di FEDERICO TOMASELLO.

[Domanda-FT] Riprendiamo il nostro dialogo sulla metropoli iniziato con La comune della cooperazione socialeintervista pubblicata ad aprile su EuroNomade. Facciamolo anche a partire dagli stimoli provenienti dagli interessanti ‘commenti’ in merito proposti da Ugo Rossi, che solleva essenzialmente tre critiche all’impianto del tuo ragionamento sulla metropoli [riportiamo il testo in calce alla presente intervista]. La prima è un rilievo con cui immagino tu abbia una certa familiarità, ormai: riguarda la possibilità che l’enfasi su lavoro cognitivo e terziario avanzato conduca a non cogliere, o trascurare, il carattere variegato delle forme della produzione nel capitalismo contemporaneo…

[Risposta-AN] …Ma io non intendo negare le diversità sociali che convivono all’interno della metropoli capitalista, né quelle dei modi di vita che sono esposti alla cattura del capitale estrattivo. È evidente che questi sono variegati e molteplici. Il problema però non è semplicemente di stabilire queste differenze, ma di comprendere come esse si sviluppano nella tendenza, e quale fra loro rappresenti l’elemento prevalente nella tendenza. Il metodo marxista è sempre stato qualificato dall’analisi di tendenza. A me sembra che nella metropoli contemporanea si possa astrarre – porre come elemento di tendenza – proprio il terziario avanzato, rispetto al quale tutte le altre dimensioni si collocano, non in maniera lineare, ma in ogni caso lo subiscono, certe volte gli resistono, comunque ne sono captate. È fuori dubbio, ad esempio, che convivano all’interno dello spazio capitalistico di accumulazione metropolitana anche i ‘mercatali’, ma è altrettanto evidente come anch’essi siano legati in maniera sempre più forte a quelle che sono nuove forme di calcolo, alle nuove condizioni bancarie e di mercato legate, ad esempio, al nuovo sistema logistico. Quindi, su questo tema, concordo con Rossi, e tuttavia insisto sul fatto che le differenze a livello metropolitano non sono necessariamente ‘caotiche’, ma possono essere lette in tendenza verso i servizi superiori.

 

Si potrebbe insomma dire che a fronte di questa eterogeneità – che evidentemente c’è – nelle forme del lavoro, si può e si deve però cercare di osservare una tendenza comune nei meccanismi di valorizzazione del capitale, che investe, pur in misura diversa, i molti profili dello sfruttamento?

Esattamente. Io insisto sul fatto che dal punto di vista epistemologico dobbiamo distinguere due prospettive: quella fenomenologica, descrittiva, che osserva e registra, nel caso della metropoli, una pluralità di soggetti, modi di produzione ed estrazione del valore. E poi il punto di vista tendenziale, ma anche induttivo e progettuale, che individua e afferma la ‘volontà di conoscenza’ come elemento fondamentale nel ricomporre politicamente i soggetti. Guardo sempre le cose da due punti di vista: descrittivo da una parte, e ricompositivo, dall’altra, vale a dire progettuale, pratico, insomma politico. Di fronte a un fenomeno, non mi pongo solamente il problema del ‘com’è’ ma anche del ‘come possa essere trasformato’. E per trasformare occorre assumere che la condizione presente è sempre passibile di apertura, di rottura, di nuova produzione.

 

Il tema della tendenza è allora tutt’uno con quello della ricerca dei dispositivi pratici di iniziativa politica…

Sì, è ciò che nella filosofia foucaultiana si chiama ‘dispositivo’, nel lessico kantiano ‘sintesi a posteriori’, e nel linguaggio marxiano è ‘astrazione determinata’ unita al riconoscimento della tendenza.

 

Hai parlato dei modi di estrazione del valore, del tema dunque dell’‘estrattivismo’, su cui ti eri soffermato a lungo nella Comune della cooperazione sociale, e su cui ti chiederei di spendere ancora qualche parola, in particolare per chiarire il modo in cui sei arrivato a conferire centralità a questa problematica.

