di UGO MATTEI.

In margine al primo maggio di Taranto.1
Sulla giornata del 1° Maggio a Taranto vedi anche → Taranto, la festa indipendente

Lo striscione “Il lavoro è un bene comune” aprì il corteo milanese della Fiom ancor prima che si raccogliessero le firme sui quesiti referendari sull’acqua del giugno 2011, contribuendo alla costruzione del beni-comunismo come un’ideologia politica a tutto tondo.

Erano quelli i mesi, che oggi sembrano lontanissimi, in cui nell’Occidente liberale i “beni comuni” stavano abbandonando le scrivanie di un numero circoscritto di studiosi, per lo più economisti negli Stati Uniti (Ostrom ed altri) e giuristi in Italia (Commissione Rodotà) ponendo le premesse, tradotti in quesiti referendari, per divenire importante categoria del dibattito politico, capace di infliggere una delle pochissime sconfitte del modello neoliberale trionfante dalla caduta del Muro di Berlino.

Comprendere il lavoro fra i beni comuni, sebbene pratica discorsiva non limitata allo striscione ma diffusasi a macchia d’olio, non è stata operazione politica priva di critiche; ad oggi una riflessione culturalmente provveduta sul tema mi pare manchi. Da un lato, i principali custodi dell’ortodossia liberale hanno fatto leva proprio sulle difficoltà teoriche dell’inserire il lavoro fra i beni comuni per dire “se tutto è un bene comune nulla è un bene comune”, rivendicando così una specie di purezza concettuale per cui i beni comuni che non potrebbero essere nulla più che un tetium genus ben definito fra proprietà privata e proprietà pubblica (Pennacchi) nell’ambito del modello oggi costituito. Dall’altra, la nota corrente di pensiero erede dell’operaismo che ha avviato la più importante riflessione sul “comune” (Hardt e Negri), evidenzia una tensione, in condizioni di capitalismo cognitivo, fra l’opzione di porre al centro il reddito e l’idea che il lavoro possa essere un bene comune (Fumagalli). Del resto, il superamento della Costituzione del ’48, considerata documento irrimediabilmente legato alle condizioni della produzione fordista, passa proprio attraverso il suo essere “fondata sul lavoro”. Il questa luce gli articoli più significativi nel tracciare le linee di una rilettura costituzionale fondata sui beni comuni (in particolare il 9 ed il 43) sono marginalizzati, peraltro non senza merito, visto il loro drammatico tasso di disapplicazione.

Visti gli effetti odierni del progetto di produzione fordista insita nel “Piano Sinigaglia” che, insieme allo Schema Vanoni, utilizzò il denaro del Piano Marshall per rafforzare la produzione d’acciaio a Piombino, Conigliano e Bagnoli e dar vita al nuovo stabilimento Italsider di Taranto, è difficile negare che il lavoro o meglio quel tipo di lavoro sia un “male comune”. Un male, occorre dirlo subito, tanto per il lavoratori, contadini poveri cui fu promesso un futuro migliore rispetto a quello della “avara civiltà dell’ulivo”, quanto per l’intera comunità nazionale persuasa, attraverso un imponente sforzo degli apparati ideologici dello Stato, che la trasformazione brutale di beni comuni fisici e sociali come il paesaggio, l’ambiente, la salubrità delle acque, l’antico sapere contadino ed artigianale, in capitale concentrato costituisse un progresso. Quel periodo storico il cui conto economico doveva essere pagato dalle generazioni future (cioè da chi oggi è giovane) venne presentato come boom economico (per enfatizzare il legame con Zio Sam) in uno dei primi ed allora sporadici utilizzi politici della lingua egemone, o come miracolo economico, una locuzione più adatta a convincere i “miracolati” che trascorrere lunghe e dure ore respirando i fumi della trasformazione della ghisa in acciaio fosse un premio di cui bisognava esser grati ai vari protettori politici democristiani che si battevano a Roma per portare lavoro, sviluppo e progresso nelle terre dei cafoni.

