di Maria Rosaria MARELLA*.

SOMMARIO: 1. La funzione sociale della proprietà e la questione della tenuta del progetto costituzionale. – 2. I diritti fondamentali fra strategie neoliberali e slanci trasformativi. – 3. La funzione sociale quale connotato della proprietà nel social. –4. La funzione sociale delle proprietà nel contesto neoliberale. – 5. What’s next? (Funzione sociale e beni comuni).

1. Molti sono i segnali – l’affermazione del discorso sui beni comuni, in primo luogo – dell’esigenza crescente di tornare a discutere in maniera esplicita della funzione sociale della proprietà. Ma riaprire quel dibattito oggi significa anche verificare la tenuta del progetto costituzionale complessivo nel mutato scenario sovranazionale e globale. E, su questo fronte, le opinioni si attestano su posizioni irriducibili le une alle altre: la costituzione italiana è considerata ora portatrice di valori e obiettivi ancora tutti da realizzare1, ora, all’opposto, tramontata col declino del Welfare State.

Da una parte, il principio della funzione sociale della proprietà è giocato da qualcuno2 come cartina di tornasole di una contrapposizione, talora ideologica, fra le costituzioni democratiche del secondo dopoguerra e l’attuale quadro costituzionale europeo3. Il tramonto della funzione sociale, che sarebbe impresso nel Dna delle norme che la Cedu e la Carta di Nizza dedicano alla proprietà privata, rappresenterebbe infatti un tradimento degli obiettivi di giustizia sociale propri delle costituzioni nazionali in nome dell’orientamento neoliberale delle attuali politiche europee, che reclamerebbe una nuova messa a punto della centralità della proprietà nel sistema Ue.

Dall’altra, è l’intero disegno costituzionale ad essere a sua volta considerato inattuale e superato sul piano storico, economico e poli- tico. Su questo diverso versante, la costituzione lavorista del 1948 è per contro letta come l’esito di un compromesso fra capitale e lavoro, e di una conseguente operazione di ‘costituzionalizzazione’ della lotta di classe, irrimediabilmente legati a una fase del capitalismo, quello industriale della c.d. produzione di massa, troppo distante dalla fase attuale per pretendere di dar fondamento al diritto e alla società contemporanei. Contrattazione collettiva e diritto di sciopero, gli strumenti attraverso cui la costituzione del ’48 interpreta le figure soggettive di capitale e lavoro mirando a convogliare la spinta trasformativa di cui è portatore  il movimento operaio nell’organizzazione delle strutture costituzionali della repubblica democratica, già a partire dagli anni Settanta del Novecento esauriscono la loro funzione per la drastica ridefinizione cui vanno incontro le stesse soggettività di capitale e lavoro4. Peraltro, secondo questa lettura, le politiche neoliberali non si pongono realmente come modello alternativo, per così dire esterno, rispetto alle costituzioni lavoriste del secondo dopoguerra, ma operano al loro interno modificandole sia sul piano formale (v. l’introduzione della regola aurea del pareggio di bilancio), sia sul piano materiale, attraverso una radicale ridefinizione della relazione pubblico/privato che passa per la patrimonializzazione della sovranità e l’invenzione dello ‘Stato regolatore’, assecondando un progetto di decostituzionalizzazione di portata globale che si manifesta attraverso il frammentarsi dell’ordine giuridico, il moltiplicarsi incontrollato delle fonti, nazionali e sovranazionali, e il riassemblaggio delle stesse in sistemi pluralisti in cui la carta costituzionale perde inevitabilmente di centralità.

In questo, il diritto di proprietà della costituzione è investito in pieno dalla tensione fra modello dello Stato sociale e progetti neoliberali. Poiché lo statuto dei beni che essa racchiude in alcune norme – l’art. 9 che tutela il paesaggio fuori dal paradigma dominicale, l’art. 43 che prefigura la titolarità di imprese di interesse nazionale in capo a comunità di lavoratori e utenti5 – tutt’oggi capaci di sviluppi ‘sovversivi’ dell’ordine vigente, convive con modelli di gestione delle risorse irrimediabilmente legati alla fase del social6 e alle strutture dello stato sociale del dopoguerra (v. art. 44 Cost.), oppure con norme – tipicamente l’art. 42 Cost. e il principio della funzione sociale – che sopravvivono al tramonto del Welfare State colorandosi di sfumature più propriamente liberali o neoliberali. L’attualità del principio della funzione sociale è dunque questione aperta.

Prima di dedicare ad essa alcune riflessioni, è tuttavia opportuno chiarire la mia collocazione rispetto al dibattito, prima sommariamente descritto, circa la tenuta del progetto costituzionale in riferimento alla fase attuale. Ciò perché le mie notazioni in merito al tema specifico non siano assunte come esemplificative di una posizione complessiva sul tema.

 

2.  Sebbene trovi l’analisi postoperaista7  del tutto condivisibile laddove individua nel fordismo il background economico-sociale (e politico) della carta costituzionale e sottolinea la sua distanza rispetto alle ristrutturazione complessiva operata dal postfordismo, essa appare ciononostante parziale, poiché trascura di considerare l’autonomia del giuridico – non interamente rapportabile alla politica e non riducibile al testo normativo e alla sua interpretazione – a partire da alcune costanti proprie della produzione normativa e del pensiero giuridico nella fase del Welfare State ed in quella successiva. In quest’ottica, se alcune disposizioni della costituzione sono integralmente tributarie di una fase di sviluppo del diritto che è ormai alle nostre spalle – l’impianto dirigista della relazione società-Stato, che si manifesta nell’ascrizione ai cittadini di diritti funzionalizzati alla realizzazione dell’interesse sociale e nell’attribuzione allo Stato del monopolio delle politiche redistributive – altre sono del tutto in linea con la produzione giuridica che caratterizza l’oggi.

In particolare, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali appartengono in toto al progetto costituzionale ma sono allo stesso tempo caratteristica essenziale dell’attuale fase di globalizzazione del diritto8. E infatti le carte dei diritti di carattere sovranazionale e internazionale si moltiplicano, le costituzioni contemporanee si arricchiscono di sempre nuovi diritti umani, a riprova del fatto che il rights discourse può dirsi carattere fondante dell’ordine giuridico globale almeno quanto lo è l’egemonia dei modelli privatistici di gestione delle risorse materiali e immateriali. In un certo senso, quindi, la retorica dei diritti si iscrive a pieno titolo nello strumentario della governance neoliberale, insieme al ruolo dominante assunto dalle corti supreme nazionali e sovranazionali e alla tecnica del bilanciamento degli interessi in conflitto con cui esse prevalentemente operano. In questa direzione, la critica dei diritti messa a punto dai Critical Legal Studies a partire dalla metà degli anni Settanta conferma la sua validità: il carattere formale, astratto e indeterminato dei diritti (come, del resto, di ogni regola giuridica) fa di essi uno strumento plastico, capace di servire progetti politici diversi, anche opposti fra loro9; il ricorso strategico al rights discourse, tipico di questa fase del capitalismo, ne svela tutta l’ambiguità.

