di GIUSEPPE COCCO

1. Potenza bella contro terribile geometria

Per chi ha vissuto il movimento del 1977 in Italia, l’esperienza delle grandi manifestazioni brasiliane di giugno fa immediatamente pensare al 12 marzo a Roma e Bologna e a quella formula neo-leninista che, più di un anno dopo, Franco Piperno aveva proposto nella Rivista Metropoli. Formula che poi usata dal teorema Calogero del 7 aprile 1979. Se Lenin si era chiesto, che cos’era il socialismo e aveva suggerito: la somma dei soviet e di elettricità e taylorismo, Piperno si chiedeva come fare a mettere insieme “la terribile bellezza del 12 marzo del 1977” con “la geometrica potenza di via Fani” (il sequestro Moro). La formula non aveva soluzione o, peggio, gli rispose la repressione che, sua “via Fani” e lo scellerato omicidio di Moro, organizzò il termidoro del movimento. Perché non aveva soluzione l’equazione proposta da Piperno? Perché dietro la radicalità dell’approccio si nascondeva in realtà una ripetizione dei valori vigenti e addirittura un certo conformismo: la potenza sta dal lato della geometria e del suo ordine, mentre la dimensione radicalmente orizzontale dell’autonomia, seppur dotata di una grande bellezza, si manteneva “terribile”. Anche per il “rivoluzionario” l’autonomia era “selvaggia” e per incontrare la sua potenza avrebbe dovuto “ordinarsi”, cioè trovare le sue coordinate. Ecco dunque il richiamo all’organizzazione geometrica, senza avvertire che, con l’omicidio Moro, essa ripeteva e riaffermava come insuperabile l’orizzonte statale: quello del modo di funzionamento dell’organizzazione armata e, poi, quello della legittimazione della repressione statale.

Il Brasile è terribilmente bello: bello e violentemente attraversato dall’eredità neo-schiavistica. Sono queste le dimensioni pienamente mostruose del Brasile. Ogni volta che ci entusiasmiamo per la moltitudine meticciata che lo popola o per le brecce che un governo “leggermente” progressista talvolta riesce ad aprire, la  violenza furiosa del potere ci richiama ad una tremenda quotidianità fatta di omicidi, torture, sevizie come metodi banali di regolazione biopolitica dei poveri. Quasi ironicamente e molto esplicitamente, la bandiera positivista del Brasile si richiama all’”ordine e al progresso”, cioè all’improbabile geometria della potenza. I poveri selvaggi e i selvaggi poveri sono i soggetti di questa bellezza così “terribile” che dev’essere massacrata tutti i giorni in nome di un “progresso ordinato”. La samba, il sincretismo religioso ed anche il calcio sono sì delle “passioni” nazionali, ma solo nella misura in cui il bello che producono è separato dalla dimensione selvaggia ed omologato. Il movimento del giugno del 2013 è la rottura di questa equazione. Il mostro si è svegliato e ha affrontato queste ambiguità. I corpi belli della moltitudine hanno affermato la loro potenza contro la terribile geometria del potere. È questa inflessione, questa estetica e questa poetica che ci restituisce la lettura del libro di Bruno Cava (A Multidão foia ao deserto. As manifestações no Brasil em 2013 (Jun-Out), Annablume, São Paulo, 2013) la sua lettura non ci offre solo una visione generale o un bilancio delle lotte semi-insurrezionali del periodo che va da giugno a ottobre del 2013, ma ci invita a tuffarci nel ritmo delle lotte, nel loro divenire.