Intendiamoci, le conoscenze disponibili nei tardi anni Cinquanta (sono del 1959 i primi lavori di sradicamento degli ulivi secolari e dei vigneti di una delle coste più belle del mezzogiorno dove oggi turisti di tutto il mondo accorrerebbero in frotte) intorno a quel modello di sviluppo che oggi sappiamo bene esser stato sovvenzionato attraverso il “debito ecologico”, non erano quelle disponibili oggi. Neppure il → libro di Raquel Carson era ancora stato pubblicato ed Enrico Mattei veniva accolto come un eroe ovunque si recasse per proporre i suoi disegni (visionari per l’epoca) di sviluppo estrattivo. Lungi da me quindi qualunque operazione di revisionismo storico o di second guessing (per usare un termine intraducibile) di processi sociali largamente condivisi e allora spesso in buona fede. Nondimeno, una cosa è rinunciare al senno del poi, un’altra escludere la comprensione storica di più lungo periodo ostinandosi a presentare Taranto come un conflitto del qui e adesso fra lavoro e ambiente (o salute).

Credo che il contributo che la nozione di lavoro come bene comune può offrire sia anzitutto quello di recuperare un minimo di complessità nell’analisi e insieme una dimensione di lungo periodo sia nelle condizioni del passato che in quelle del futuro. Solo così si possono attribuire le vere responsabilità storiche e soprattutto si può immaginare una strada che consenta di trasformare il dramma di Taranto (ma anche quello di Piombino) in un’autentica opportunità di riconversione ecologica dell’economia, capace di percorrere la strada per un nuovo modello che questa volta trasformi in capitale concentrato in beni comuni.

In effetti, la questione Ilva è l’esito della contrapposizione tradizionale fra pubblico e privato, con il relativo palleggio di responsabilità, che ha precluso ogni complessità e ogni caratterizzazione qualitativa delle nostre analisi. La decisione dei governi tecnici di percorrere un opzione formalistica volta alla pura procrastinazione e ancor peggio la decisione della Corte Costituzionale di assecondare tale ignavia perfino a costo di una regressione reazionaria nella comprimibilità del diritto fondamentale alla salute (dopo 35 anni dal suo riconoscimento operazionale) mostrano quanto importante ed urgente sia creare una nuova soggettività costituente per il lavoro come bene comune per interrompere una deriva che sembra inarrestabile.

La sensibilità ecologica a livello internazionale inizia infatti ad emergere nei tardi anni Sessanta e dal punto di vista economico le analisi di Fritz Shumacher, (in origine allievo prediletto di Keynes) dimostrano come le sole ricette coerenti con le esigenze di un modello economico davvero sostenibile vadano cercate in modelli “piccoli e bellissimi”, che privilegiano il lavoro di qualità e la buona distribuzione nelle comunità di riferimento rispetto al modello fordista a capitale concentrato. In effetti Taranto è fin dalle sue origini una tragedia del modello estrattivo a capitale concentrato, fondato su economie di scala e su razionalizzazione di processi produttivi nel quadro di un modello decisionale strutturato in modo da non potersi far carico delle esternalità negative, siano esse di carattere ecologico ovvero sociale. A bene vedere infatti, dopo la sbronza “sviluppista” che un decennio dopo la realizzazione dello stabilimento ne decise il “raddoppio” (in realtà la triplicazione avvenuta nel 1971) in spregio alle prime resistenze del Comune di Taranto che cercò di opporsi negando i permessi edilizi), la questione ambientale (sebbene in parte limitata all’ ambiente di lavoro) fu posta proprio dalle maestranze tarantine. La “vertenza Taranto” nei confronti di Italsider si sviluppò nel 1974 ottenendo pure qualche risultato positivo sotto forma di un accordo contenente una serie di obblighi volti al mantenimento di un ambiente di lavoro più accettabile.