Ma, come è stato detto, i diritti sono ciò che non possiamo non desiderare10. Restano, a dispetto di questa intrinseca ambivalenza, pro messa di libertà, di uguaglianza, di emancipazione. Nella sua più recente fatica, Il diritto di avere diritti11, Stefano Rodotà porta all’estremo limite le potenzialità trasformative dei diritti. Lo fa sganciando i diritti dal dispositivo della cittadinanza (e forse anche dagli ordinamenti nazionali) e predicandone l’unitarietà, al di là delle tradizionali distinzioni fra diritti civili e diritti sociali, in considerazione della materialità delle situazioni e dei bisogni. Il che non esime, ovviamente, dal fare i conti con un quadro economico e politico che ha prodotto lo human divide più intenso e diffuso dell’epoca contemporanea12. E non mette in questione, io credo, la necessità di dotarsi di strumenti di azione che consentano di aprire sul diritto uno sguardo oltre il paradigma essenzialmente individualista attraverso cui i diritti, pur forti di un universalismo politicamente non neutro, vengono declinati13.

Su questo versante la costituzione repubblicana non è perciò datata, né ha esaurito le sue potenzialità trasformative, come peraltro reso chiaro dal riconoscimento su base universale – e non di cittadinanza – dei diritti fondamentali, quali i diritti inviolabili dell’art. 2 e il diritto alla salute dell’art. 32. Un banco di prova mi pare sia fornito proprio dall’applicazione dell’art. 32 Cost., dopo che il caso dell’Ilva di Taranto14 ha messo a nudo l’urgenza di tornare a riflettere sul diritto alla salute con un approccio rinnovato, sebbene non certamente inedito. Dopo decenni in cui i giuristi hanno privilegiato la chiave individualista nella lettura del diritto alla salute, ora inquadrato nelle dinamiche del danno biologico – il cui originario background sociale era destinato a perdersi nelle varie svolte ‘esistenzialiste’ del danno alla persona – ora confinato al rapporto medico/paziente e ulteriormente isolato dal contesto economico e sociale in virtù degli sviluppi della medicina genetica e predittiva – il caso Ilva riporta prepotentemente alla ribalta il potere destituente del diritto alla salute nella sua capacità di generare dispositivi di controllo/limite dei modi di produzione, fino a disabilitare le scelte del capitale stesso.

Rivendicare il diritto alla salute si profila infatti come un atto ‘rivoluzionario’, in quanto la sua effettività impone di limitare/controllare in modo pervasivo e trasversale le linee di tendenza dello sviluppo capitalistico, dando avvio a un reale processo di trasformazione. In modo esemplare, l’affaire Ilva investe le stesse soggettività ‘costituzionalizzate’ di capitale e lavoro, ossia tanto la logica del profitto dell’impresa quanto certe dinamiche proprie delle relazioni industriali e della rappresentanza sindacale in Italia.

Nella sostanza, e più in generale, l’affermazione del diritto alla salute è tale da incidere su: a) i modi della produzione industriale15, soprattutto in relazione all’inquinamento provocato da alcuni insediamenti di rilevanza nazionale come l’Ilva stessa, la Saras di proprietà dei Moratti a Sarroch in Sardegna, Porto Marghera, ecc. Leading case qui è l’importantissima sentenza delle Ss. Uu. civili della Corte di Cassazione del 197916 che a difesa del diritto alla salute ‘inventa’ un’inibitoria atipica per bloccare la produzione e afferma tanto il carattere di diritto fondamentale della salute quanto la sua dimensione necessaria- mente sociale; b) le politiche energetiche e i metodi di smaltimento dei rifiuti decisi tanto a livello nazionale che locale, per gli evidenti problemi di impatto ambientale che comportano, con forti analogie con quanto detto sub a); c) il secondo enclosure movement, con particolare riguardo alla commodification del bios: esemplare al riguardo il caso Myriad Genetics17 in tema di brevettabilità dei geni umani, il quale chiarisce che il diritto alla salute è negato se i costi della medicina predittiva diventano esosi a causa delle royalties dovute ai titolari dei relativi brevetti; d) l’approccio aziendalista alla gestione del servizio sanitario pubblico, con protocolli che antepongono i tagli – ovvero economie di spesa assunte come efficienti – alla salvaguardia della salute delle persone. In Italia alcune sentenze penali hanno riconosciuto la responsabilità del medico che dimette il paziente in ossequio al protocollo ospedaliero senza vagliare le particolarità del singolo caso clinico18; ossia anteponendo la gestione efficiente delle risorse alla salva- guardia della vita umana. Più in generale l’Oms ha affermato nel 2008 che «health care is a common good not a market commodity»19. La riscoperta della dimensione sociale della salute – oggi occultata dalla genetica medica che responsabilizza l’individuo e misconosce le cause ambientali e sociali delle malattie – comporta peraltro una rivisitazione della tradizionale impostazione del diritto alla salute stretto nel binomio diritto sociale/servizio pubblico. Se assumiamo che il modello originario del servizio pubblico, di matrice francese, riposa sul rapporto sovrano/suddito20  e prendiamo atto del tramonto di tale modello nelle attuali democrazie neoliberali, possiamo oggi in concreto pensare alla sanità come a un bene comune, il che comporta la sua gestione partecipata con un focus (quanto meno) sull’individuazione degli obiettivi e sulla verifica dell’efficacia dei risultati ottenuti21. È questo uno sviluppo, per un verso, niente affatto incompatibile, anzi del tutto in armonia con la norma costituzionale; ma per l’altro legato ad un tentativo di rivisitazione ‘dal basso’ dell’intero sistema del welfare che va prendendo forma all’interno del discorso sul comune e sul quale, tuttavia, non possiamo soffermarci in questa sede22.

 

proprieta_privata3.  Diverso il discorso per quanto attiene invece al principio della funzione sociale della proprietà, che nasce legato a una coscienza giuridica e a una concezione della relazione Stato/mercato che sono ormai alle nostre spalle. Di conseguenza, l’idea che la funzione sociale rappresenti oggi lo snodo essenziale nella ricerca di una legittimazione giuridica per le rivendicazioni dei beni comuni sembra porsi in contrasto con la sua matrice storica. Proprio uno studio genealogico del principio, però, può condurre ad inattese aperture, che non sono facilmente leggibili se ci si ferma a considerare la funzione sociale alla luce del rapporto pubblico/privato caratteristico del welfare state della metà del ’900. La genealogia non è infatti la ricerca dell’origine: mentre quest’ultima mira a individuare l’essenza di un’idea e pretende di ricostruire “la curva lenta di un’evoluzione”23, la genealogia vuole piuttosto ritrovare gli scarti e le rotture rispetto a uno sviluppo che si vuole lineare, i frammenti che compongono un quadro non necessariamente armonico, magari intimamente contraddittorio24. Il lavoro genealogico25, dunque, ci aiuta a individuare nella funzione sociale non una nozione intrinsecamente coerente o univocamente indirizzata alla realizzazione di un determinato progetto politico, ma invece un concetto composito, soggetto a torsioni diverse, come diverse sono le sue matrici culturali e le ideologie che lo hanno nel tempo ispirato.