2. Dies septimus nos ipsi erimus!

Per più di dieci anni la moltitudine brasiliana se n’è stata dentro e contro le timide brecce aperte dalle politiche di distribuzione del reddito e di azione affermativa promosse dalle allenze di  governo condotte da Lula e dal PT. Di colpo, quando il governo e l’elite meno se lo aspettavano, se n’è andata in un formidabile esodo costituente. Il consolidamento dell’esperienza Lula durante il governo Dilma Roussef si è mostrato come un successo totalmente paradossale. Da una parte, si è trattato di un’impressionante dimostrazione di forza da parte di Lula che mostra la sua capacità di indicare e “far vincere” dei candidati ben poco rappresentativi dentro il PT e senza nessuna esperienza elettorale. È stato il caso di Dilma nel 2010 e, nel 2012, del nuovo e giovane sindaco di São Paulo, la maggior metropoli del continente sudamericano. Senza Lula, Dilma (e Haddad) non avrebbero avuto nessunissima chance di vincere le elezioni e ancora meno di essere indicati dal partito. D’altra parte, sono proprio i limiti di questo potere di Lula che il movimento di giugno 2013 ha messo a nudo, esplicitando la miseria politica di Dilma e investendo in pieno i tentennamenti tecnocratici di Haddad a São Paulo (dove le manifestazioni contro il prezzo dei trasporti pubblici sono scoppiate inizialmente). Si badi bene: Dilma non rappresenta nessuna inflessione politica notevole e neppure una rottura del progetto e della politica “lulista”. Al contrario, si tratta solo di un Lula senza abilità politica e comunicativa, che si mostra per quel che è e che così esplicita i compromessi che il PT ha dovuto sottoscrivere prima di arrivare al governo federale e, peggio, durante l’esercizio di questo governo. Dilma è una scelta politicamente debole che risponde a tre criteri: non fare ombra al suo “padrino” (Lula); non far esplodere i conflitti tra le differenti correnti e i gruppi di interesse dentro il PT; infine rassicurare – e questo è forse stato il criterio principale – il grande capitale “nazionale” (quello dell’industria paulista e quello dell’agro-business). Per questo, Dilma è stata scelta, contro una candidata fortissima: l’allora ministra dell’ambiente Marina Silva. Il potenziale elettorale di Marina, fondatrice del PT, si è dimostrato proprio nel 2010, contro Dilma, quando totalizzò 20% dei voti validi nel primo turno, come candidata del debole e ambiguo Partito Verde. Ancor’oggi, Marina sarebbe l’unico candidato che avrebbe certezza di portare Dilma al secondo turno, nelle prossime elezioni presidenziali di ottobre 2014. Una certezza che resterà al condizionale poiché il suo Partito Rete (Partido Rede) non è stato ammesso alla gara elettorale grazie ad un’opportuna (sic) decisione della “giustizia elettorale” che rifiutato di riconoscerne la costituzione formale.

Con Dilma, il compromesso neoliberista e le illusioni neosviluppiste pensavano di aver trovato una nuova sintesi. Le trasformazioni della composizione sociale del lavoro erano così ridotte alle dimensioni statistiche e elettorali della “nuova classe media”, alle quali doveva corrispondere uno sviluppo del grande capitale, dei grandi lavori e dei grandi “eventi” sportivi. La gestione autoritaria e tecnocratica di queste politiche che passano come un trattore sui poveri e gli indios, è solo la faccia più esplicita del logoramento del ciclo del PT e dei suoi alleati. Un logoramento che mette l’esperienza di governo del PT sullo stesso livello dei nuovi governi del subcontinente, in particolare l’Argentina (dove la crisi non è ancora scoppiata, ma cova sotto le braci) e il Venezuela (in preda ad una crisi irreversibile della quale non si possono prevedere gli sviluppi). Il PT (così come il kirchnerismo e lo chavismo) non crede più (o non ha mai creduto) alla mobilitazione democratica come terreno concreto non solo di vittorie elettorali per la gestione degli stessi iniqui valori, ma di trasformazione del mondo, di creazione di altri valori, di produzione di un’altra moneta. Così, la retorica chavista del “socialismo del secolo XXI” nascondeva in realtà l’incapacità del chavismo di sostituire all’asse statale (l’esercito) un’effettiva mobilitazione democratica, l’unica capace di dare alla timida distribuzione della rendita petrolifera una dimensione produttiva adeguata. La stessa cosa, ma in termini differenti, sta succedendo in Argentina, dove kirchenerismo si è impantanato in un keynesianismo zoppo, incapace di incontrare un moltiplicatore democratico e obbligato a risolvere l’impasse macro-economica attraverso la manipolazione delle statistiche.

