moltitudine che si e’ formata a partire da Gezi in vista di prossime mobilitazioni? Una rassegna cronologica degli eventi ci puo’ aiutare a risponderle.

Parte del progetto di rinnovamento della zona di Taksim include la pedestrizzazione di piazza taksim in accordo non solo a interessi economici ma anche politici del governo, connessi al significato storico-politico che lega piazza taksim alla memoria collettiva della Turchia. La piazza e’ tradizionalmente luogo di concentramento per la maggior parte delle proteste politiche e, purtroppo, e’ stato anche scenario di episodi sanguinosi tra i quali spicca il 1 Maggio 1977, quando persero la vita piu’ di 30 manifestanti per mano di colpevoli mai identificati. Premesso che gli anni 70, anche in Turchia, erano dominati da un clima politico di estrema violenza e radicalismo, stando ai resoconti, dopo che si udirono copli d’arma da fuoco, le forze di sicurezza intervenirono nella piazza con i blindati e la maggior parte delle vittime fu dovuta al panico creatosi nella folla. Domenica 9 giugno sono stati organizzati dei concerti, la piazza era stracolma e in molti, se non tutti, abbiamo sicuramente pensato che lo scenario ricordava pienamente quello delle foto di quel 1 maggio del 77. Mobilitazioni di massa per il 1 maggio in piazza taksim sono state per la prima volta ripermesse ufficialmente solo nel 2010, cosicche’ nella memoria collettiva degli attivisti locali il 1 maggio e’ associato gia’ da tempo con l’odore acre dei gas lacrimogeni. Cosa lega piazza taksim, il 1 maggio e le proteste di gezi?

Dal 2010 al 2012 le manifestazioni in piazza per il primo maggio si sono svolte pacificamente; quest’anno, invece, iniziati gia’ i lavori di ristrutturazione, l’accesso alla piazza e’ stato negato con conseguente ritorno al tradizionale gas per sfollare i cortei dei manifestanti intenzionati a raggiungerla. Secondo i piani strategici del governo, ripulire Taksim avrebbe significato eliminare le proteste, senza che nessuno potesse prevedere che invece ne avrebbe fatta scoppiare una molto piu’ vasta ed articolata. Quest’ultima, pero’, non puo’ essere compresa appieno se l’analisi non comincia almeno a partire dal 7 aprile scorso, quando ad una delle proteste contro la demolizione dell’Emek, un cinema storico su Istiklal caddesi, i manifestanti sono stati violentemente attaccati dalla polizia e lo scenario creatosi era solo un assaggio degli eventi che sarebbero seguiti. Dal primo maggio in poi, infatti, ogni tentativo di radunarsi e manifestare nella zona e’ stato represso dalla polizia, alimentando al contrario un’indignazione diffusa che sarebbe stata proprio la causa dello scoppio della scintilla di Gezi.

Il progetto per la demolizione del parco avrebbe previsto la ricostruzione di precedenti baracche militari (demolite nel 1940) da utilizzare come centro commerciale. Nella notte tra il 27 e il 28 maggio sono iniziati i lavori e anche le proteste di quello che, all’inizio, era davvero un gruppo numericamente limitato di attivisti accorsi al parco. Ad un primo attacco della polizia (27 maggio) si sono seguiti i due  ormai ben noti attacchi notturni: un primo in cui sono state bruciate le tende degli occupanti (tra 29 e 30 maggio) e un secondo (tra 30 maggio e 1 giugno) con conseguente chiusura del parco che ha portato a due giorni di scontri. Scontri terminatisi pero’ col successo di migliaia di manifestanti che, sabato 1 giugno, sono riusciti a prevalere sulle forze di polizia, costrette ad aprire all’impetuosita’ di una moltitudine ribelle e determinata[27]. Due le domande importanti a questo punto: chi c’era a gezi tra gli attivisti dell’inizio e perche’? Quando e perche’ le proteste sono diventate di massa?