Tanto, a dispetto delle ideologizzazioni dovute in prevalenza ai detrattori del principio e votate alla sua archiviazione, è reso palese sin dagli albori del dibattito sull’art. 42 Cost. Non per nulla – si precisa – la funzione sociale della proprietà, sancita dall’art. 42, comma 2 della costituzione, si iscrive a pieno titolo fra i dispositivi propri di un sistema capitalista: lo scrive Rodotà nel 1960, nel suo celebre saggio Note critiche in tema di proprietà26. Riprendendo Ascarelli, che già aveva spiegato che «Il capitalismo non può caratterizzarsi solo in funzione della proprietà individuale, ma in funzione della struttura e del funzionamento di questa proprietà nel processo produttivo», Rodotà spiega che «la funzione sociale della proprietà si palesa, nel tempo presente e nei paesi di democrazia occidentale, come lo strumento attraverso il quale una società che riconosce la proprietà privata dei beni tenta di dare a questa un più ampio respiro per trarne vantaggi adeguati. Considerata non già come mera finalizzazione di ogni diritto […] ma come elemento del diritto di proprietà, la funzione sociale dimostra d’essere caratteristica tipica d’un sistema giuridico capitalista»27. L’affermazione è densa di sviluppi. Qui basti osservare che la rilettura in senso sociale della proprietà non prelude alla fondazione di un sistema socialista, ma – come osserva Rodotà – è perfettamente coerente con le esigenze del capitalismo in una certa sua fase, quella che va grosso modo dai primi del Novecento alla fine degli anni Sessanta dello stesso secolo. D’altra parte il dibattito fascista sulla funzione sociale della proprietà sviluppatosi in occasione della redazione del nuovo codice civile aveva sì di mira il contenimento dell’egoismo proprietario, ma in funzione delle esigenze del capitalismo (allora) avanzato, dunque nella prospettiva di modernizzare l’economia nazionale, industrializzando il paese e rendendo maggiormente produttiva l’agricoltura28.

In una prospettiva mutata, che è quella della costituzione democratica del dopoguerra, la costituzionalizzazione della proprietà e de- gli istituti fondamentali del diritto civile ha il senso profondo – chiarisce Rosario Nicolò – di mutare il contenuto intrinseco della situazione soggettiva in funzione della realizzazione di finalità superindividuali. Non per questo il diritto soggettivo perde tuttavia la sua natura di mezzo di tutela della libertà dell’individuo. Ove questo accadesse, ove cioè l’interesse superindividuale dovesse sovrapporsi all’interesse individuale, riducendolo a mero presupposto della tutela giuridica, saremmo di fronte a una trasformazione strutturale che decreterebbe la fine del diritto civile quale creazione intellettuale che dà forma giuridica ai «valori […] che investono la stessa dignità dell’uomo, come essere libero»29. Il valore profondamente democratico di questo pensiero non può occultare il fatto che, in esso, l’esaltazione della libertà e della dignità dell’uomo si colloca in un contesto di riconoscimento e valorizzazione della proprietà privata, cosicché risulta problematico porre in continuità quella funzione sociale, che dello statuto proprietario costituisce un principio fondante, con un dispositivo giuridico da porre al servizio di un progetto di trasformazione – quello dei beni comuni, per intenderci – che si nutre invece di istanze fortemente antiproprietarie.

Ma il contributo che i giuristi possono offrire oggi in questo senso può scaturire, io credo, solo da un lavoro che valorizzi le fratture con quanto ha caratterizzato la fase del social, piuttosto che insistere in maniera nostalgica sulla continuità con esso.

Nella genealogia del principio della funzione sociale, il ruolo di Note critiche appare quello, assolutamente cruciale, di mettere a punto una ricostruzione della proprietà quale emergeva a seguito della profonda trasformazione operata dalla costituzione, convincendo a prenderne atto gli interpreti, che riottosi di fronte ai cambiamenti intervenuti, continuavano a leggere l’art. 42 Cost. con le lenti del giurista ottocentesco, costruendo la funzione sociale come un inutile orpello o al massimo un limite esterno alla proprietà borghese, secondo la lezione del pensiero liberale classico. La funzione sociale segna per contro una frattura rispetto a quella tradizione. Essa rappresenta un dato strutturale, interno al diritto di proprietà. In virtù di esso è il legislatore che di volta in volta, in relazione al tipo di bene riguardato, determina il contenuto dell’appartenenza. La lettura più coerente con l’original intent del costituente conduce quindi a negare l’esistenza di un contenuto minimo incomprimibile della proprietà, come invece sosterrà poi la Corte costituzionale30.

Con il principio della funzione sociale, in sostanza, il conflitto sociale è portato (e possibilmente risolto) dentro la proprietà. In un duplice senso. Da una parte, il progetto costituzionale mira ad aprire l’accesso alla proprietà a gruppi sociali che ne erano sino ad allora rimasti esclusi. Come ricorda Rodotà, nel Programma della Democrazia cristiana per la nuova Costituzione si leggeva «non tutti proletari, ma tutti proprietari»31. Ma soprattutto la funzione sociale si presenta come lo strumento attraverso cui lo Stato mette a punto una serie di politiche di carattere redistributivo. Una redistribuzione pensata in favore di gruppi determinati (v. legge equo canone, 1978; legge sui contratti agrari, 203 del 1982) allo scopo di creare più equi rapporti sociali; ovvero in favore dell’intera collettività (si ricordino, fra le altre, la legge Bucalossi n. 10 del 1977 sull’edificabilità dei suoli, che sottrae ai proprietari un’importante componente della facoltà di godimento della proprietà immobiliare, cioè lo jus aedificandi; la legge Galasso del 1985, sui vincoli paesaggistici). Più in generale, la compressione della proprietà privata è giustificata in vista della realizzazione dei diritti sociali; lo afferma a chiare lettere la Corte costituzionale ancora di recente, allorché riconosce che, alla stregua del principio della funzione sociale e dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale richiamati dall’art. 2 Cost., il legislatore può stabilire per l’indennità di espropriazione una misura inferiore al valore di mercato del bene ablato, giacché “livelli troppo elevati di spesa per l’esproprizione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse potrebbero pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione (salute, istruzione, casa, fra gli altri)”32.

Peraltro questo assetto istituzionale, evidentemente, vale anche a escludere le comunità da qualsiasi relazione diretta con le risorse, cioè da qualsiasi relazione che non sia mediata dal filtro dello Stato, poiché è lo Stato e solo esso che determina se e quando sottrarre utilità ai proprietari in favore della collettività. E questo è indice molto chiaro della sostanza della relazione cittadino/Stato e della stessa concezione di Stato che fanno da background alla funzione sociale della proprietà per come essa si configura nella trama costituzionale.