In Italia a partire dai primi anni Settanta la sensibilità ambientale stava pian piano emergendo. Sebbene la Legge Merli, prima normativa a tutela dell’ambiente, dovesse giungere soltanto nel 1976, la giurisprudenza di legittimità e di merito aveva iniziato in materia di immissioni industriali (art. 844 Codice Civile) a considerare il diritto costituzionale alla salute di cui all’Art.32 della Costituzione come immediatamente precettivo (ossia idoneo a conferire diritti azionabili presso le corti ordinarie) e soprattutto non comprimibile o bilanciabile con qualsiasi altro interesse pur costituzionalmente garantito come il lavoro o l’iniziativa economica. L’evoluzione di questa sensibilità capace di comprendere il legame indissolubile fra salute ed ambiente, era iniziata con la c.d. Legge antismog del 1964 e aveva raggiunto il suo punto d’arrivo con la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente nel 1986. In quello stesso torno di anni i giuristi lavorarono alacremente alla costruzione di nuove tipologie di danni risarcibili, tutte indicative di una emergente sensibilità capace di dare rilevanza giuridica alla necessitò di condurre una vita qualitativa in un ambiente sano al riparo da minacce per la salute psichica o mentale. Si sviluppa in questi anni il dibattito dottrinario e giurisprudenziale sulla risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua componente “biologica” (integrità fisica) “morale” (integrità psichica) e infine “esistenziale” ossia legato alla qualità della vita di relazione.

lavoro_beni_comuni_1Paradossalmente, l’identità di interessi fra lavoro, salute ed ambiente, tutte componenti di una visione olistica del territorio (che oggi abbiamo imparato a racchiudere nella nozione di paesaggio ex Art. 9 Cost.), portatore di un interesse di lungo periodo da contrapporsi ad un’iniziativa economica estrattiva, seppur costituzionalmente limitata dall’art. 41 (non può svolgersi in modi da recare danno alla sicurezza alla libertà e alla dignità umana) venne offuscata proprio nel quadro di questa evoluzione giuridica e culturale. La necessità di ancorare la tutela giuridica a diritti soggettivi, pur di rango costituzionale, fece perdere di vista la dimensione collettiva e quella dei doveri sociali, individualizzando il conflitto e mescolando le carte. Fu così che si insinuò la visione di un contrasto di interessi fra lavoro ed ambiente laddove il primo fu utilizzato tramite una classica strategia ricattatoria, cui il sindacato non riuscì a resistere, come scudo ideologico a tutela dell’attività economica imprenditoriale. Da un lato la riduzione della questione ad un conflitto fra diritti ed interessi individuali contrapposti (produrre da un lato, godere tipicamente come proprietario residenziale di aria buona e un bel paesaggio dall’altra) rendeva gli interessi sovra-individuali indirettamente coinvolti (lavoro e ambiente) a loro volta in conflitto. In più, lo Stato Sociale proprio in quegli anni dichiarava di potersi far carico del diritto costituzionale alla salute tramite l’istituzione (e siamo alla metà degli anni settanta) del Servizio Sanitario Nazionale, con ciò spostando la partita nell’ambito del diritto pubblico cosa del resto coerente con la pianificazione urbanistica. Insomma, il limite culturale stava ancora una volta nel racchiudere lo spettro delle possibilità nell’alternativa privato/pubblico, nell’ambito di quella falsa contrapposizione che la teorica dei beni comuni contesta radicalmente.

In questo quadro il lavoro (salariato) venne ridotto ad una mera componente del processo produttivo, importante in quanto “lotta alla disoccupazione” e dunque contrapposto alle esigenze di conservazione dell’ambiente visto come entità statica e conservatrice. La dimensione qualitativa del lavoro come processo di emancipazione, collaborazione alle scelte produttive, guardiano delle condizioni di luoghi e della salvaguardia di salute, ambiente e coesione sociale (qui sta l’importanza del lavoro domestico di cura ad oggi non salariato) viene completamente sminuita nella logica fordista, tanto nel caso di attività economica privata quanto nel caso di quella pubblica a conferma della falsa coscienza nascosta sotto questa contrapposizione. Eppure gli appigli costituzionali non mancano, dall’Art. 43 con il ruolo riconoscibile alle “comunità di lavoratori e utenti” all’Art. 46 con il “diritto dei lavoratori a collaborare nella gestione delle aziende”.