Alla ventina di attivisti (i famosi ambientalisti) che erano al parco la prima notte, la mattina del 28 si sono aggiunti rappresentanti della piattaforma taksim solidarity, inclusi rappresentanti della camera degli architetti e membri del consiglio di pianificazione urbanistica, parlamentari come Sırrı Süreyya Önder (in prima fila a bloccare i bulldozer) e altri cittadini di Istanbul accorsi per proteggere il parco e per la lotta che quel parco simboleggiava. Al parco c’erano anche i Mustereklerimiz (‘our commons’), compagine che da un anno a questa parte lega le realta’ antagoniste organizzatesi attorno al desiderio di lotta anticapitalista (http://mustereklerimiz.orgs). I mustereklerimiz – che non si definiscono ancora un movimento – si erano dati il primo maggio come primo appuntamento per sfilare insieme “ufficialmente”. Nei tre mesi precedenti avevano organizzato una serie di incontri nella forma di conferenze aperte ed assembleari su temi come universita’, pratiche di lotta e autogestione, economie alternative e diritto alla citta’[28]. E il diritto alla citta’ e’ un elemento chiave per poter interpretare gli eventi.

Il 4 giugno, in un eccellente articolo pubblicato sull’Internazionale[29], il collettivo Wu Ming fa notare che i media occidentali simpatizzano ed esprimono solidarieta’ con i manifestanti nonostante le vetrine spaccate e i sanpietrini, perche’ le proteste per il parco gezi non solo una battaglia ecologista per la conservazione di un parco e del significato storico-simbolico che taksim rappresenta, ma sono un pretesto per una piu’ vasta e profonda battaglia per la democrazia e quindi, nello specifico, contro il regime di erdogan. Dall’acuta analisi dei Wu Ming emerge la confusione che invece, inconsapevole o meno, ha dominato l’interpretazione generale degli eventi che si sono succeduti a partire da Gezi. Procediamo con ordine: cosa ha spinto la folla ad accorrere in massa al parco?

Dal 28 al 31 maggio e’ man mano venuto al parco ad occuparlo chi si sentiva in dovere di proteggerlo ma non solo al fine di semplicemente conservare uno spazio verde che – diciamola tutta –  erano in pochi ad utilizzare prima delle proteste; siamo/sono andati piuttosto per la logica autoritaria e verticista a cui risponde il progetto di demolizione di quel parco[30]. Il 31 maggio la corte amministrativa di Istanbul sospende ufficialmente il progetto per la ricostruzione delle  ex-baracche militari. Nel frattempo i media nazionali continuavano a non dare spazio a gezi ma le notizie si stavano diffondendo via social media fino a quando, il 31 maggio, e’ scoppiata la scintilla. Concordo con l’interpretazione di Ozgur: la folla e’ accorsa col diffondersi delle notizie sull’uso sproporzionato di violenza da parte delle polizia e aggiugerei che quella violenza e’ alla radice dell’indignazione che ha poi alimentato l’incendio. Spinoza non sa dare un nome alla gioia che nasce dal bene di un altro ma chiama indignazione “l’odio verso colui che ha fatto del male ad un altro” (E3 P22S e E3 AD20). Slogan tradizionali in Turchia, “faşizme karşı omuz omuza!” (“Spalla a spalla contro il fascismo!”) e “kurtuluş yok tek başına,
ya hep beraber,
ya hiçbirimiz!” (“Non c’e’ liberazione da soli, o tutti insieme o nessuno!”) hanno infatti unito gli animi della moltitudine in strada. Se l’indignazione e’ stata la scintilla, e’ sufficiente per caratterizzare una moltitudine ribelle come un ‘movimento di indignati?’