 

4.  Nei decenni a seguire la funzione sociale che ha alimentato il disegno emancipatorio proprio della costituzione repubblicana tramonta. Dagli anni Novanta in poi (con qualche prodromo avvertibile anche in precedenza33) una serie di ‘controriforme’ neutralizza in larga misura gli esiti degli interventi legislativi conformativi della proprietà realizzati in particolare negli anni Settanta: dall’equo canone in materia di locazioni abitative all’urbanistica, i sacrifici imposti al diritto di proprietà dalla legislazione vincolistica saltano a uno a uno in nome del corretto funzionamento del mercato. Prende piede l’ideologia neoliberale e con essa l’idea che i limiti alla proprietà producano effetti distorsivi del mercato, ai danni del benessere collettivo. Un potente apparato teorico fa da supporto alla tesi secondo cui la proprietà privata (e la sua libera circolazione nel mercato) rappresenta il sistema più efficiente di allocazione delle risorse, in quanto regno delle scelte decentrate34.

In questo nuovo contesto culturale, parte importante della dottrina reinterpreta la funzione sociale all’interno della razionalità del sistema civilistico, in linea con l’esigenza di preservare la centralità della proprietà e consolidare il sistema, cosicché la proprietà conformata è riletta in funzione della efficiente circolazione dei beni, cioè del mercato, e ne divengono ipotesi applicative quelle regole di circolazione giuridica che sono poste a vantaggio della stessa classe dei proprietari (esempio tipico la regola possesso vale titolo dell’art. 1153 c.c., ora letto come ipotesi di conformazione della proprietà mobiliare)35.

D’altra parte, la funzione sociale della proprietà ormai da tempo non è più al centro dell’agenda del legislatore nazionale; le ultime sue applicazioni, più che dar chiaro segno della volontà di piegare la proprietà privata a programmi di redistribuzione della ricchezza, hanno dato voce ad una attitudine statalista che tendeva a sconfinare nel l’abuso, come la vicenda della c.d. occupazione acquisitiva dimostra. Ed è indicativo al riguardo che la Corte costituzionale, che in precedenza aveva ripetutamente contrapposto alla funzione sociale un’interpretazione estensiva dell’istituto dell’espropriazione e del terzo comma dell’art. 42 Cost. con l’intento di mantenere ben salda al centro del sistema l’idea, protoliberale, di una proprietà sostanzialmente non conformabile, abbia più di recente giustificato il sacrificio imposto al proprietario da un’attività della P.A. che la Corte stessa qualifica come illecita, in quanto sorretto da un bilanciamento fra interesse privato e interesse pubblico che proprio nella funzione sociale della proprietà trova la sua fonte di legittimazione36.

A livello sovranazionale deve registrarsi il mutare d’asse segnato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dalla Carta di Nizza e dalla giurisprudenza delle corti europee, che tendono a proporre un’idea di proprietà più vicina al diritto liberale classico che non alle costituzioni del dopoguerra, tanto da annoverare, come fa la Carta di Nizza, il diritto di proprietà fra le libertà, anziché fra i rapporti economici37.

In questo particolare contesto, la funzione sociale della proprietà più che eclissarsi tende a mutare di segno, come già è avvenuto per la dottrina nazionale. In particolare la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che sin dagli anni Settanta ha fatto riferimento alla funzione sociale, desumendola dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, giustifica sulla base del principio restrizioni alla proprietà finalizzate alla costruzione del mercato unico e della libertà di concorrenza38. In alcune decisioni, più recenti, la funzione sociale è letta come mero limite ‘esterno’, secondo un’impostazione che appare più prossima ai regimi proprietari ottocenteschi39. Sono casi in cui le ragioni della proprietà incontrano il limite dell’interesse generale, che può declinarsi in termini di pace e sicurezza internazionali40, di salute pubblica41, ov-vero di tutela dell’ambiente contro l’inquinamento42. Ma in realtà questo non può dirsi un trend univoco, come dimostra la recentissima decisione Cgue sul caso Sky Austria in cui la Corte articola, in modo invero piuttosto peculiare, una funzione sociale a vocazione decisamente conformativa43.

In passato, del resto, la Corte di Giustizia ha più volte difeso la le gittimità di operazioni di vera e propria conformazione della proprietà poste in essere dal legislatore comunitario44. Si tratta di fattispecie nelle quali la norma comunitaria plasma direttamente il contenuto e l’estensione delle facoltà del proprietario, come nel caso in cui è fatto divieto al proprietario di un fondo agricolo di impiantare nuovi vigneti in osservanza delle misure assunte dalla Comunità per la ristrutturazione e l’organizzazione del mercato vitivinicolo45. Sennonché, come si è anticipato, i sacrifici imposti alla proprietà in questi casi non hanno più finalità redistributive e perequative, ma vanno a vantaggio dello stesso blocco sociale dei proprietari. Se ne può allora desumere che la funzione sociale, quale limite interno al diritto di proprietà, conserva la sua fisionomia sul piano strettamente tecnico-giuridico e resta tuttora uno strumento di ingegneria sociale, ma non è più il dispositivo deputato a amministrare il conflitto di classe, il quale è con ciò riportato fuori dalla proprietà.

Un passaggio ulteriore in questo scenario è compiuto dalla Corte di Giustizia con il recente caso Sky Austria, che, a mio avviso, più che dare conferma di una lineare evoluzione della proprietà in senso marcatamente neoliberale, scopre la complessa trama degli interessi e delle linee di intervento che fanno capo al diritto dell’Unione europea. Oggetto della controversia è la conformità agli artt. 16 (“Libertà di im- presa”) e 17 (“Diritto di proprietà”) della Carta di Nizza della direttiva 2010/13/UE, che prevede che il titolare di diritti esclusivi di trasmissione televisiva relativi ad eventi di grande interesse pubblico debba concedere ad altre emittenti televisive lo spazio per brevi estratti di cronaca senza poter esigere un compenso superiore ai costi supplementari di accesso al segnale (che possono essere pari a zero). La Corte ritiene che l’art. 17 non sia in questione non già in ossequio ad una nozione tecnico-formale di proprietà che impedisca di qualificare tali i diritti di esclusiva televisiva46, quanto piuttosto perché trattasi di una posizione giuridica soggettiva limitata nel contenuto a monte dal legislatore. Da una parte, quindi, la proprietà risulta non (più) conformabile alla stregua del diritto UE, dall’altra, la logica della funzione sociale è applicata direttamente alla libertà di impresa. In realtà il passaggio che la decisione dedica al diritto di proprietà, breve e non troppo chiaro, ha soprattutto il sapore di una declamazione, sia pur non trascurabile: per giurisprudenza costante la Corte ascrive ai property rights una congerie ampia e variegata di interessi, tale da ricomprendere senz’altro anche i diritti di esclusiva televisiva, sicché la loro esclusione dall’ambito di applicazione dell’art. 17 e l’irriducibilità di quest’ultimo alla logica della funzione sociale sembrano non decisivi sul piano operazionale, laddove i diritti in oggetto risultano comunque conformabili in quanto espressione della libertà di impresa. Il tratto di novità della decisione sta allora soprattutto nel bilanciamento di interessi operato dalla Corte, che conduce al contenimento della ragioni della proprietà/impresa questa volta non in vista del soddisfacimento delle esigenze del mercato, ma a vantaggio del diritto di cronaca e del pluralismo dell’informazione “di cui occorre sottolineare l’importanza in una società democratica e pluralista”.