Il tema dell’estrattivismo, dell’estrazione capitalista del valore sullo spazio intero della vita sociale, a me è pervenuto in modi diversi: attraverso Harvey, Balibar, e attraverso il discorso sulla spazialità mobile dello sfruttamento capitalista e dell’organizzazione dei mercati di Neilson e Mezzadra. Elementi teorici grossi che per me sono diventati importanti nella misura in cui, ragionando su Marx, ho insistito sull’elemento cooperativo come produzione di surplus, di eccedenza, rispetto alla definizione stretta di plus-lavoro e di plus-valore. E poi, da un altro lato, lo studio dei fenomeni finanziari include – al di là della convenzione finanziaria, chiusa in sé e relativamente autosufficiente – un riferimento al valore che copre tutto quello che è prodotto nelle società: e quindi, se la forma privilegiata di società produttiva è quella metropolitana, la forma finanziaria di cattura del valore e/o di accumulazione di plus-valore, non può che essere estrattiva. La cattura del valore si riferisce ad uno spazio, allo spazio della moltitudine, piuttosto che a un luogo, il luogo della fabbrica. E si aggiunga poi l’estrattività come ‘estrazione mineraria’, vale a dire come estrazione di nuove materie prime – meglio, come estrazione e sviluppo dello sfruttamento dei beni comuni.

 

Veniamo alla seconda questione sollevata da Rossi, inerente al ruolo del settore immobiliare, che tu tenderesti a sottovalutare nell’analisi dei processi in atto e della tendenza.

L’immobiliare è senza dubbio importantissimo, centrale, e con tutta probabilità funziona o può aver funzionato in termini anti-ciclici, soprattutto quando l’investimento immobiliare passa attraverso derivati bancari e altri strumenti speculativi forsennati che il capitale ha utilizzato nell’ultima fase ciclica di crescita. Però si deve stare attenti. È vero che in Brasile come ad Istanbul l’investimento immobiliare ha costituito una sorta di febbre dell’oro capitalistica, però lo è anche il fatto che esistono dei limiti drammatici. Per esempio, a San Paolo o Rio, l’uso degli elicotteri è più intenso per spostamenti cittadini che in tutto il resto del mondo, mentre a Istanbul sono costretti alla moltiplicazione dei ponti sul Bosforo, come unica maniera per rendere ancora appetibile la parte europea della città. Quindi, è vero che il settore immobiliare ‘tira’, ma determinando ormai una tale ‘densità’ del tessuto metropolitano da renderlo talora intransitabile o inabitabile. La mia ipotesi è dunque che il costo dei servizi urbani, in tempi abbastanza veloci, schiaccerà il prezzo dell’immobiliare. A meno che le lotte e i conflitti urbani non costringano a ‘rispettare’ la metropoli e a permetterne una fruizione libera e gioiosa indipendentemente dal valore dell’immobiliare.

 

Il nodo sarebbe insomma il ‘costo’ del comune, dei servizi, della metropoli in sé, assai più che quello dell’immobiliare. E anche quest’ultimo – come il tema della gentrificazione – dovrebbe allora essere osservato anzitutto dal punto di vista dei costi di riproduzione della metropoli…

Precisamente, ed è per questo che il ‘sindacalismo sociale metropolitano’ deve giocare anche l’aumento dei ‘costi metropolitani’: perché questi abbattono, distruggono il valore dell’immobiliare – essi rappresentano (rettamente intesi – e qui la funzione di un’urbanistica critica è essenziale) il comune espresso contro il privato. Quando, ad esempio, a San Paolo gli abitanti si battono per una diminuzione del costo dei trasporti, si battono evidentemente per un aumento del ‘costo capitalistico’ della metropoli. Per questo stiamo parlando di processi che, si badi bene, sono estremamente aperti, perché sono sempre decisi dalle lotte. La tendenza è sempre una tendenza di lotta, ad espandere e ad approfondire il rapporto di capitale: è in sé antagonista. È per questo che ho sempre difficoltà a capire un ordine fenomenologico posto contro un ordine ‘di dispositivi’. Non credo che il realismo sia il rispecchiamento del reale.