Il Brasile di Dilma e Lula non è ancora il Venezuela post-chavista ma non può più contare sulle esitazioni dei poveri come nell’Argentina del crepuscolo del kirchnerismo. Peggio che in Argentina e come in Venezuela, conosce una violenza civile (equivalente ad una guerra di bassa intensità) che costituisce una tremenda relativizzazione dei miglioramenti statistici prodotti dai governi Lula (pieno impiego, diminuzione della disuguaglianza ad un ritmo superiore di quello della crescita del PIL). Fino a giugno, l’arroganza economicista e tecnocratica dello sviluppismo neoliberale portava il Brasile sullo stesso cammino dell’Argentina, credendo che il controllo delle dimensioni sociali delle impasse economiche (l’inflazione dei prezzi) potesse risolversi attraverso il vecchio trucco della manipolazione del termometro. Oggi, dopo giugno, la militarizzazione e la repressione della piazza mostra l’orizzonte venezuelano di una possibile svolta autoritaria davanti al persistere delle mobilitazioni di massa. Di fronte alla moltiplicazione di lotte di resistenza nelle città e nella foresta, Dilma spesso ironizzava: “Non si governa con le illusioni e le fantasie!”. Ed ecco il grande risultato della sua gestione razionale: i tassi di interesse sul debito pubblico (lo spread) sono tornati ai livelli stratosferici di quando cominciarono le sue politiche di sussidio alla grande industria mentre adesso il Brasile conosce anche l’inflazione dei prezzi. La moneta riflette ormai, da tutti i lati, una relazione sociale logorata e senza uscita. Una vera impasse davanti alla quale le uniche aperture vengono dalle lotte della moltitudine. La costituzione della moltitudine è la vera e unica alternativa alle tecniche neoliberali e alle illusioni sviluppiste. La moltitudine produce alternative perché è capace di fare della democrazia e quindi della pace il terreno di un’altra mobilitazione produttiva. Dies septimus nos ipsi erimus!  La moltitudine dice: siamo noi quelli del settimo giorno che non è ancora avvenuto. Proprio in questo momento (11 aprile 2014), a Rio de Janeiro, migliaia di poveri senza casa osano resistere contro  la violenza della polizia durante lo sgombero di un’occupazione.

3. Uscita e liberazione!

Ecco dunque affermarsi il “paradigma del deserto”: nel nulla del possesso, solo la lotta e la condivisione di questo nulla permetteranno di costruire una capacità nuova di orientarsi dentro l’inedito. L’amore è un frutto del deserto. Nel deserto ha luogo l’incontro con ciò che non è nominato e non è nominabile: l’emergenza selvaggia della classe senza nome. Quello che fino a quel momento sembrava impossibile, era già maturato nel grembo delle trasformazioni materiali della nuova composizione di classe. Non una nuova classe media, come dicono gli economisti neoliberali alleati del governo neosviluppista e gli esperti di marketing elettorale, ma una nuova composizione del lavoro metropolitano. I successi elettorali di Lula (il “lulismo”) contengono un fenomeno ambivalente: da una parte un lulismo statale, dall’altro un lulismo selvaggio, quello dei poveri. Nel lulismo ha dunque luogo una centralità paradossale dei poveri. I poveri hanno cominciato a essere – anche se poco e insufficientemente – riconosciuti con politiche di democratizzazione dell’accesso ad alcuni servizi e di riduzione della diseguaglianza. Ma questo “riconoscimento” era immediatamente omologato dentro i valori estenuati del capitalismo globale e della sua improbabile e “nuova” classe media. La nuova classe media doveva quindi essere ricondotta alla faccia statale del “lulismo”, ai suoi sovvenzionamenti alla grande industria, ai grandi lavori e mega-eventi sportivi. Per il lulismo statale, i poveri e la favela si sono trasformati nella nuova frontiera, il giacimento per un nuovo tipo di estrattivismo.

Nell’esodo, nella povertà assoluta resta solo la produzione di soggettività, la cura di sé e degli altri: un orizzonte dunque pieno di attese, ma anche d’incognite. Il libro di Bruno Cava è stato scritto su questo terreno, nel bel mezzo dell’esodo, tra un’assemblea e una manifestazione, tra gli slogan e i lacrimogeni, tra la repressione e la grande innovazione che è stata la determinazione dei giovani a resistere, a fare della piazza un momento intempestivo di costruzione democratica.