Emerge pertanto chiaramente come la funzione sociale sia tutt’altro che morta, rivelandosi piuttosto formula flessibile, utilizzabile in contesti diversi per servire disegni politici diversi: si va dalla vocazione produttivista che la funzione sociale assume durante il fascismo per rispondere agli obiettivi di modernizzazione dell’economia e di industrializzazione del paese perseguiti dal regime, al ruolo di strumento perequativo e redistributivo giocato nello Stato sociale soprattutto negli anni 60 e 70 del 1900, alla funzione di congegno-valvola volto a garantire l’efficienza dei property rights nella fase attuale. Ma, come abbiamo appena visto, le ricostruzioni che in dimensione diacronica descrivono uno sviluppo lineare non sempre sono calzanti. Infatti, nello stesso torno di anni, gli anni Settanta del ’900, la funzione sociale svolge un’azione perequativa e promozionale di alcuni gruppi sociali tendenzialmente svantaggiati (i conduttori, ad es.) nel contesto nazio nale, laddove, nel contesto comunitario, è ancillare alle esigenze dell’integrazione economica e alla tutela di alcuni ceti economici, gli agricoltori, ad esempio, o gli operatori di alcuni settori del mercato e della produzione, che non appartengono storicamente alle classi subalterne e non sono socialmente svantaggiati o emarginati, ma meritano particolare protezione al fine di evitare sacche di stagnazione nel mercato.

A conclusioni non dissimili si giunge se si guarda alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, cui si deve, secondo alcuni autori, la svolta neoliberale della Corte costituzionale italiana in tema di proprietà47. A parte la considerazione che le regole operazionali desumibili dalla giurisprudenza costituzionale hanno di molto ridotto la carica trasformativa del principio della funzione sociale, giacché l’idea giusnaturalista del contenuto minimo intangibile propugnata dalla Consulta sin dagli anni ’60 ha presto spuntato l’arma della proprietà conformata, portando quasi senza soluzione di continuità ad una lettura del dettato costituzionale compatibile con il nuovo scenario europeo48, il bilanciamento operato dalla Corte di Strasburgo fra interesse pubblico e ragioni della proprietà si atteggia variamente, sicché non è possibile ricondurlo ad una logica omogenea. Non è possibile, ad esempio, ridurre la logica sottintesa ad un caso come Loizidou49 ad una celebrazione della proprietà privata, quando è evidente che la Corte riconosce la prevalenza delle ragioni proprietarie, nella specie quelle fatte valere da una cittadina cipriota espropriata dal go verno della Repubblica Turca di Cipro del Nord, stato-fantoccio e longa manus della Turchia, per sanzionare l’occupazione di Cipro da parte di quest’ultima50. Così come la condanna dell’Italia nel celebre caso dell’Ecomostro51 trova la sua ratio innanzitutto nella condotta abusiva della pubblica autorità,  nel caso il Comune di Bari, che avendo illegittimamente concesso una licenza edilizia su terreni gravati da vincolo paesaggistico, si ritrova paradossalmente a diventarne proprietaria a seguito della confisca disposta dall’autorità giudiziaria e nonostante che i proprietari originari fossero stati assolti in sede penale per carenza dell’elemento soggettivo, in quanto indotti in errore dall’amministrazione comunale. Allo stesso modo, la peculiarità della vicenda italiana dell’occupazione acquisitiva induce a usare qualche cautela nel leggere come filo-proprietario l’intento garantista che anima la decisione Scordino52, nota per aver segnato il mutamento di indirizzo della nostra Corte costituzionale in tema di quantum dell’indennizzo. Per contro, davanti alla recente nazionalizzazione di una banca inglese in grave crisi di liquidità, la Corte di Strasburgo nega la sussistenza di una violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 ad opera del governo britannico, sebbene nessuna forma di indennizzo fosse stata corrisposta ai titolari delle partecipazioni societarie53. Il bilanciamento operato dalla Corte è questa volta sfavorevole agli interessi proprietari, senonché l’interesse generale è qui identificato con la preservazione dell’equilibrio del sistema finanziario nazionale, ciò che si ritiene debba comportare il sacrificio delle ragioni degli azionisti, piccoli risparmiatori.

Qualche conclusione provvisoria può ora trarsi. Il modo in cui la funzione sociale è utilizzata nel contesto neoliberale non è affatto semplice, e non è univoco. Molto diversa appare la razionalità sottostante ad una decisione come Sky Austria rispetto a quella che anima la decisione CEDU del caso Grainger, sebbene in entrambe prevalga l’interesse pubblico. Mentre è opposto l’esito del bilanciamento in Grainger e in Scordino. Ridurre questa trama composita a una sacralizzazione della proprietà equivale a una semplificazione incapace di cogliere la complessa rete degli interessi economici e dei progetti politici in campo, soprattutto di quella congerie di programmi politicamente eterogenei fra loro che fanno capo al diritto transnazionale e a quello dell’Unione europea, in particolare. Mi pare abbia ragione allora Luca Nivarra quando sottolinea le tensioni e le contraddizioni che attraver sano il rapporto, pur imprescindibile, fra proprietà e capitalismo54.

 

resistenza5.  La vicenda della trasformazione della funzione sociale nella con temporaneità si svolge, come è noto, in un contesto segnato dal profondo mutamento dei rapporti fra Stato e mercato, fra pubblico e privato. Un contesto in cui la sovranità statale deperisce, o comunque muta pelle, e la proprietà privata vive una nuova fase di ascesa. Così da una parte si contrappone allo Stato interventore lo Stato regolatore, lo Stato proponente e contraente. Dall’altra le politiche adottate dalla governance globale (World Bank, Wto, ecc.) promuovono l’espansione della proprietà, soprattutto della proprietà intellettuale, incoraggiata ad espandersi in dimensioni inedite, inglobando molto di ciò che era prima considerato public domain, o che non era affatto pensato come oggetto di diritti di esclusiva, come i geni umani. Ma anche l’appropriazione delle risorse naturali – dall’acqua, alla terra, ai saperi tradizionali legati al mondo vegetale (si veda il caso KAMUT o i brevetti ottenuti da Monsanto e altre multinazionali su antiche colture e erbe officinali) – acquista proporzioni nuove. Questo scenario si dimostra molto favorevole all’emergere del comune. L’esplosione della proprietà, da una parte, e il declino della sovranità degli Stati nazionali, dall’al tra, stimola il protagonismo di comunità piccole e grandi, localizzate e diffuse, nella lotta contro lo spossessamento del comune. Nel campo del materiale, dell’immateriale, nello spazio urbano. Il fenomeno è importante tanto che, a mio avviso, esso caratterizza lo statuto dei beni nella fase attuale, che risulta attraversato ora da una tensione fra nuove enclosures e forme organizzate di libero accesso e gestione collettiva delle risorse. A contendere il terreno alla proprietà privata, a contrastare il dispiegarsi delle facoltà del proprietario ora non è più lo Stato, il pubblico, ma la rivendicazione dell’accesso e dell’uso comune.