La sera del 31 maggio ci trovavamo su Istiklal caddesi quando, in mezzo alla folla che si stava ingrossando come un fiume in piena ed urlava “hükümet istifa!” (dimissioni del governo!”), ho capito e, rivolgendomi al mi compagno di turno, ho detto “e’ successo!”. Immagini come quelle di Placa del Sol e Tahrir erano ancora vive nella mente di ognuno di noi e sono certa che in molti hanno preso parte alle proteste semplicemente perche’ mossi dal desiderio di partecipare a qualcosa che avrebbe cambiato la storia del paese (e non solo), senza con cio’ nulla togliere alla valenza del processo di soggettivazione politica che un’eventuale motivazione di questo tipo possa aver scaturito. Per due settimane consecutive quella moltitudine era accomunata da un obiettivo: resistere agli attacchi della polizia e, ad Istanbul, proteggere anche la zona liberata e difesa dalle barricate. Basta questo per poter dire che la moltidudine era diventata un movimento? Un altro slogan “her yer Takism, her yer direniş!” (“ovunque e’ Taksim, ovunque resistenza!”) ci deve far riflettere. Usato per il primo maggio perche’, anche se non c’era modo di sfondare i blocchi della polizia affinche’ i cortei marciassero verso taksim, resistere in qualsiasi parte della citta’ era come resistere a Taksim e, soprattuttto, perche’ per molti di noi la resistenza non si ferma(va) al significato storico-politico di piazza Taksim ma (anda)va oltre l’obiettivo specifico della conservazione del parco Gezi o della preservazione di piazza Taksim. Piazza Taksim – luogo simbolo della tradizione repubblicana – insieme al parco Gezi ha fatto si’ che gruppi in discordia tra loro si siano ritrovati in strada a lottare fianco a fianco. L’indignazione univa le forze di un’ampia opposizion kemalista (CHP, TGB), di una sinistra partitica radicale di vecchio stampo nonche’ il partito curdo della pace e democrazia (BDP, Barış ve Demokrasi Partisi). Se per movimento intendiamo una formazione relativamente strutturata di individui, gruppi ed organizzazioni che si mobilita a partire da un fine conflittuale condiviso, fino a che punto possiamo dire che la moltitudine formatasi con lo scoppio della scinitilla di Gezi sia un movimento? Il movimento per la preservazione del parco non esaurisce, infatti, le varie istanze di lotta che hanno infuocato gli animi. Considero quello di Gezi/Taksim un movimento che ha inaugurato un processo di soggettivazione politica rivoluzionario ma che non si e’ davvero cristallizato attorno ad un programma politico ben definito e condiviso che vada oltre le richieste generali dei manifestanti. Tali richieste, come formulate nei punti che la piattaforma ‘Taksim Solidarity’, erano riassunte dai seguenti 5 punti: conservazione del parco, dimissioni dei responsabili per l’escalation della violenza, l’interruzione all’uso di lacrimogeni, rilascio dei detenuti e diritto di dimostrare liberamente.  Io mi limiterei, dunque, a prendere quello di Gezi come un movimento nel senso letterale del termine, come spinta di un corpo collettivo che, per muoversi, ha bisogno di una moltitudine di corpi che gli trasmettano il movimento (v. E2 L3).

Celebrare la lotta per la democrazia come obiettivo condiviso non basta pero’, a mio avviso, ad identificare un movimento e, soprattutto, a fare chiarezza su quali erano le effettive richieste di ogni gruppo, se non si specifica a quale ideale di democrazia i singoli gruppi nella moltitudine fanno riferimento. Quella che, in base a pregiudizi orientalisti e relative paure, e’ stata appiattita dai media internazionali come lotta per la conservazione del laicismo e’ stata piuttosto un’insurgenza moltitudinaria contro l’autoritarismo paternalista di uno stato che pensa ancora di tenere a bada i propri cittadini semplicemente costruendogli opere grandi, costose e percio’ anche moderne, perfettamente in linea con la tradizione storica del paese. Fin dagli ultimi decenni dell’impero ottomano, passando per il secolo repubblicano e approdando nelle mani dell’AKP, la modernizzazione in Turchia e’ sempre stato un processo autoritario, imposto dall’alto.