 

Hai citato il Brasile, appunto, da cui, anche stavolta, sei appena tornato: hai qualcosa da aggiungere sul tema rispetto a quello che abbiamo messo a fuoco nella Comune della cooperazione sociale, in particolare alla luce degli avvenimenti di questi giorni?

Lì mi pare adesso fondamentale la ‘trazione’ delle lotte che investono il tessuto metropolitano dal punto di vista dei poveri: la forza di trazione che le lotte dei poveri hanno su quelle delle altre minoranze. Sono le lotte dei poveri che fanno esplodere quelle dei tranvieri, dei professori, di tutte le vecchie categorie sindacali che son diventate anch’esse minoranze all’interno della metropoli e vengono ora trainate dalle lotte dei poveri. Questo è l’elemento centrale e qualitativo. Qui si va rovesciando l’assunto socialista classico che sempre vede strati di classe operaia come elemento trainante: nei BRIC questo non avviene, e quando avviene, spesso sono lotte che esprimono rivendicazioni di classe media. Qui invece sono trainanti le lotte dei poveri, non in quanto lotte degli esclusi, ma in quanto lotte dei più inclusi nella realtà metropolitana.

 

Puoi aggiungere qualcosa riguardo a questo discorso sulle ‘minoranze’?

Mi sembra sia importante insistere sul fatto che quando si dice che il reddito (quello garantito, ad esempio) costituisce una misura generale e aperta e una condizione di produttività metropolitana, è chiaro che non si tocca specificamente il diritto di donne, LGBTQ, o subalterni in quanto tali, ma che li si considera in quanto abitanti di una città. Io penso che abitare una città sia elemento non contraddittorio con il fatto di esservi come minoranza. Non sono le minoranze che, in quanto tali, producono il comune, ma il comune è prodotto dell’attività della moltitudine metropolitana, essa stessa assemblaggio di minoranze.

 

Veniamo al terzo punto – il più interessante – sollevato da Rossi riguardo alla nostra intervista, quello inerente al rapporto comune/diritto alla città, e poi la proposta di ragionare, più che in termini di ‘ricomposizione’, di ‘assemblaggio’ di lotte e differenze irriducibili a unità.

È un commentario molto interessante, ma si basa sul presupposto che il concetto di moltitudine sia un unum, un concetto unitario, mentre la moltitudine è in se stessa una macchina di differenze. Io chiamo moltitudine un insieme di singolarità che producono attraverso incontri e momenti di cooperazione nella città. Momenti di cooperazione che costituiscono comune. Nella società dove il capitale cognitivo si è affermato, la condizione metropolitana presuppone gradazioni di “comune” così come può produrre più alte combinazioni comuni. Il capitale si nutre del comune ed è anticipato dal consolidarsi e dall’aumentare della cooperazione sociale.

Ora, mi sembra che il ‘diritto alla città’ corrisponda ad una fase molto più arretrata di densità cooperativa nella metropoli. Penso in effetti che autori come Merrifield o Brenner colgano nel segno quando insistono sul fatto che l’urbanizzazione e l’incontro tra differenze sono il vero elemento produttivo nella metropoli, ne costituiscono il ‘polmone comune’. Ora, c’è da fare qui un’osservazione che credo permetta di chiarire alcuni equivoci: quando dico che la metropoli sta alla moltitudine come la fabbrica alla classe operaia, faccio un’analogia per quanto riguarda fabbrica e metropoli (entrambe sono insiemi caotici dai quali si ricava produzione), mentre faccio una metafora per quanto riguarda la moltitudine. Se si trattasse anche in questo caso di analogia, si potrebbe in effetti sospettare che la moltitudine fosse considerata qualcosa di potenzialmente unitario, organico, come era la classe operaia. E invece il concetto di moltitudine è stato elaborato proprio per determinare un dispositivo di ‘assemblaggio’ delle singolarità secondo la serie esistenze-resistenze-incontri-cooperazione-produzione di soggettività. Quando si parla di un salario minimo garantito aperto in tutti i settori produttivi, o di reddito garantito, si parla di una base a partire da cui le differenze e gli incontri, le cooperazioni e le produzioni, possano essere garantite nella metropoli.