In termini giuridici, una nuova contrapposizione si profila: quella fra il diritto di escludere – del proprietario – e il diritto – degli altri, i non proprietari – a non essere esclusi. Quale il fondamento normativo di una tale pretesa? Oggi che «luoghi in tutto il mondo vengono ‘occupati’ per difendere diritti sociali»55, che in Italia decine di spazi culturali di proprietà pubblica o privata, lasciati in stato di abbandono, sono riattivati da artisti e lavoratori dell’immateriale con produzioni culturali restituite al quartiere, alla città, a più ampie collettività, che proprietà dismesse vengono occupate con la volontà di produrre ‘Welfare dal basso’56 e di soddisfare diritti fondamentali come il diritto al l’abitare, il principio della funzione sociale può soccorrere conferendo legittimità alle violazioni ‘socialmente virtuose’ del diritto di proprietà? In difesa dei beni comuni si sostiene effettivamente questo57.

Ora, il dibattito che ha preso vita sul filo della (o di una eventuale) saldatura fra funzione sociale e beni comuni ci dice che nessuna risposta sbrigativa è possibile, poiché ogni presa di posizione al riguardo sottintende una specifica opinione sulla vitalità della funzione sociale, sull’attualità dell’intero progetto costituzionale e persino sulla funzione che si riconosce al diritto come strumento di ingegneria sociale. Cosicché la questione diventa lo snodo intorno a cui si confrontano concezioni di fondo che partendo dalla riflessione sui beni comuni trovano il punto di caduta nel rapporto fra diritto e politica58. E prendere parola su temi di questa portata non è certamente compito che possa affidarsi alle battute conclusive di un breve saggio. Qui si tratta, invece, di trarre qualche conseguenza dall’approccio genealogico al tema della funzione sociale che ho seguito nelle pagine che precedono.

Provo allora a riassumere i termini della discussione. Nella costituzione la proprietà è pubblica o privata. La proprietà privata, conformata dalla funzione sociale, è riconosciuta e garantita. I beni comuni non sono contemplati né si fa menzione delle proprietà collettive di

cui in sede costituente si discusse per poi decidere di assorbirle nel pubblico (o nel privato). Tanto rende il progetto costituzionale e la dimensione del comune, intesa come dimensione collettiva che scardina in qualche modo la rigidità della dicotomia pubblico/privato, non immediatamente armonizzabili.

Si profila allora – diciamo, in prima battuta – l’eventualità di un uso meramente tattico della funzione sociale, eventualità certamente benvenuta ove dovesse servire a salvare questa o quella occupazione a rischio di sgombero. Al riguardo indicazioni preziose si traggono ancora una volta da Note critiche, laddove si dice che «l’inattività del proprietario, quando siano posti a suo carico obblighi e oneri, determina una sopravveniente carenza di legittimazione alla titolarità o all’esercizio del diritto di proprietà»59. E in effetti, poiché nella maggior parte dei casi i luoghi occupati e rivendicati come comuni sono proprietà ‘in stato di abbandono’, la legittimazione all’esercizio del diritto può fondatamente essere messa in questione. Del resto la stessa ratio dell’art.838 c.c. che giudica espropriabili beni produttivi abbandonati dal pro- prietario, ovvero fondi urbani il cui deperimento può nuocere al decoro cittadino, all’arte, alla sanità pubblica, milita in questo senso, sebbene richieda ai fini operazionali un provvedimento di esproprio ad hoc.

Per questa via, però, tutto quanto possiamo ottenere è un comune di risulta, rilevante e meritevole di tutela giuridica solo quando la pro- prietà sia illegittimamente esercitata. Serve invece qualcosa di più. Il tentativo più fortunato di dare al dettato costituzionale valenza strategica superando l’evidente distanza fra la dimensione del comune e l’ancoraggio della costituzione alla dicotomia pubblico/privato sta in una rilettura dell’art. 42, comma 2 Cost. secondo la quale la proprietà dei beni comuni, pubblica o privata che sia, è intrinsecamente limitata dalla facoltà di accesso e uso riconosciute a chiunque abbia un interesse conforme alla natura del bene60. È questa un’interpretazione della funzione sociale più promettente, in quanto attacca direttamente la logica proprietaria, distinguendo accesso, uso e proprietà e contrapponendo i primi alla seconda. Si afferma infatti che accesso e proprietà nella loro rilevanza costituzionale sono categorie autonome, potenzialmente o attualmente in conflitto. L’accesso deve essere riconosciuto indipendentemente dalla titolarità ove ciò serva a garantire l’interesse all’uso del bene oltre le forme dell’appartenenza esclusiva. E ove il bene sia al centro di una costellazione di interessi, questi ultimi devono trovare voce attraverso l’ideazione di modelli partecipativi di gestione.

Siamo con ciò di fronte a una lettura avanzata della norma costituzionale, distante, almeno in apparenza, da un’impostazione che originariamente leggeva la funzione sociale, in piena coerenza con il sistema capitalistico, come quel principio che consente ad una società moderna che riconosca la proprietà dei beni di trarre da essa vantaggi adeguati61. Tuttavia, gli sviluppi che hanno interessato di recente la funzione sociale confermano l’indeterminatezza ovvero la flessibilità delle forme giuridiche, la loro intrinseca capacità di dar voce a progetti anche distanti fra loro, cosicché non ci sono letture storicamente adeguate e letture peregrine perché eccentriche rispetto ad un’unica coerente linea evolutiva, e sarebbe pertanto arbitrario liquidare la funzione sociale come un dispositivo appartenente ad una fase ormai superata della cultura giuridica, da relegare oggi ad un uso meramente tattico62. Come sono possibili modalità di conformazione della proprietà del tutto funzionali alle esigenze delle politiche neoliberali – e le abbiamo viste – altrettanto possibili sono le declinazioni ‘antagoniste’ della funzione sociale.

Resta aperta a mio avviso una questione. Viene da chiedersi se l’itinerario che si percorre per giungere ad una lettura tanto avanzata della funzione sociale si compia ancora interamente dentro il dettato costituzionale. Una volta constatato che l’appartenenza esclusiva non è in grado di rendere conto della complessità delle relazioni fra persone e cose63, la funzione sociale diventa il grimaldello per neutralizzare pressoché integralmente ciò che costituisce il cuore del diritto di proprietà, lo jus excludendi alios. In questo caso non siamo forse oltre la funzione sociale, proprio perché, in realtà, siamo giunti oltre la (forma storica della) proprietà? Non che qui si affermi una essenza ‘morale’ impre- scindibile della proprietà (l’egoismo proprietario?) irriducibile ad assetti proprietari ‘altruisti’, che consentano l’accesso alle risorse a chi sia portatore di interessi di una data rilevanza. Ci si chiede però fino a che punto una forma di appartenenza, storicamente data, che si struttura intorno al diritto di escludere gli

altri dall’accesso alla cosa possa resistere ad una torsione di tale intensità. Se e quando, insomma, la relatività storica della forma giuridica segni essa stessa il limite alle sue possibili rimodulazioni, un limite oltre il quale la relazione fra le persone e le cose non si affida affatto alle forme dell’appartenenza e diventa uso che contende al diritto il suo statuto di mero fatto64.