Se pensiamo al binomio patriottismo/paternalismo come alla relazione che intercorre tra l’immagine della madre patria e quella del padre padrone, possiamo dire che, anche se le recenti rivolte non sono possono essere lette ancora come un matricidio, di sicuro si e’ trattato di un tentato patricidio. “Şerefine Tayyip!” (“alla tua, Tayyip!”) era un altro slogan popolare, ma non significa che la folla e’ scesa in strada per il tanto temuto rischio di islamizzazione radicale. Il recente controverso divieto di consumare alcolici vicino alle scuole e alle moschee non e’, a mio avviso, un sintomo di islamizzazione imminente. Non solo richiama alla mente norme in vigore da tempo negli Stati Uniti, ma rientra, piuttosto, nella stessa logica che vorrebbe ripulire il centro di Istanbul e renderlo un’area sicura per l’intrattenimento della classe media e dei turisti, tanto che, infatti, il divieto farebbe eccezione per gli enti in possesso di certificati turistici[31]. Vorrei tornare all’analisi dei Wu Ming che hanno scritto:

“Occupy Gezi […] non è soltanto una battaglia ecologista, ma non è nemmeno una battaglia simbolica. Piuttosto, è l’ennesima dimostrazione di quanto siano sentite, oggi, in tutto il mondo, le lotte per quello che Henri Lefebvre ha definito il diritto alla città, ovvero il diritto a “cambiare noi stessi cambiando l’aspetto delle nostre metropoli”. Il diritto a partecipare ai processi di urbanizzazione e a non farsi strappare dagli speculatori il valore di un quartiere, di una piazza, di un parco. Quel valore, infatti, è il risultato di un lavoro collettivo, delle attività e delle relazioni sociali prodotte da chi vive un determinato spazio”

Il ‘diritto alla citta’’ e’ sicuramente un elemento determinante senza il quale non si possono comprendere ne’ i processi di soggettivazione politica ne’ le azioni di quelli di noi che si sono mobilitati fin dall’inizio. Il diritto alla citta’ – in questo caso il diritto al parco – fa necessariamente riferimento allo spazio urbano non solo come teatro del conflitto ed oggetto conteso ma come strumento per la promozione di relazioni sociali alternative. La riappropriazione di spazio urbano, inoltre, non e’ pensata ed attuata come fine a se stessa ma come strumento per la rivendicazione e la riappropriazione di un diritto alla differenza, inteso come diritto a decidere come voler vivere la propria vita. In questo senso allora, nonostante le istanze particolari e diverse, la moltitudine ribelle che ha appiccato l’incendio di gezi Park, piazza taksim, besiktas e Gezi Mahallesi ad Istanbul, Kugulu Park e Kizilay ad Ankara, Izmir, Trabzon ed Adana e’ una moltitudine urbana. Se a ribellarsi in Turchia non sono stati i poveri ma vari segmenti del tessuto sociale e, in generale, i cittadini di Istanbul e di altre citta’ proprio in quanto cittadini, allora il diritto alla citta’ potrebbe essere un potente strumento per stabilire un nuovo concetto di cittadinanza che oltrepassi i confini stabiliti dall’appartenenza nazionale (Isin, 2012). Si trattava dunque di una lotta per la democrazia come hanno ribadito i Wu Ming:

“Ecco allora che la difesa di una piazza, di un parco, di una valle alpina non è mai soltanto locale o soltanto simbolica. Chiedendo di poter esercitare il proprio diritto al paesaggio, i manifestanti stanno già combattendo per la democrazia. Per quella democrazia che ormai è diventata incompatibile con il capitalismo e le sue inevitabili conseguenze: l’urbanizzazione selvaggia, la speculazione edilizia e il land grabbing. Non deve sorprendere, allora, se la protesta del parco Gezi si è diffusa in tutta la Turchia, mettendo insieme anarchici, socialisti, sindacati, curdi e turchi, movimenti lgbt, ultrà di opposte tifoserie e persone finora rimaste lontane dalla politica”.

Cio’ non toglie, pero’, che l’ideale di democrazia non assume un significato univoco e condiviso dai gruppi ed individui che compongono la moltitudine e, soprattutto, che per molti ancora non coincide ancora con un processo decisionale, costituente e governativo che parte dal basso. Ed e’ per questo motivo che l’indignazione va organizzata intorno ad un progetto strategico, dal quale possa nascere un movimento che sia urbano e rivoluzionario.