La sua lettura ci porta direttamente dentro l’esodo perché è stato scritto mentre la carovana si preparava, partecipando quindi alla trasformazione delle attese, allo scioglimento dei dubbi e delle incognite. Il libro è composto da una raccolta di articoli scritti nel calore delle lotte. Articoli che fanno scelte e indicano sentieri, correndo il rischio di perdersi insieme alla moltitudine che cominciava a costituirsi nelle piazze brasiliane e particolarmente in quelle di Rio de Janeiro. Si tratta di articoli scritti (e pubblicati nel blog dell’autore e in quello di Uninomade Brasil) nel periodo che va dall’inizio di giugno alla fine di ottobre 2013: cioè dall’inizio del ciclo di lotte apertosi con piccole e gigantesche manifestazioni contro l’aumento delle tariffe dei trasporti (un aumento di 20 centesimi!) fino all’inflessione di ottobre, quando la moltitudine che occupava le strade di Rio de Janeiro con manifestazioni, occupazioni, scontri si ibridizzava con la lotta dei maestri e professori delle scuole elementari e medie dello Stato e della città di Rio. Un ciclo che ha incontrato il suo baricentro iniziale a São Paulo per spostarsi rapidamente a Rio de Janeiro sin dalla seconda metà dello stesso mese di giugno. Ogni linea è stata scritta nel calore delle manifestazioni, quando il fumo dei lacrimogeni non si era ancora diradato e le piaghe delle pallottole di gomma e di piombo erano ancora aperte nelle carni dei manifestanti. Leggendo il libro ci troviamo nel bel mezzo del divenire del movimento. Non è un libro sul movimento ma una delle sue manifestazioni potenti. Non cronache ma prese di posizione, proposte per una linea di condotta di fronte agli sviluppi possibili e alle sfide che si presentano, sempre dentro il vissuto della lotta. La diacronia dell’evento è colta in tutta la sua sincronia.

4. La ricchezza del mondo nel tumulto democratico

La lettura del libro di Cava ci porta direttamente dentro l’evento e il suo costituirsi, permettendoci di coglierne la potenza, sin dalle sue prime manifestazioni, quando nessuno si aspettava che le poche centinaia di manifestanti si trasformassero in una formidabile onda anomala con decine di milioni di persone nelle strade di tutte le grandi e piccole città brasiliane. Quando Cava afferma, nel primo articolo (17 giugno 2013) che “la migliore uscita” dalla violenza inumana del sistema di trasporti metropolitani è costituita dai “movimenti e dalle lotte” ha davanti a sé una piccola mobilitazione di poche decine di giovani nel quartiere centrale della megalopoli di Rio de Janeiro. Quantitativamente, quel centinaio di giovani è ben poca cosa, quasi niente in una città che conta – con la miserabile regione metropolitana che gli sta addossata – circa 10 milioni di abitanti. La prima manifestazione è numericamente irrilevante, ma contiene una dimensione qualitativa nuova ed esplosiva: proprio perché i corpi dei poveri, triturati dall’iniquo sistema di trasporti e di sfruttamento amplificano nella mobilitazione la loro capacità di comunicare la loro esperienza e in questa misura producono altra esperienza.