Se l’istituzione di una mega acciaieria separata da una strada soltanto da una antichissima e meravigliosa città, situata in un luogo magico e strategico fra il Mar Grande ed il Mar Piccolo, altro non era che il portato dello spirito e dell’ignoranza (purtroppo assassina) di quei tempi, ben più grave mi pare la responsabilità di chi, nella furia smantellatrice dello Stato-attore economico, nell’ambito della prima orgia di privatizzazioni degli anni 90, decise di vendere Italsider a Ilva, la multinazionale privata del gruppo Riva. Qui non ci sono scuse perché le conoscenze c’erano tutte ed il dovere dello Stato (Governo Prodi) sarebbe stato quello di farsi carico in prima persona della conversione ecologica dell’intera economia dell’area. Infatti, l’immensa area dello stabilimento di Taranto era già stata dichiarata, per legge, zona ad alto rischio ambientale nel 1994 e la vendita avvenne nel 1995. Inoltre perché la vendita della più grande acciaieria Europea, che impiegava oltre 12.000 operai avvenne a prezzo vile, poco più di 700 milioni di Euro, nell’ambito di quella immensa e disonesta operazione di dismissione di patrimonio pubblico le cui conseguenze ricadranno per decenni sulle spalle dei nostri figli. Ma qui il tasso di irresponsabilità fu davvero incredibile. Lo Stato che crede di disfarsi della propria responsabilità di tutela del territorio, della salute e dell’ambiente, sbolognando ad un privato (per giunta senza scrupoli) una attività di tale importanza strategica, moltiplicando così i soggetti coinvolti ed i conflitti di interesse fino a giungere all’attuale stallo.

Ecco qui all’opera la tenaglia distruttrice dei beni comuni, siano essi il territorio, la salute, l’ambiente o il lavoro. Ecco qui la tenaglia micidiale fra proprietà privata e statualità non più sovrana ma ad essa subordinata, contro le cui strategie occorre organizzare la resistenza dei beni comuni.

In questo senso bisogna comprendere e valorizzare il lavoro come un bene comune, un’esperienza collettiva che deve essere capace di emanciparsi dall’alienazione fordista e dall’idolatria produttivistica per farsi avanguardia nella trasformazione del capitale concentrato in beni comuni. Di qui la necessità di socializzazione del lavoro e del reddito, che sono componenti non separabili, se non nuovamente cadendo sedotti dalla fata morgana della modernità. Più volte abbiamo scritto che i beni comuni non sono una merce così come il lavoro non può essere mercificato in mera occupazione retribuita. Il lavoro deve saper divenire commoning dando pieno senso alla componente di condivisione sociale nelle scelte relative alla produzione, nei processi produttivi, e nella grande conversione ecologica che volenti o nolenti siamo chiamati ad intraprendere. Il lavoro bene comune è intelligenza collettiva del fare bene, mettendo al centro quella dimensione qualitativa e ricca di opportunità che Shumacher preconizzava dicendo che “piccolo è bellissimo”. C’è bisogno di moltissimo lavoro per trasformate il capitale estrattivo in beni comuni generativi e partecipativi. Certo, per tutto questo ci sarà bisogno di una regia, ma prima ancora c’è bisogno di istituzionalizzare processi deliberativi condivisi immuni dalla corruzione dall’inerzia o dall’impotenza della rappresentanza che nel caso ILVA ha già dimostrato tutta la sua dannosità. Il lavoro è bene comune se recupera la sua dimensione collettiva e la sua soggettività politica diretta, prendendo coscienza prima di tutto delle strumentalizzazioni tragiche di cui è stato vittima. Non esiste un interesse dell’ambiente e della salute contrapposto a quello del lavoro. Esiste soltanto un interesse predatorio della produzione capitalistica capace di corrompere oggi più di ieri le istituzioni della rappresentanza. Contro il vero antagonista del futuro sostenibile occorre organizzarsi costruendo nel corso di questo processo nuove istituzioni finalmente legittime e generative. Il lavoro (che non è solo quello retribuito tramite l’alienazione capitalistica), se conscio del significato profondo di “farsi bene comune” è la sola forza a nostra disposizione per creare un mondo di reale sostenibilità e condivisione.

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  1. Una versione più breve di questo testo è stata pubblicata sul manifesto del 2 maggio col titolo “I predatori dei beni comuni”.