Una lotta per piazza taksim richiama alla memoria un significato simbolico si’ importante ma che acquista legittimazione dal passato (facendo tra l’altro eco alle strategie politiche dell’AKP e di Erdogan). Iniziata con una mobilitazione urbana, la lotta per Gezi ha invece aperto lo scenario a processi decisionali nuovi, basati sul consenso nonostante le grandi dimensioni. Per non soffocare l’immensa quantita’ di energia/potenza generata da Gezi, non possiamo rischiare di rimanere intrappolati nel presente e nelle forme di rappresentanza che ancora dominano e che rischiano di offuscare lo sguardo al futuro. Se gli incontri fortuiti (Negri, 2010 [2009]) sono da organizzare, non da meno sono i non-scontri. Se una lotta dal carattere urbano ha permesso la coesione di soggetti politici distanti e di superare, almeno spazio-temporalmente, profonde divisioni socio-culturali ed etniche, allora ritengo che la l’indignazione e le pratiche di lotta non possano non essere organizzate che come urbane. Nello specifico contesto della Turchia, questo faciliterebbe anche il dialogo da instaurare con soggettivita’ politiche come ad esempio i ‘Musulmani Rivoluzionari’ e i ‘Musulmani Anticapitalisti’, promotori di una delle azioni piu’ riuscite. Il 10 luglio e’ iniziato il ramadan e, per chi non lo sapesse, l’iftar e’ il pasto che rompe il digiuno. Due gli iftar organizati quella sera nella zona di Beyoglu: uno proprio in piazza taksim sgomberata ormai da settimane e l’altro su istiklal caddesi. Il primo era stato organizzato dalla municipalita’ locale e l’altro dai mussulmani anticapitalisti, supportato dagli attivisti di gezi e ovviamente guardato a vista da un onnipresente TOMA. Quell’azione ha dato inizio ad una serie di iftar simili in diverse zone della citta’ e, soprattutto, ha mostrato la fallacia delle autorita’ nel tentare di spostare il livello di scontro su un piano culturale anziche’ urbano.

Propongo queste mie considerazioni a maggior ragione alla luce degli eventi in Brasile che, connettendo rapidamente rivendicazioni territoriali separate solo da un oceano, ci hanno mostrato come una lotta urbana per istanze locali possa facilmente fungere da modello per una lotta transnazionale al dominio neoliberista, avvalorando cosi’ il nostro “her yer taksim, her yer direnis!”.  La profonda tristezza per lo sgombero del parco era dovuta alla perdita di un luogo che ci ha permesso di essere affetti da una piu’ profonda gioia. A tale gioia il governo ha risposto con la logica degli ultimatum, alla quale, come scritto dalla compagna J. in una nota del 18 giugno, noi, quelli della comune di Gezi, non potevamo e non volevamo rispondere perche’ quello che avevamo attivato nel parco era un “dibattito vivente” e un processo strutturale che necessita tempo per discutere e prendere decisioni ma che puo’ essere attuato in ogni spazio. Gezi ha ormai acquisito un significato simbolico che ci sprona a dislocare la lotta in altri luoghi e ad attivare altre forme di protesta ed autogestione. Un utopico confederalismo organizzato intorno ad assemblee comunitarie (Bookchin and Biehl, 1998) potrebbe essere un obiettivo auspicabile, amio avviso e’ potrebbe anche essere realizzabile, ma solo se a dirlo sara’ la strada.

Aperture finali

“Taksim Bizim İstanbul Bizim!”