 

E come la moltitudine, mi verrebbe allora da dire, anche la metropoli ha da essere intesa, scusa se banalizzo, come concetto politico prima ancora e assai più che come nozione ‘urbanistica’…

… Le tecniche di ‘assetto urbano’ possono essere lette in maniera diversa – ciò non toglie tuttavia che l’intervento tecnico sulla città sia essenziale da infiniti punti di vista. Ma resta il fatto che quando si dice ‘metropoli’ si esprime un concetto biopolitico, fino in fondo, con esso si intendono insieme gli spazi, le temporalità, le consistenze tradizionali, le dimensioni storiche, le concretizzazioni culturali eccetera. Ogni volta che guardo fuori dalla mia finestra qui a Parigi, in questa enorme metropoli continua estesa su tutta l’Ile-de-France, riconosco strati di storia, di lotte, di diritti acquisiti, di consolidamenti civili. E oggi gran parte della popolazione abita in agglomerati metropolitani, il modo di vivere metropolitano è diventato ormai ‘senza alternative’ nel senso più netto della parola. Non c’è più fuori dalla metropoli come non c’è più fuori dal capitalismo. La metropoli come elemento connettivo dal punto di vista produttivo, come determinante il surplus valorifico di accumulazione estrattiva, è l’elemento economico centrale. Da questo punto di vista  sono ancora legato alla lettura della struttura metropolitana proposta da Koolhaas: un enorme apparato produttivo accompagnato da un’accumulazione di ‘detriti’ che tuttavia servono essi stessi a creare la produzione urbana. Ma non bisogna, se seguiamo un metodo tendenziale, esagerare il peso dei detriti e dei residui, dei punti di deriva e di caduta nel connettivo metropolitano, bensì considerarli come macchine produttive, come differenze macchiniche che paradossalmente si pongono al livello più alto della produzione metropolitana. Il fatto che non ci sia più fuori dalla metropoli capitalista, non nega (come fanno i sociologi francofortesi da quasi un secolo ormai) che dentro il capitale ci sia sempre resistenza e che il concetto stesso di capitale (soprattutto, con più alta evidenza, quello metropolitano) sia concetto di lotta di classe. Un esempio classico è quello dell’altissima intensità produttiva delle favelas brasiliane: è quello che ha determinato lo shock delle attuali lotte. Le lotte metropolitane devono essere tutte osservate dentro il conflitto che riguarda il rapporto fra esistenza collettiva, modi di vita delle singolarità, resistenza, incontri, cooperazione e differenze di produzione di soggettività versus dominio e gerarchia del capitale. Tutto questo determina quel concetto aperto che è il comune. Su questo son d’accordo con Rossi quando dice che il comune è una macchina di differenze. Lo è perché il comune è il prodotto della moltitudine.

 

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Ugo Rossi – commento a Negri sulla metropoli

7 maggio 2014 alle ore 11.26

Vorrei sollevare tre punti a commento di quest’interessante intervista (https://www.euronomade.info/?p=2185) .

1. Capitalismo & città/metropoli. Mi sembra che Negri riduca il ruolo della città/metropoli a contenitore del terziario avanzato dal quale si produce il lavoro cognitivo, il cognitariato che poi si manifesta collettivamente nella forma della moltitudine e del comune. Questo è accettabile ma dice solo una parte della storia. In realtà il capitalismo contemporaneo è una forma di produzione molto più “variegata” rispetto a quella che considera Negri: in esso coesistono logiche diverse di accumulazione capitalistica. Nella città capitalistiche dell’Occidente, ma anche delle economie emergenti, convivono forme e modalità diverse di capitalismo: dal terziario avanzato e il lavoro cognitivo, al settore immobiliare e alla manifattura più dinamica e innovativa, fino al settore informale, molto importante soprattutto nel Sud globale, ma anche nei paesi di area mediterranea (v. il ruolo dei “mercatali” nelle proteste di Torino nel dicembre scorso). Svolgere un’analisi materialista della città come spazio di accumulazione capitalistica significa tener conto delle diversità del capitalismo che convivono al suo interno.