 

* in “Rivista critica del diritto privato”, 2013/4. Questo lavoro riproduce con integrazioni sostanziali il saggio pubblicato in G. Alpa e V. Roppo (curr.), La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Laterza, Roma-Bari, 2013, 105-118, con il titolo “Il principio costituzionale della proprietà e le spinte antiproprietarie dell’oggi”. L’esigenza di integrare, e ricalibrare in parte, gli argomenti sviluppati nella versione originaria nasce da un ripensamento circa il ruolo delle forme giuridiche nei rapporti fra diritto, trasformazioni sociali e politica che ho maturato in occasione della partecipazione al seminario “Sovvertire il presente, reinventare l’Europa: una nuova politica per il comune” (Passignano sul Trasimeno, 5-8 settembre 2013) e della preparazione del seminario “Disarticolare la proprietà? Beni comuni e le possibilità del diritto” (Perugia, 8 ottobre 2013). Queste più recenti riflessioni investono qui principalmente la lettura della funzione sociale e sono rintracciabili nei §§ 3, 4 e 5 del presente lavoro.

1 Così U. Mattei, La proprietà privata e i beni comuni, «il manifesto», 26 gennaio 2013, introducendo il Seminario dedicato alla funzione sociale della proprietà svoltosi presso l’ex Colorificio Toscano a Pisa in quella stessa data, dal quale scaturiscono le riflessioni di Nivarra, Mattei e mie pubblicate in questo fascicolo.

2 Cfr. C. Salvi, Diritti umani, norme interposte e rendita fondiaria, in «Rivista critica del diritto privato», 2011, 339 ss.

3 Su questa contrapposizione si veda più in generale A. Somma, Diritto comunitario vs. diritto comune europeo, Giappichelli, Torino 2003.

4 S. Mezzadra, Costituzione, movimenti e processi costituenti. Appunti in vista del seminario di Roma, in www.uninomade.org.

5 Su cui v. ancora le notazioni di Mezzadra, Costituzione, movimenti e processi costituenti, cit.

6 Ci si riferisce qui alla ricostruzione dei processi di globalizzazione del diritto maturati durante «il periodo capitalista della storia del mondo» che dobbiamo a Du. Kennedy, Three Globalizations of Law and Legal Thought: 1850-2000, in The New Law and Economic Development. A Critical Appraisal, a cura di D.M. Trubek and A. Santos, Cambridge University Press, Cambridge (MA) 2006, 19-73. Nella ricostruzione di Kennedy, i primi settant’anni del secolo XX vedono delinearsi una seconda globalizzazione giuridica. Nella nuova fase, la parola d’ordine è il sociale (The Social) e il protagonista è il legislatore, che limita e corregge il diritto astratto dei codici con la legislazione speciale, volta a tutelare e proteggere soggetti deboli (ad esempio, lavoratori subordinati e locatari). L’essenza di questa nuova coscienza giuridica è, prima di tutto, una critica al pensiero giuridico classico, accusato di non rispondere più alle nuove esigenze sociali e di abusare del metodo deduttivo, giacché attraverso di esso gli esponenti del pensiero giuridico classico mentre affermavano di dedurre in via interpretativa le regole dai principi, in realtà, cercavano di adattare il diritto a uno scenario scandito da fenomeni di industrializzazione, urbanizzazione, globalizzazione dei mercati, i quali producevano tensioni crescenti tra forza lavoro e capitale, tra grandi e piccole imprese, che non potevano più essere governate soltanto dal diritto dei codici, ma richiedevano ampi progetti di riforme. La coscienza giuridica che si diffonde in questa fase sostituisce al dogma della volontà e ai suoi corollari una concezione del diritto quale mezzo per raggiungere scopi di carattere sociale.

7 Oltre all’intervento di Mezzadra si vedano Collettivo Uninomade, La costituzione del comune, www.uninomade.org; Id., Insistiamo: la critica della costituzione è necessaria, ivi.

8 Cfr. Du. Kennedy, Three Globalizations of Law, cit.

9 Cfr. Du. Kennedy, The Critique of Rights in Critical Legal Studies, in Left Legalism/Left Critique, a cura di W. Brown e J. Halley, Duke University Press, Durham-London 2003.

10 G.C. Spivak, Can the Subaltern Speak?, in Marxism and the Interpretation of Culture, a cura di C. Nelson e L. Grossberg, University of Illinois Press, Urbana, 1998.

11 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012.

12 Cfr. S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo «human divide», in Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, a cura di M.R. Marella, Ombre Corte, Verona 2012, 311 ss.

13 La questione è affrontata proprio in margine al libro di Rodotà da G. Amendola, Le metamorfosi del nuovo diritto, in «Il manifesto», 9 gennaio 2013.

14 V. ordinanza del Gip di Taranto, 26 luglio 2012, con la quale si ordina il sequestro di sei impianti dell’Ilva. In particolare la giudice, Patrizia Todisco, motiva il provvedimento osservando che la situazione dell’Ilva «impone l’immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo». Non solo. Dopo aver considerato che «l’imponente dispersione di sostanze nocive nell’ambiente urbanizzato e non ha cagionato e continua a cagionare non solo un grave pericolo per la salute (pubblica)», ma «addirittura un gravissimo danno per le stesse, danno che si è concretizzato in eventi di malattia e di morte», si conclude che coloro che hanno gestito l’Ilva hanno «continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». «In tal senso – aggiunge la Gip – le conclusioni della perizia medica sono sin troppo chiare. Non solo, anche le concentrazioni di diossina rinvenute nei terreni e negli animali abbattuti costituiscono un grave pericolo per la salute pubblica ove si consideri che tutti gli animali abbattuti erano destinati all’alimentazione umana su scala commerciale e non, ovvero alla produzione di formaggi e latte. Trattasi di un disastro ambientale inteso chiaramente come evento di danno e di pericolo per la pubblica incolumità idoneo ad investire un numero indeterminato di persone». L’ordinanza, tuttavia, non ha fermato la forza del capitale, dato che l’Ilva, dal 27 luglio 2012, ha continuato a produrre in spregio delle prescrizioni contenute nel provvedimento, che, peraltro, era stato confermato con un’ulteriore ordinanza del 10 agosto 2012. Cosicché la Procura di Taranto, con un nuovo provvedimento datato 26 novembre 2012, ha disposto il sequestro preventivo della produzione dell’Ilva degli ultimi quattro mesi, nonché di tutto quanto verrà prodotto in futuro, poiché realizzato contro la legge, o meglio, contro l’ordinanza del 26 luglio 2012. La triste vicenda porterà all’emanazione del decreto legge n. 207/2012, c.d. ‘Salva-Ilva’, convertito in legge n. 231/2012.

15 In tal senso cfr. G. Alpa, Tutela del consumatore e controlli sull’impresa, Il Mulino, Bologna 1977, in particolare 51.

16 Cass., Ss. Uu., 6 ottobre 1979, n. 5172, in «Il Foro italiano», 1979, I, 2302.

17 Association for Molecular Pathology v. United States Patent and Trademark Office, No. 09 Civ. 4515 (S.D.N.Y., Mar. 29, 2010). Per una sintesi della vicenda v. Oltre il pubblico e il privato, cit., Appendice D, 175.

18 Cass. pen., 2 marzo 2011, n. 1873.

19 Commission on Social Determinants of Health, Closing the Gap in a Generation. Health Equity through Action on the Social Determinants of Health, World Health Organization, Geneva 2008, 95.