( “Taksim e’ nostra, Istanbul e’ nostra”)

(Slogan delle proteste)

“We’ve come so far, it feels so real […]

Come so far, there’s no going back […]

We’ll organise a sort of revolution”

Fink, Sort of Revolution

Se Gezi e’ stato solo l’inizio e la lotta continua e’ presto per azzardare conclusioni ma, stando alle valutazioni preliminari, sembra che i tempi per un gran finale in musica siano maturi. Posso solo concludere col mio slogan preferito, “Isyan, devrim, özgürlük!” (“Ribellione, rivoluzione, liberta’!”) che pero’ da solo perderebbe di significato: la sua realizzazione non puo’ avvenire senza passare per quella riappropriazione di spazio-tempo che reclamiamo quando continuiamo ad urlare all’unisono “Taksim bizim, Istanbul bizim!” (Taksim e’ nostra, Istanbul e’ nostra!). Il processo di appropriazione di Gezi come bene comune e la stessa comune di Gezi contenevano la chiave di svolta: quelle relazioni extraordinarie d’amore che, se da extraordinarie diventassero ordinarie, darebbero vita non solo ad una situazione rivoluzionaria ma ad una rivoluzione. Vorrei concludere con una domanda, parafrasando quella posta da Sandro Mezzadra in una delle discussioni via email: il comune si costruisce per forza occupando? Occupare come pratica di riappropriazione urbana e’ certamente un atto costitutivo e dunque istituzionalizzante della relazione sociale del comune. cio’ non toglie pero’ la valenza della produzione di contro-spazi (penso alla nostra ‘mutfak’, cucina) come spazi liminali di importanza estrema nel facilitare un processo di transizione da una “situazione rivoluzionaria” ad una rivoluzione[32].

Moira Bernardoni

 


[1] Spesso ometto ‘parco’ gezi o ‘le proteste’ di gezi perche’ sono ormai abituata che tra amici e compagni di gezi basta dire ‘gezi’ che, senza bisogno di ulteriori categorie, e’ diventato – almeno per noi – soggetto o oggetto (politico) a seconda del caso.

[2] Ad es. la catena umana in piazza che potete rivedere al min 16:53 del video documentario che vi avevo precedentemente inviato: passioni forti! http://vimeo.com/71704435

[3] Discutero di chi siamo piu’ avanti

[4] http://www.youtube.com/watch?v=Fp3E6aXn-qs

[5] In molti l’hanno definita cosi’ ma io mi riferisco ad uno dei primi comunicati del nostro gruppo, i Mustereklerimiz (‘Our Commons’) http://mustereklerimiz.org/da-oggi-nessuno-di-noi-sara-piu-lo-stesso/

[6] KESK (Kamu Emekçileri Sendikaları Konfederasyonu), Confederazione dei Sindacati dei Lavoratori Pubblici. DİSK (ürkiye Devrimci İşçi Sendikaları Konfederasyonu), Confederazione dei Sindacati Rivoluzionari della Turchia

[7] Crudele e’ stata la repressione della mobilitazione del 31 luglio, in cui la famiglia di Berkin, 14enne colpito alla testa da un candelotto di lacrimogeno e in coma da meta’ giugno. La sua famiglia avrebbe voluto semplicemente rilasciare una dichiarazione alla stampa ma la polizia antisommossa ha risposto col solito trattamento alla folla ritrovatasi a piazza Taksim. Tra l’altro va ricordato che Berkin non era un manifestante (aka un terrorista) ma un passante colpito durante un azione della polizia nel suo quartiere Okmeydani.

[8] Il suo articolo qui http://www.lostraniero.net/archivio-2013/156-agostosettembre-2013-n-158159/823-turchia-un-punto-di-non-ritorno.html

[9] http://www.tr.boell.org/downloads/perspectives_5_toplu_eng.pdf

[10] http://www.youtube.com/watch?v=JQcmaNaxJZM

[12] In merito di bandiere, ad esempio, i Müştereklerimiz (‘Our Commons’), fin dalla loro uscita “ufficiale” in strada il primo maggio, hanno deciso di non adottare nessun simbolo ma di usare bandiere ognuna di un diverso colore: verde, nero, rosso, viola e rosa.

[13] http://vimeo.com/71704435

[14] qui uso intenzionalmente ‘popolo’ e non moltitudine

[15] Durante i duri attacchi e conseguenti scorntri del 31 maggio, uno dei maggiori canali tv di informazione turche trasmise un documentario sui pinguini anziche’ la diretta dalla zona di Taksim (venerdi’ 31 eravamo in strada che il parco era barricato dalla polizia). Da allora il pinguino è diventato un simbolo della rivolta.