2. Città/metropoli & settore immobiliare. Negri ritiene che il ruolo del settore immobiliare come comparto-chiave del capitalismo finanziarizzato contemporaneo sia eccessivamente enfatizzato da Harvey e altri marxisti convenzionali. Questa critica è in parte accettabile, sebbene sia indubbio che vi è una tendenza di lungo periodo nell’economia statunitense a servirsi del settore immobiliare quale settore di traino, “anti-ciclico”, dell’economia nazionale e di riflesso anche di quella globale, considerato il ruolo-guida degli Stati Uniti nell’economia mondiale. Inoltre, le lotte recenti in luoghi molto diversi come il Brasile e San Francisco ad esempio contro la gentrification e l’aumento del costo della vita mostrano come quello della valorizzazione urbana sia un terreno di conflittualità che va tenuto in considerazione.

3. Diritti alla città vs. comune. Negri ritiene che il tema dei diritti della città sia superato, perché legato all’era fordista-keynesiana e che oggi si debba porre il tema del comune, in qualche modo deterritorializzato rispetto a quello dei diritti alla città, che rivendicavano l’accesso ai servizi collettivi necessari alla riproduzione sociale (trasporti & mobilità, abitazioni popolari etc.). Trovo che tale tesi abbia alcune affinità con quanto ha sostenuto un urbanista-geografo marxista Andy Merrifield (“Crowd politics, or ‘here comes everybuddy'”, New Left Review, n. 71, 2011). Merrifield non muove dalla lettura del capitalismo che propone Negri, ma giunge a conclusioni simili. In breve ritiene che l’idea lefebvriana del diritto alla città sia al tempo stesso troppo larga e astratta per chi oggi si mobilita nelle nostre città, che può muoversi a una scala di quartiere (ad es. Gezi Park), o troppo stretta per chi guarda a una scala più ampia della città (es. le rivolte arabe), anche perché la città oggi è diventata un elemento pervasivo tale da annullare la dicotomia urbano-rurale che Lefebvre ancora considerava dirimente [Merrifield e altri come Neil Brenner usano la categoria di “urbanizzazione planetaria”, non tanto per indicare il fenomeno demografico di espansione urbana, come nelle tesi sull’ “urban age” delle Nazioni Unite e altri, ma soprattutto per indicare l’egemomia culturale delle città come luogo di elaborazione di politiche di sviluppo capitalistico di circolazione globale]. Merrifield sostiene che la città sia da intendersi come spazio elettivo della “politica dell’incontro” tra soggettività diverse piuttosto che come terreno di rivendicazione del diritto alla città. Questa tesi, come quella di Negri, merita attenzione. Tuttavia, credo che entrambe queste posizioni siano riduttive. Studiosi delle città globali come Engin Isin e altri hanno mostrato l’attualità delle lotte per i diritti alla città (al plurale) messe in campo da una varietà di gruppi sociali e minoranze (donne, gay, minoranze etniche e immigrati, senzatetto e senzalavoro, subalterni di vario tipo etc.). Secondo Isin, la città globale è una “macchina della differenza” che reinventa continuamente la pratica della cittadinanza urbana (E. Isin (2002) Being political. Genealogies of citizenship). Secondo me ciò non è in contraddizione con l’idea di “comune”, se poniamo il tema del comune in termini che siano rispettosi della “macchina della differenza”. In altre parole, possiamo concepire il comune come un “assemblaggio” di (lotte per) diritti alla città? Per fare questo però dobbiamo liberarci di una visione monolitica del capitalismo (vedi punto 1.) e concepire il capitalismo come un’entità variegata, per cui le lotte che esso genera sono anch’esse differenziate e in quanto tali “irrapresentabili”, irriducibili ad unum (la moltitudine). Per questo motivo, dal punto di visto politico (il comune) bisogna ragionare in termini di “assemblaggio”, anziché di “ricomposizione”, come invece fa la “scuola” (post)operaista.

 

 

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