La ricchezza del mondo che la lotta produce permette di narrare la politica dei corpi a partire proprio dalla sua manifestazione più democratica: il tumulto machiavelliano. Ecco la grande innovazione: la piccola mobilitazione è una vera e propria scintilla di una nuova determinazione costituente: “non siamo scappati più!”, come diceva la canzone sulla battaglia di Valle Giulia! La novità è qualitativa e intensiva. Assistendo alla resistenza dei corpi di questo centinaio di giovani, Bruno Cava coglie la ricchezza del movimento, ne anticipa la tendenza e afferma la necessità di continuare nella lotta. Nella seconda manifestazione (15 giugno) i manifestanti sono ancora pochi, ma già formano uno sciame che trasborda i piccoli partiti della sinistra di opposizione e tutte le forme di organizzazione tradizionale. La polizia carica con tutto l’arsenale di lacrimogeni, bombe “assordanti” e pallottole di gomma. Lo sciame autonomo si disperde. Ma questa volta la violenza della repressione è proporzionale alla sua debolezza davanti al farsi della moltitudine. Bruno scrive e anticipa: “non sarà certo un’azione truculenta di repressione che smobiliterà (…) tutto questo potenziale di disseminazione. Perché torneremo. La paura sta cambiando lato. Altri verranno sicuramente per rafforzare questo presente convulsivo”. Era una diagnosi e un appello. E molti altri arrivarono: solo due giorni dopo (il 17 giugno) il centro di Rio è attraversato da un fiume in piena, mentre centinaia di migliaia manifestano in tutte le città del paese. Il ciclo globale delle lotte è arrivato in Brasile, dopo aver fatto scalo a Istanbul. E la mobilitazione non si risolve in un grande happening: decine di migliaia marciano autonomamente dalla piazza della dispersione (finale del corteo) verso la sede del Parlamento dello Stato di Rio (ALERJ) e la prendono d’assalto. “La potenza della moltitudine era indescrivibile. Una forza anche costruttiva che trasformava tutti. Ogni giorno sono mobilitate l’economia affettiva di autovalorizzazione, l’autonomia e il desiderio di ulteriori conquiste”. Il 20 giugno, le manifestazioni arrivano al loro auge di massificazione e diffusione e il processo destituente comincia ad affrontare la sfida della sua trasformazione in momenti costituenti. Le mobilitazioni nazionali persistono soprattutto a Rio dove il movimento si diffonde in attività quotidiane: assemblee popolari, occupazioni del Consiglio Comunale, “acampadas” davanti alle residenze ufficiali e private del governatore e del sindaco, innumerevoli cortei con moltiplicazione sistematica della repressione e della resistenza.

Tra giugno e ottobre si è formato un movimento senza leader, radicalmente orizzontale, che ha rinnovato l’antica affermazione: tutta l’assemblea dev’essere santa! Nel movimento ha luogo una trasformazione antropologica opposta a quella che tanto temeva Pasolini. Come ci diceva la narrativa biblica, “gli uomini e le donne che giungono a Canaan sono, sia letteralmente sia metaforicamente, uomini e donne diversi da quelli partiti dall’Egitto”. Bruno, che all’inizio ci parla della violenza del sistema di trasporti parla poi della violenza del potere, di questa terribile realtà neo-schiavistica e razzista che ancora definisce l’ontologia del biopotere in Brasile. I poveri in Brasile non hanno diritto di far politica. Se il cinismo dell’elite e della sua stampa era scontato, gli strilli del governo, del PT e dei suoi (pochi) intellettuali organici contro le minacce golpiste e fasciste sono stati vergognosi e, ancora peggio, complici del blocco del biopotere. Nessun bisogno di fascismo: il potere il Brasile, quello vero, già è peggiore del fascismo: la tortura, il sequestro e l’omicidio dei poveri è una moneta inflazionata sullo stesso livello dello spread. È questa inflazione della violenza del potere che alimenta l’inflazione finanziaria e monetaria. È questo che la moltitudine ha osato sapere nella misura in cui ha saputo osare: resistere!

La resistenza dei giovani che si sono costituiti in moltitudine e dei poveri che hanno osato lottare è la grande novità: l’eccezione democratica. Una sofferenza che vuole smetter di soffrire. I giovani mascherati sono una moltitudine di Giobbe che han deciso infine di mettere in dubbio una giustizia dove il cattivo prospera e il giusto è violentato. I giovani che resistono nelle piazze ci dicono allo stesso tempo che il male non esiste, che si tratta di una “carenza divina” che dipende dalla nostra incapacità di produrre e affermare il bene.  È questa pace che le mobilitazioni di giugno – ottobre hanno indicato. È su questo terreno che la moltitudine continua a mobilitarsi e organizzarsi in tutte le città del Brasile e del ciclo globale di lotte iniziato dalle primavere arabe.

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