[16] Alcune universita’ in Turchia sono gia’ presidiate da forze di sicurezza armate e sembra che da settembre verranno rafforzate se non affiancate da forze di polizia. Nel frattempo, la KYK, l’istituzione per i prestiti universitari e i dormitory, ha recentemento dichiarato che non saranno elargiti prestiti a studenti che partecipino ad attivita’ di resistenza e boicottaggio, cantino slogan o siano coinvolti in altre attivita’ simili nell’universita’ o nei dormitori. Secondo una logica capitalista, paternalista e distorta per cui l’educazione e il prestito non sono un diritto ma premi alla condotta, come si legge in articolo in inglese comparso su Hurriyet Daily News del 31 luglio, questi “events of anarchy and terrorism” addirittura violerebbero il diritto all’educazione! Tra essi sarebbero da annoverare: “resistance, boycott, occupation, writing, painting, slogan-chanting, et cetera, whether attempted partially or fully” e vanno classificati come “as ineligible alongside those who carry any sort of firearm or sharp device”. http://www.hurriyetdailynews.com/no-loans-for-students-who-engage-in-protests-chant-slogans-loan-board.aspx?pageID=238&nid=51732

[17] La maggiore attenzione su Istanbul piuttosto che su altre citta’ non puo’ non farci riflettere sui motivi di una tale disequilibrio. Perche’  Istanbul – come commentato da un amico  – e’ percepita come “corpo d’Europa”? quanto questa percezione si basa su considerazioni geo-politiche e quanto ancora su pregiudizi che sono anche culturali? Senza entrare in merito di questioni come quella dell’eredita’ di un pensamento orientalista/occidentalista, mi chiederei invece (come ci siamo chiesti con altri compagni di lotta) come suscitare empatia, un’empatia che purtoppo e quasi necessariamente resta legata alle distanze, non solo geografiche ma anche culturali appunto.

[18] Tarlabasi e’ un quartiere del distretto di Beyoglu, il centro culturale, commerciale e turistico di Istanbul. Stando alle categorie in voga, Tarlabasi potrebbe essere definito come un quartiere mutliculturale piuttosto che interculturale: popolato da una larga maggiornaza di migranti Kurdi e dale province del sud-est della Turchia, da migranti dall’Africa e dai paesi confinanti cosi’ come da un numero sempre maggiore di giovani, attratti dall’atmosfera culturale non meno che dal mercato della frutta della domenica. Capire se la presenza di studenti, artisti e giovani professionisti, sia turchi che stranieri come me, sia il risultato di residui di attitudini orientaliste o meno non annullare non invaliderebbe le ferree leggi dei processi transnazionali di gentrificazione ne’ arresterebbe il proliferare di guest-houses e hotel-residences.

[19] Il link al video e’ il seguente: http://www.youtube.com/watch?v=VQ1UKAyVqZI Vi prego anche di notare che lo slogan alla fine del video e’ appunto “questo e’ solo l’inizio, la lotta continua!”.

[20]  “L’ira e’ la cupidita’ dalla quale siamo incitati, per odio, a fare del male a colui che odiamo” (E3 AD36)

[21] anche se mi chiedo se restare sottomessi ad uno stato di oppressione sia il male minore o maggiore

[22] Penso non solo ai bottiglioni di plastica menzionati da Giuseppe e Bruno ma anche, ad esempio, alla mancanza di expertise (competenza) di molti civili che avrebbero – magari – potuto salvarsi nel recente e crudele attacco al gas nervino avvenuto in siria come anche osservato dal dottore intervistato in questo video http://www.youtube.com/watch?v=RoCT81NcDnc

[23] Parentesi esterofila: un breve pensiero di riconoscimento a quei nostri amici, camerunensi e nigeriani, che, pur supportando la causa, si sono ovviamente limitati ad unirsi brevemente a noi al parco nei momenti di tranquillita’, evitando opportunamente le situazioni di pericolo.