20 Di ipoteca teologico-pastorale parla P. Napoli, Una categoria ibrida fra filosofia e diritto, teoria politica e prassi sociale, in «L’Indice», 23 ottobre 2012.

21 Cfr. C. Romagnoli, Il potenziale di salute del comune, Uninomade 2.0, http://www.uninomade.org/il-potenziale-di-salute-del-comune, consultato l’ultima volta il 24 marzo 2013.

22 G. Amendola, Appunti su Costituzione, Diritto e Comune. Verso un ciclo di lotte per la riappropriazione democratica del welfare, Euronomade, www://euronomade.info/2p=243, consultato l’ultima volta il 5 marzo 2014.

23 M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, Torino, Einaudi, 1977.

24 Sulla genealogia della proprietà cfr. L. Coccoli, Idee del comune, in Oltre il pubblico e il privato, cit., 31 ss.

25 Riproposto in questo fascicolo da Ugo Mattei, al quale rinvio.

26 S. Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in «Rivista trimestrale diritto e procedura civile», 1960, 1252 ss.

27 Ivi, 1298 ss.

28 Si veda il volume collettaneo La concezione fascista della proprietà privata, Roma 1939.

29 Cfr. R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Giuffrè, Milano 1964, 904 ss., spec. 912 s.

30 Sulla cui giurisprudenza si veda la critica sferzante di Rodotà in Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, Il Mulino, Bologna, 19902, 370 ss.

31 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 108 n. 9.

32 Su cui ancora di recente Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 348, in www.corte- costituzionale.it, intervenendo a proposito di misuramdell’indennizzo da esproprio.

33 Cfr. D. Bellantuono, La nuova disciplina dei contratti agrari, in «Il Foro italiano», 1982, IV, 125 ss., a proposito dei ‘patti in deroga’ al regime legale.

34 Classici G. Hardin, The Tragedy of the Commons, in «Science», vol. 162, n. 3859, 1968, 1243-1248 (trad. it. L. Coccoli, The Tradegy of the Commons. Guida a una lettura critica, in «Bollettino telematico di filosofia politica», http://purl.org/hj/bfp/249), e H. Demsetz, Toward a Theory of Property Rights, in «The American Economic Review», 57, 1967 (trad. it. Verso una teoria dei diritti di proprietà, in Tutti proprietari. La nuova scuola dei property rights, a cura di E. Colombato, Le Monnier, Firenze 1980), cui si aggiungono gli epigoni dell’analisi economica, chicaghiana e non, ovunque, anche in Italia.

35 In tal senso A. Gambaro, La proprietà, in Trattato dei diritti reali, a cura di A. Gambaro e U. Morello, Giuffrè, Milano 2008, vol. I, 293 e spec. 325 ss.

36 Corte cost., 31 luglio 1990, n. 384; Corte cost., 27 dicembre 1991, n. 486; Corte cost., 23 maggio 1995, n. 188; Corte cost. 2 novembre 1996, n. 369. Sulla complessa vicenda cfr. ora G. Ramaccioni, La tutela multilivello del diritto di proprietà. Profili strutturali e funzionali nella vicenda della occupazione acquisitiva, Giappichelli, Torino, 2013.

37 Cfr. C. Salvi, La proprietà privata e l’Europa. Diritto di libertà o funzione sociale?, in «Rivista critica del diritto privato», n. 3, 2009, 409 ss.

38 Cfr. L. Nivarra, La proprietà europea fra controriforma e «rivoluzione passiva», Diritto civile e principi costituzionali europei e italiani, a cura di C. Salvi, Giappichelli, Torino 2012.

39 In tal senso Nivarra, op. ult. cit.

40 Cgue, 3 settembre 2008, Kadi, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P.

41 Cgue, 12 gennaio 2006, Staebelow, causa C-504/04.

42 Cgue, 13 marzo 2010, Erg, cause riunite C-379/08 e C-380/08.

43 Cgue, 22 gennaio 2013, Sky Austria, causa C-283/11.

44 Cgue, 14 maggio 1974, Nold, causa 4/73; Cgue, 13 dicembre 1979, Hauer, causa 44/79.

45 Caso Hauer, v. nota precedente.

46 Al contrario la Corte continua ad avallare una nozione atecnica di proprietà, già riferita in passato alle quote di mercato, come nell’ormai risalente caso Nold, su cui v. n. 44.

47 Il riferimento è a Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Grande Chambre, 29 marzo 2006, 36813/97, causa Scordino c. Italia, cui dà seguito la Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007.

48 Ma la questione è più complessa. Nota giustamente Ramaccioni (op. cit., 85) come in definitiva il bilanciamento operato dalla Corte fra interesse proprietario e interesse pubblico corra sul filo della determinazione del quantum dell’indennizzo da espropriazione, dinamica che si ritrova anche nella vicenda dell’occupazione acquisitiva.

49 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 18 dicembre 1996, 15318/89, causa Loizidou v. Turkey.

50 Cfr. D. Caruso, Private law and State-marking in the age of globalization, in «New York University Journal of Law and Politics» vol. 39, n. 1, 2006, 35.

51 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 20 gennaio 2009, 75909/01, causa Sud Fondi srl e 2 altri c. Italia, su cui v. G. Ramaccioni, Ecomostro e diritti umani, in questa Rivista, 501-12, 2009.

52 V. supra, nt. 47.

53 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 10 luglio 2012, 34940/10, causa D. Grainger and others v. UK.

54 L. Nivarra, La funzione sociale della proprietà: dalla strategia alla tattica, in questo Fascicolo.

55 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 5.

56 Si consenta il rinvio a M.R. Marella, Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza, in “Lettera Internazionale”, 116, 2013, 24 ss.

57 Così U. Mattei, La proprietà privata e i beni comuni, in «il manifesto», cit.

58 Si tratta, peraltro, di questioni che tendono ad avere un impatto anche sul lavoro svolto dalla Costituente dei beni comuni, della quale sono componenti gli autori dei saggi dedicati alla funzione sociale pubblicati in questo fascicolo. Sulla Costituente si consenta il rinvio a Marella, Pratiche del comune, cit.; Ead., The Constituent Assembly of the Commons, Opendemocracy, http://www.opendemocracy.net/can-europe-make-it/maria-rosaria-marella/constituent-assembly-of-commons-cac, ultimo accesso il giorno 5 marzo 2014.

59 S. Rodotà, Note critiche, cit., 1313.

60 In tal senso S. Rodotà, Postfazione. Beni comuni: una strategia globale contro lo human divide, in M.R. Marella (cur.), Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, ombre corte, Verona, 2012, 311 ss. Su questa linea è anche U.Mattei, Una primavera di movimento per la “funzione sociale della proprietà”, cit.

61 Rodotà, Note critiche, cit., 1252 ss.

62 È questa la posizione da me espressa in Il principio costituzionale della funzione sociale della proprietà e le spinte antiproprietarie dell’oggi, in Alpa e Roppo (curr.), La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Laterza, Roma-Bari, 2013, 105.

63 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., 110.

64 Cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011.

 

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