[24] Il primo articolo definisce: “Terrorism in any kind of act constituting a crime done by one or more persons belonging to an organization with the aim of changing the characteristics of the Republic as specified in the Constitution, its political, legal, social, secular or economic system, damaging the indivisible unity fo the State with its territory and nation, endangering the existence of the Turkey State and Republic, weaking or destroying or seizing the authority of the State, eliminating fundamental rights and freedoms, or damaging the internal and external security of the State, public order or general health by means of pressure, force and violence, terror, intimidation, oppression or threat”.

[25] Ricordo di discussioni al parco pochi giorni prima dello sgombero del 15, in merito alla convenienza di tirar giu’ almeno qualche barricata perche’ si discuteva se la sicurezza ci venisse anche dalle stesse e non solo dalla legittimazione di piazza

[26]“If you have a problem you can choose your representatives and convey them to my mayor, my governor or myself. But if you continue like this, I will be obliged to speak in a language that you understand. We will respond accordingly”, Hurriyet Daily News, 9 giungo 2013, http://www.hurriyetdailynews.com/patience-has-its-limits-turkish-pm-erdogan-tells-taksim-gezi-park-demonstrators.aspx?pageID=238&nid=48516

[27] Link ad un recente documentario sulle proteste. http://www.youtube.com/watch?v=ObTndpWjhgg

[28] Tra i prodotti dei Mustereklerimiz ci sono gezi radyo ed hemzemin. Gezi radyo ha iniziato  a trasmettere dal parco e ha continuato a farlo fino al 15 giugno. Gezi radyo continua ora con una programmazione meno assidua. I podcasts delle notizie in inglese qui https://soundcloud.com/gezi-radyo.

Hemzemin e’ una sorta di fanzine che si propone il coordinamento mediatico tra i forum. Sia cartacea che online (http://hemzeminposta.org) contiene aggiornamenti, comunicai ed editoriali. Fra gli argomenti trattati:

– la rete di avvocati a disposizione e sostegno di chiunque abbia subito violenza, iniziative a sostegno dei negozianti del centro che sono schierati in supporto di gezi e in risposta alla propaganda del governo che ha tentato di istigarli contro i manifestanti facendo leva sul tema delle perdite economiche.

– discussione del boicottaggio come forma di protesta e formazione di un gruppo di lavoro che elabori forme di economia alternativa

– lotta alla gentrification: gezi park come parte del progetto che mira a trasformare tarlabasi in un quartiere ripulito dai poveri ed emarginati, in un’area sicura per il consumo ed intrattenimento della classe media

– workshops sui diritti sociali: discussione basata sule risposte ad un sondaggio relativo all’assistenza sociale.

– sciopero degli operai di kazova (tessile)

– condizione delle donne e problematiche LGBT, in particolare dopo l’ennessimo assassinio di una donna trans

– proieizione di documentari

– problematiche ambientaliste, terzo ponte

[29] http://www.internazionale.it/opinioni/wu-ming/2013/06/04/occupy-landscape/

[30] In data 13 aprile al parco era stata organizzata una giornata di festival in cui attivisti, abitanti del quartiere ed altri accorsi si sono ritrovati a manifestare in supporto della conservazione del parco. Fu un evento di successo, soprattutto perche’ ricordo benissimo la positiva impressione che chiunque di noi vi aveva preso parte raccontava ai propri amici. Si trattava infatti dei primi sprazzi di quella gioia che avrebbe alimentato il festival che l’occupazione del parco avrebbe poi generato.

[31] Idem per le polemiche e proteste dell’anno scorso in merito alla proposta di modifica della legge sull’aborto che miravano invece piu’ che altro a distogliere l’attenzione dalla questioni piu’ importanti nel sud-est del paese. Basti pensare, ad esempio, che in Turchia la pillola del giorno dopo puo’ essere acquistata in farmacia senza alcun bisogno di prescrizione medica.

[32] Penso ad esempio all’esperienza del comune che stanno vivendo I bambini della nostra mutfak.

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